Definirmi una copia è mancarmi di rispetto.
Io sono unica.
E oltretutto più umana, più bella, più hermosa insomma.
Giudicherete voi.
Comunque è stato appurato che siamo nate più o meno nello stesso periodo.
Sì, quasi gemelle.
Quasi gemelle, ma non proprio uguali.
Lei è un centimetro in più in altezza e quattro centimetri in meno in larghezza.
Forse per il fatto che abbiamo due padri diversi.
Il mio molto più giovane.
Probabilmente un allievo dell’altro, il suo maestro.
Siamo nate entrambe tra il 1503 e il 1504 a Firenze.
Lei più sfumata.
Io più semplice, più compatta.
Come detto, da padri diversi.
Forse sotto la supervisione del maestro.
Quel che è certo è che i miei colori sono più nitidi.
Oggi mi trovo a Madrid.
Non sono arrivata al Museo del Prado in tempi recenti.
Si sa che all’apertura del Museo, nel 1819, io ero già qui.
Qualcuno avanza l’ipotesi che sia arrivata in Spagna portata da un certo Pompeo Leoni, scultore italiano.
Comunque sono catalogata come opera in possesso della Spagna dal 1666.
Mi vedete sotto. Come dite?
Sono molto diversa dalla mia gemella?
Ho lo sfondo nero, niente a che vedere col paesaggio dipinto da Leonardo alle spalle dell’altra?
Un attimo. Andiamo con ordine.
Avevo lo sfondo nero.
Perché qualcosa è cambiato nel 2010, quando il Louvre chiese di potermi esporre in occasione di una mostra dedicata a Leonardo.
Prima di farmi partire decisero di restaurarmi un pochino.
Fu così che venne alla luce qualcosa di straordinario.
Sotto quel nero c’era esattamente lo stesso paesaggio dell’altra mia gemella.
Quello che fece propendere per un dipinto realizzato nello stesso periodo furono i “pentimenti”.
Avevo le stesse correzioni fatte da Leonardo sulla sua Monna Lisa.
Questo dimostrava che l’alunno era presente nello stesso momento in cui Leonardo lavorava sulla Gioconda.
Cancellando e rifacendo alcune parti, proprio come il maestro.
Chi era l’allievo?
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che fosse Andrea Salaino.
Andrea Salaino.
I milanesi, e non solo loro, Andrea Salaino lo conoscono bene.
Lo hanno visto mille volte ai piedi del monumento dedicato a Leonardo Da Vinci in Piazza della Scala.
Un monumento realizzato dallo scultore Pietro Magni e inaugurato nel 1872.
In alto Leonardo e sotto i suoi quattro allievi più famosi.
Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d'Oggiono, Cesare da Sesto e... appunto lui, Andrea Salaino.
Già. Peccato che Andrea Salaino non sia mai esistito.
Tutta colpa di uno storico dell’arte di fine ‘500, credo.
Suo l’errore.
Il Salaino, allievo preferito di Leonardo entrato in bottega a dieci anni, si chiamava in realtà Gian Giacomo Caprotti.
A Milano c’è anche una via dedicata ad Andrea Salaino, pittore mai esistito.
Una via salita tragicamente alla ribalta perché proprio lì è stato ucciso Walter Tobagi alle ore 11 del 28 maggio 1980.
Dove eravamo rimasti? Ah sì.
Come vi dicevo non siamo perfettamente uguali.
Come potete vedere il paesaggio in alto a sinistra è posizionato più in alto rispetto al viso di Leonardo.
E a proposito del viso il suo è più tondo, più paffutello, il mio più allungato.
Lo so cosa state pensando.
“E allora perché la tua gemella parigina è più famosa di te?”.
Beh, diciamo che a farla diventare un vero mito, uno dei quadri più visti al mondo, è stato un ladro, maldestro e pasticcione.
Originario della provincia di Varese.
Si chiamava Vincenzo Peruggia, un italiano emigrato a Parigi a fine Ottocento.
Lavorava per una ditta di manutenzione proprio al Louvre, quella mattina dell’21 agosto 1911.
Alla chiusura si era nascosto in una delle sale, staccato il quadro e nascosto la tela sotto la giacca.
Che ci faceva la mia gemella al Louvre?
Una lunga storia.
Iniziata nel 1516 quando era arrivata a Parigi portata dallo stesso Leonardo.
Fu lui a venderla per 4.000 ducati a Francesco I, re di Francia.
In seguito, dal Louvre, era passata nella stanza da letto di Napoleone.
Per poi tornare al museo.
E da lì, in quel giorno d’agosto del 1911, passare in un cassetto di un imbianchino di Varese, fu un attimo.
Per il furto furono indagati anche Guillaume Apollinaire e il pittore Pablo Picasso.
Subito rilasciati.
Ritrovata in Italia l'11 dicembre 1913, tornò al Louvre in pompa magna, ricevuta dal presidente della Repubblica francese e da tutto il governo.
Dal furto al ritrovamento, la mia gemella ebbe paginate sui giornali in tutto il mondo.
Diventando un’autentica celebrità.
Ora. Io non voglio fare confronti.
Lei è, e rimarrà per sempre, la vera Gioconda, dipinta dal grande maestro Leonardo.
Qualcuno però mi ha definito “un bel dipinto dai sapori raffaelleschi”.
Altri un dipinto “un po’ legnosetto”.
Voi che ne pensate?
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Ricordo che era l’inizio di marzo del 1942.
