"L'amministrazione ci dice compagni, lavoro, lavoro, lavoro; poi alzano la velocità media di trapanazione e riducono i salari, insistendo sul fatto che la nostra velocità è bassa e la nostra paga non corrisponde al lavoro prodotto. Ma per se stessi alzano gli stipendi." 1/14
Questa lettera alla Pravda del 18 aprile 1988 di un lavoratore sovietico spiega cosa è la #perestrojka di #Gorbaciov: una politica economica supply side volta a disciplinare il lavoro, legare i salari alla produttività, privatizzare e responsabilizzare il management.
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È lo stesso economista messo da Gorbaciov a capo della Perestrojka, Abel Aganbegyan, a confermarne la natura paragonando in quegli anni la sua azione a quella che Margaret Thatcher aveva compiuto nell'economia del Regno Unito, esprimendo stima nei suoi riguardi.
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La conferma viene anche Commissione di Pianificazione Statale (il famoso Gosplan che elaborava i piani quinquennali) che ha calcolato come previsione iniziale che la Perestrojka avrebbe comportato entro l'anno 2000 una disoccupazione di 16 milioni di lavoratori.
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Tutta la classe dirigente sovietica è consapevole che il sistema economico uscito dal periodo brezneviano sia in profonda crisi, nonostante gli ultimi piani quinquennali abbiano già provato a traslare la produzione industriale dai beni capitali ai beni di consumo.
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Ma il sistema rimane ancora quello del capitalismo di stato, basato su una pianificazione capillare da comunismo di guerra, instaurato da Stalin dal 1928, che era comunque riuscito a portare risultati eccezionali nel periodo di industrializzazione forzata e durante la WWII.
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Dove fallisce però è nella sua capacità di creare il benessere diffuso già promesso da Krushev e nell'incorporare nell'industria civile la tecnologia sviluppata per scopi militari, cosa in cui gli USA invece sono abilissimi, basti vedere il ruolo di Silicon Valley.
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Uscire dalla pianificazione ha però pesanti costi politici, per la nomenklatura che durante Brezhnev è diventata quasi classe: non possiede i mezzi della produzioni, ma li gestisce per lo stato. Ecco che la riforma è quindi top-down: è il lavoratore il suo oggetto.
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L'ostilità e la sfiducia dei lavoratori verso le riforme porta la Perestrojka a fallire già dall'inizio. Ma invece che usare il sistema di Lenin, la NEP, che sarà poi copiata da Deng in Cina, di ripartire dal basso liberalizzando le piccole imprese, si prende un'altra via.
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Si decide di introdurre nelle imprese statali la logica del mercato: autofinanziamento, possibilità di "monetizzare" i crediti, spesso solo virtuali, a bilancio, si iniziano a liberalizzare prezzi e salari.
Ma in URSS non esiste un vero mercato e il risultato è disastroso.
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La monetizzazione dei crediti a bilancio crea una massa di liquidità monetaria incredibile, a disposizione dei manager della nomenklatura, che permetterà a molti di questi di comprarsi pochi anni dopo le loro stesse aziende, diventando gli oramai famosi oligarchi.
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Le imprese poi, agendo sovente in condizioni di monopolio, riducono la produzione, provocando scarsità dei beni, l'esplosione del mercato nero e una ondata di proteste che la Glasnost, cioè la democratizzazione del regime, non riuscirà ad incanalare a favore di Gorbachev.
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Alla fine il partito si spacca, da un lato ci sono quelli che vogliono tornare al vecchio sistema, timorosi che si stia sfasciando tutto, dall'altro quelli che da questo sfascio vedono la possibilità di un futuro di arricchimento personale.
In mezzo Gorbaciov è oramai solo.
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Per approfondire: ho trovato veramente pochi lavori accademici sulla Perestrojka, la maggior parte dei libri sono "instant book" pubblicati negli anni in cui è poi nato il mito di Gorbaciov in occidente.
Consiglio però questo:
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Il fascismo non è stato solo un movimento politico che ha imposto un regime autoritario.
È stato un vero e proprio culto, una religione civile totalitaria in cui l'italiano poteva trovare una nuova dimensione collettiva nazionale.
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Lo storico Emilio Gentile, ne Il Culto del Littorio, ci guida in un viaggio nella politica fascista come religione civile.
Il fascismo non si limita a controllare, ma ambisce a creare una fede laica, con miti, riti e simboli.
È una storia di come lo Stato diventa sacro.
