Ricordo che era l’inizio di marzo del 1942.
Fu passeggiando per il paese che vedemmo quel manifesto incollato sui muri delle case.
Invitava, o meglio, ordinava a tutte le ragazze di andare a scuola il 20 marzo per un lavoro. Già, eravamo ebrei e a scuola mica ci potevamo andare
Tutto era cominciato anni prima, quando i tedeschi avevano annesso il nostro Paese, la Slovacchia.
Fu in quel momento che avevano cominciato a perseguitare noi ebrei.
Niente scuola e istruzione sopra i 14 anni.
Pensate.
Ci impedivano persino di avere dei gatti in casa.
Avevo 17 anni quando lessi quel manifesto.
Parlava di ragazze dai 16 ai 36 anni, nubili.
Ricordo che mamma Henna non voleva perdere me e mia sorella Lea di 19 anni per un non meglio identificato “contratto per tre mesi in una fabbrica per produrre stivali per le truppe”.
Poi però si arrese.
E ci preparò una borsa con le nostre cose.
Per noi ragazze la prospettiva di andare all’estero significava uscire da quell’incubo in cui ci aveva infilato il nostro presidente, Jozef Tiso.
Lui, che non chiedeva di meglio che farsi bello di fronte ai nazisti
E da due anni aveva sottoposto noi ebrei ai più iniqui provvedimenti. Niente gestione delle imprese e niente figli a scuola. Niente cura negli ospedali. Il coprifuoco e quella maledetta stella gialla. E poi una propaganda su quanto fossimo ladri, stupratori e assassini di bambini
E la gente poco a poco ci aveva creduto.
Eravamo circa 200 ragazze del posto quando ci fecero salire su quel treno stipato da altre ragazze provenienti da altri luoghi.
Era stato difficile salire con le gonne, ma perché picchiarci?
In quel momento non capivo.
E poi l’arrivo.
Il campo di lavoro si trovava in Polonia, nella cittadina di Oświęcim.
Che non fosse una gita di lavoro ce ne accorgemmo appena scese dal treno.
Quando ci portarono via tutti i bagagli, ci denudarono (che vergogna per noi ragazze) e ci marchiarono con un numero di matricola.
Quelle non furono nemmeno le cose peggiori.
Alla ricerca di gioielli nascosti sottoposero decine di ragazze ad una “ispezione” ginecologica.
Eravamo arrivate nel campo di Oświęcim.
Forse non lo conoscete con questo nome.
In tedesco infatti si dice Auschwitz.
Noi deportate slovacche eravamo 999.
Non so che valore avesse per Himmler, lui non faceva niente a caso.
999 ragazze costrette a lavori durissimi come bonificare terreni, trasportare terriccio e materiale edilizio o smantellare edifici.
Tutto con le sole braccia.
Vivevamo in una grande baracca.
Senza luci, senza riscaldamento.
Dormivamo su uno strato di paglia sporca.
Dieci gabinetti per 999 ragazze.
Poca acqua, ma c’erano i tubi che gocciolavano da poter leccare.
I pianti ci spossavano talmente tanto da crollare esauste alla sera.
Mi chiamo Edith Friedman.
A me toccò il numero #1970.
A mia sorella Lea che era prima di me il numero #1969.
La razione era di 600 calorie. Poche calorie e un lavoro che ci consumava. Così le ragazze cominciarono a morire. Molte erano mie amiche.
Nella foto Lea e io a destra
Lea venne assegnata ad una squadra che aveva il compito di ripulire i fossati.
I piedi in acqua tutto il giorno la fecero ammalare.
Non riuscendo ad ingoiare il pane le davo tutti i giorni la mia zuppa.
Ma la febbre era troppo alta.
Ero io a tenerla ritta durante l’appello.
Poi Lea smise di mangiare.
Quella mattina fu terribile quando non la vidi al suo solito posto.
Cominciai a chiedere: «Dov’è mia sorella? Dov’è Lea?».
Qualcuno mi disse che l’avevano portata al blocco 25.
Durante la notte riuscii ad entrare, e vederla.
Se ne stava rannicchiata per terra con la febbre alta, in coma, ormai.
Dovetti lasciarla per tornare a lavorare.
Tornai la mattina dopo, ma il blocco 25 era vuoto. C’erano 8232 ragazze a Birkenau in quei giorni. E in quei giorni stavano marchiando la numero 26.273.
Povera Lea.
Edith Friedman, allora diciassettenne, sognava di diventare un medico.
Lea, sua sorella di 19 anni, voleva diventare avvocato. Alla liberazione del campo, il 27 gennaio 1945, delle 999 ragazze slovacche solo 40 fecero ritorno a casa.
Poche di loro ritrovarono la famiglia.
Edith Friedman impiegò sei settimane per tornare a casa.
Con una tubercolosi ossea contratta ad Auschwitz. Anni dopo verrà a sapere che il governo slovacco aveva pagato i nazisti 500 Reichsmarks (circa 230 euro di oggi) per ogni ragazza da inviare ad Auschwitz come schiava.
Edith è la seconda da sinistra. Sua sorella Lea è quella che stringe il bambino.
"Perché ci sono ancora guerre?” si chiede oggi Edith. “Per favore, per favore, dovete capirlo: non c’è nessun vincitore in una guerra. La guerra è la cosa peggiore che possa accadere all'umanità".