Fu passeggiando per il paese che vedemmo quel manifesto incollato sui muri delle case.
Invitava, o meglio, ordinava a tutte le ragazze di andare a scuola il 20 marzo per un lavoro. Già, eravamo ebrei e a scuola mica ci potevamo andare
Tutto era cominciato anni prima, quando i tedeschi avevano annesso il nostro Paese, la Slovacchia.
Fu in quel momento che avevano cominciato a perseguitare noi ebrei.
Niente scuola e istruzione sopra i 14 anni.
Pensate.
Ci impedivano persino di avere dei gatti in casa.
Avevo 17 anni quando lessi quel manifesto.
Parlava di ragazze dai 16 ai 36 anni, nubili.
Ricordo che mamma Henna non voleva perdere me e mia sorella Lea di 19 anni per un non meglio identificato “contratto per tre mesi in una fabbrica per produrre stivali per le truppe”.
Me lo ricordo bene quel 5 maggio 1938.
Era una bella giornata di sole.
Ai lati di Via Caracciolo, sul lungomare, c’era un sacco di gente in attesa del suo passaggio.
Ad un tratto l’auto scoperta avanzò tra le due ali di folla e lui, il Fuhrer, si alzò in piedi.
Ricordo ancor meglio la voce di uno sconosciuto che ruppe il silenzio della cerimonia, quando Hitler tese il braccio nel classico saluto nazista.
“Sta verenn’ si for’ chiove” (sta controllando se fuori piove)”.
E la gente scoppiò in una fragorosa risata.
Perché noi napoletani, in quanto a ironia e capacità di non prenderci troppo sul serio, non ci batte nessuno. Non solo.
Ditemi voi dove Mussolini, definito ‘nu pagliaccio“ dal Vate, poteva farsi fotografare con una rosa in bocca, se non davanti al mare di Napoli.
Gli amanti del calcio, e non solo, hanno visto Cristiano Ronaldo segnare ieri la rete numero 807 superando un record che un calciatore deteneva, per gli elenchi Fifa, da tanto, tantissimo tempo.
Come lo so?
Mettetevi comodi, perché sarà una lunga storia.
La mia storia.
Si racconta che quell’anno fossero tutti nella mia città. A Vienna nel 1913, intendo.
Tito, Hitler, Stalin, Freud e Trockij.
CI arrivai anch’io quell’anno.
Il 25 settembre per la precisione.
Facendo la felicità di mamma Ludmila e di papà Frantisek.
I casi della vita.
Papà era tornato dalla Prima Guerra Mondiale sano e salvo.
Giocava nell’Herta Vienna quando subì un colpo ai reni durante uno scontro di gioco.
Rifiutò di farsi operare.
Lui aveva 30 anni quando morì. Io solo otto.
Un po’ di nervosismo mi è passato.
Ieri sera ero a una cena d’addio, all’Hotel Aviz a Lisbona organizzata da un amico, il capitano Tavares de Almeida.
E una veggente non viene a parlarmi di una sciagura imminente?
Cavolo, lo sanno tutti che noi attori siamo superstiziosi.
Però mi è passata. Siamo in volo.
Sono le ore 12.00 del primo giugno 1943 e stiamo per sorvolare il Golfo di Biscaglia.
Sono partito questa mattina dall’aeroporto di Portela con un bimotore di linea Douglas DC-3.
Denominato Ibis.
E sono diretto a Londra.
Con me ci sono i sue piloti, il radiotelegrafista, la hostess e oltre a me, altri 12 passeggeri.
Tra questi il mio impresario Alfred Chenhalis. Un bel tipo. Avendo una straordinaria somiglianza con Churchill, lo imita in tutto. Nei modi, nella camminata con un sigaro in bocca.
28 ottobre 1940 - Stazione di Firenze.
Era certo della sua contrarietà.
Per questo aveva deciso di comunicargli la notizia in ritardo. A cose fatte. E quale occasione migliore di un incontro già programmato.
Il Duce si avvicinò a Hitler, gli strinse la mano e parlò per primo.
”Führer, stiamo marciando. All’alba di stamane le truppe italiane vittoriose hanno attraversato la frontiera greco-albanese”, gli disse salutandolo.
La faccia di Hitler si alterò digrignando i denti.
Aveva già i suoi problemi, ci mancava anche questo incapace.
“Ma porcaccia la miseria (non so come si scrive in tedesco). Ma sei scemo?” gli disse sottovoce pensando a quello che stava accadendo nell’Africa Settentrionale.
Che sarebbe finita in tragedia lo sapevano tutti.
Lo avevano visto in Grecia e in Africa e lo avevano avvertito.
Ma lui niente.
Lui voleva dimostrare a Hitler di non essergli inferiore e che il suo esercito non avrebbe sfigurato in un confronto con la Wehrmacht.
Una pazzia.
Aveva detto al maresciallo Cavallero: “Non possiamo essere estranei a questo conflitto perché si tratterebbe di lotta contro il comunismo”.
In realtà voleva solo rivendicare una parte nella spartizione della torta sovietica al momento di ridisegnare gli equilibri internazionali.
E così, quando il 22 giugno gli era stata consegnata la lettera di Hitler che lo informava dell’inizio delle ostilità con Mosca, lui si era precipitato a chiedergli di poter partecipare con un corpo di spedizione.
Malgrado sapesse che Hitler ne avrebbe fatto volentieri a meno.