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il processo di secolarizzazione iniziato con l'Illuminismo e la Rivoluzione francese non ha comportato una semplice separazione tra politica e religione, ma anche una trasformazione del politico che ha assunto caratteristiche proprie della dimensione religiosa.
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Come finiscono le guerre?
Tra il campo di battaglia che rivela chi è più forte e gli accordi che devono superare la reciproca sfiducia, la pace è un puzzle complesso.
La resa incondizionata è strategia o necessità?
Vediamo assieme i meccanismi dietro la fine dei conflitti.
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How Wars End del politologo USA Dan Reiter, edito dalla @PrincetonUPress, esplora come e perché le guerre si concludono.
Ci sono due concetti centrali: le informazioni che emergono dal campo di battaglia e la certezza che l’avversario rispetti in futuro gli accordi di pace.
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Le guerre sono, in fondo, questioni politiche.
Il Nobel per la Teoria dei Giochi Thomas Schelling le descrive come una sorta di negoziato, dove si discute su dei confini o sul tipo di governo.
La pace arriva con un accordo che risolve la disputa, creando un nuovo equilibrio.
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"Fuori la guerra dalla storia" non è, nonostante quello che ne pensi @mattiafeltri, una "minchiata" di Conte.
È l'auspicio sotto il quale nel 1928 viene siglato il patto "Kellogg-Briand" che è diventato un caposaldo del diritto internazionale: la guerra diventa un crimine.
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Le nazioni firmatarie del patto proposto dai ministri degli esteri di Francia, Aristide Briand, e USA, Frank Kellog, si impegnano a rinunciare alla guerra come mezzo di risoluzione delle loro divergenze, diritto che era sempre stato insito nella sovranità di ogni paese.
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Proprio facendo riferimento a quel patto, ratificato anche da Germania e Giappone, a Norimberga e Tokyo si possono giudicare politici e alti ufficiali tedeschi e giapponesi "colpevoli di avere pianificato e avviato una guerra di aggressione", cioè di "crimini contro la Pace".
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“Il commercio è guerra economica”.
I dazi di Trump riscrivono le regole, rispolverando il Neomercantilismo.
Da Smith a List, fino ai recenti "Kicking Away the Ladder" di Ha-Joon Chang e "The Neomercantilists" di Eric Helleiner, vediamo questo scontro tra mercato e politica.
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Adam Smith, in La ricchezza delle nazioni (1776), attacca il Mercantilismo: i dazi proteggono interessi ristretti, non la prosperità generale.
Il commercio libero, basato sul vantaggio comparato, massimizzerebbe la prosperità globale, arricchendo invece tutti.
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Smith vede il mercato come un motore universale, non uno strumento di potere statale.
Critica i mercantilisti per la loro ossessione di esportare più di quanto si importa.
Per lui, la vera ricchezza è nella produzione e nel consumo, non nella bilancia commerciale.
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Il 4 agosto 1916 gli USA e la Danimarca si accordarono su questo prezzo perché i primi potessero prendere possesso della colonia danese delle Isole Vergini nei Caraibi.
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Il grande successo in Europa dello zucchero di canna prodotto nelle Americhe aveva reso nel XVII secolo estremamente desiderabili le isole caraibiche, dove il clima favoriva la sua produzione e esaltava la sua qualità.
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Il consumo di zucchero in Europa tra il 1640 e il 1750 triplicò e spagnoli, inglesi, francesi, olandesi, tutti vollero partecipare allo sfruttamento di questo nuovo "oro" alimentare, contendendosi le isole caraibiche nelle varie guerre di quel periodo.
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Con la caduta del regime di Assad, e il probabile "smembramento" della Siria in vari potentati legati alle sue fazioni, oltre che a interessi stranieri, si può dichiarare conclusa dopo un secolo la sistemazione del Medio Oriente derivante dall'accordo Sykes-Picot del 1916.
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Cosa è dunque l'accordo Sykes-Picot?
Durante la Prima Guerra Mondiale britannici e francesi, con un accordo segreto, si spartiscono il Medio Oriente sotto il controllo del nemico Impero Ottomano in rispettive zone di influenza.
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Come vedete le zone di influenza sono tracciate in perfetto stile coloniale: in alcune parti con un righello indifferente alle popolazioni che in quelle zone abitano.
Inoltre l'accordo confligge con le promesse inglesi ai leader arabi che si sono ribellati agli Ottomani.
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