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Durante il Fascismo la fotografia è stata un importante veicolo propagandistico della dittatura.
L’immagine del Duce era ovunque.
Nelle città e nelle campagne, funzionando come un messaggio pubblicitario.
Nel 1924 venne creato l’Istituto Luce.
Un’organizzazione pubblica di informazione e propaganda attraverso le immagini.
Malgrado l’Istituto avesse a disposizione un numero vastissimo di foto, solo alcuni tipi di fotografie venivano pubblicate.
Quelle che servivano alla causa.
Le fotografe dovevano rispettare alcune regole.
Il Duce doveva presentarsi come figura carismatica, un modello che tutti gli italiani dovevano imitare. Inquadrato sempre dal basso.
Lo sguardo pensieroso, ma acuto e profondo.
Il suo corpo apparire virile.
"Che Dio ti protegga", disse papà mentre scappavo dal quel vagone.
Mi aveva implorato di mettermi in salvo, lui troppo stanco e stremato per potermi seguire.
Il mio tentativo di fuga però era fallito ed ero finito a Mauthausen, prima di essere liberato.
Sto tornando a casa.
Mi chiamo Fritz Kleinmann e sette anni fa, quando tutto era cominciato, di anni ne avevo quindici. Vivevamo a Vienna.
Io, papà Gustav maestro tappezziere, mamma Tini, il mio fratellino Kurt e le mie sorelle Edith e Herta.
Felici, quando nel 1938…
Tutto cambiò per noi ebrei.
Con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e a causa delle famigerate leggi di Norimberga, venimmo privati della cittadinanza.
Fui espulso dalla scuola e il mio sogno di diventare tappezziere come mio padre svanì.
Definirmi una copia è mancarmi di rispetto.
Io sono unica.
E oltretutto più umana, più bella, più hermosa insomma.
Giudicherete voi.
Comunque è stato appurato che siamo nate più o meno nello stesso periodo.
Sì, quasi gemelle.
Quasi gemelle, ma non proprio uguali.
Lei è un centimetro in più in altezza e quattro centimetri in meno in larghezza.
Forse per il fatto che abbiamo due padri diversi.
Il mio molto più giovane.
Probabilmente un allievo dell’altro, il suo maestro.
Siamo nate entrambe tra il 1503 e il 1504 a Firenze.
Lei più sfumata.
Io più semplice, più compatta.
Come detto, da padri diversi.
Forse sotto la supervisione del maestro.
Quel che è certo è che i miei colori sono più nitidi.
Me lo ricordo bene quel 5 maggio 1938.
Era una bella giornata di sole.
Ai lati di Via Caracciolo, sul lungomare, c’era un sacco di gente in attesa del suo passaggio.
Ad un tratto l’auto scoperta avanzò tra le due ali di folla e lui, il Fuhrer, si alzò in piedi.
Ricordo ancor meglio la voce di uno sconosciuto che ruppe il silenzio della cerimonia, quando Hitler tese il braccio nel classico saluto nazista.
“Sta verenn’ si for’ chiove” (sta controllando se fuori piove)”.
E la gente scoppiò in una fragorosa risata.
Perché noi napoletani, in quanto a ironia e capacità di non prenderci troppo sul serio, non ci batte nessuno. Non solo.
Ditemi voi dove Mussolini, definito ‘nu pagliaccio“ dal Vate, poteva farsi fotografare con una rosa in bocca, se non davanti al mare di Napoli.
Gli amanti del calcio, e non solo, hanno visto Cristiano Ronaldo segnare ieri la rete numero 807 superando un record che un calciatore deteneva, per gli elenchi Fifa, da tanto, tantissimo tempo.
Come lo so?
Mettetevi comodi, perché sarà una lunga storia.
La mia storia.
Si racconta che quell’anno fossero tutti nella mia città. A Vienna nel 1913, intendo.
Tito, Hitler, Stalin, Freud e Trockij.
CI arrivai anch’io quell’anno.
Il 25 settembre per la precisione.
Facendo la felicità di mamma Ludmila e di papà Frantisek.
I casi della vita.
Papà era tornato dalla Prima Guerra Mondiale sano e salvo.
Giocava nell’Herta Vienna quando subì un colpo ai reni durante uno scontro di gioco.
Rifiutò di farsi operare.
Lui aveva 30 anni quando morì. Io solo otto.
Un po’ di nervosismo mi è passato.
Ieri sera ero a una cena d’addio, all’Hotel Aviz a Lisbona organizzata da un amico, il capitano Tavares de Almeida.
E una veggente non viene a parlarmi di una sciagura imminente?
Cavolo, lo sanno tutti che noi attori siamo superstiziosi.
Però mi è passata. Siamo in volo.
Sono le ore 12.00 del primo giugno 1943 e stiamo per sorvolare il Golfo di Biscaglia.
Sono partito questa mattina dall’aeroporto di Portela con un bimotore di linea Douglas DC-3.
Denominato Ibis.
E sono diretto a Londra.
Con me ci sono i sue piloti, il radiotelegrafista, la hostess e oltre a me, altri 12 passeggeri.
Tra questi il mio impresario Alfred Chenhalis. Un bel tipo. Avendo una straordinaria somiglianza con Churchill, lo imita in tutto. Nei modi, nella camminata con un sigaro in bocca.