Renata Viganò, autrice de L’Agnese va a morire, definì la mia morte come «la più ignominiosa disfatta della loro sanguinante professione». Si riferiva ai fascisti della Compagnia Autonoma Speciale, guidati dal capitano Renato Tartarotti. #Thread#8marzo@JohannesBuckler 1/13
Ero a casa di mio zio, insieme ad altri due partigiani, quando i fascisti mi hanno arrestato. Inizialmente mi avevano rinchiuso nelle scuole di San Giorgio, poi mi hanno portato a Bologna. Speravano di ottenere da me informazioni sulla Resistenza. 2/13
Prima di essere interrogata, ho ripensato a tutta la mia vita. Per quel poco che è durata, fino ad oggi. Sono nata a Bologna l’8 aprile 1915, da una famiglia benestante. C’era papà Angelo, capomastro edile, poi la mamma, Argentina di nome, e mia sorella Nastia. 3/13
Quando cominciai a interessarmi di politica? Quando il mio ragazzo Federico fu dato per disperso. Era militare a Creta quando, dopo l’8 settembre, fu fatto prigioniero e imbarcato su una nave diretta in Germania. Poi il naufragio al Pireo, di Federico non seppi più niente. 4/13
Cominciai allora ad aiutare soldati sbandati, aderendo in seguito al Partito Comunista. Non ci volle molto per entrare nella Resistenza, col nome di battaglia Mimma. Con me, anche l’amico Dino Cipollani, giovane partigiano di Argelato, nome di battaglia Marco. 5/13
E ora sono in carcere. Posso immaginare i pensieri dei miei aguzzini. «È un compito facile, in fondo è solo una donna: questione di qualche ora al massimo e sapremo tutto ciò che c’è da sapere sui suoi compagni.» 6/13
Già, proprio forti questi fascisti. Soprattutto quando sono tanti e hanno di fronte a loro una donna sola. Questione di qualche ora, hanno pensato. Una cosa facile. 7/13
Ma è passato un giorno, poi due, poi tre, quattro, cinque, sei e sette. 7 giorni in cui mi hanno picchiata e torturata. Allora hanno cominciato a realizzare la capacità di sopportazione di una donna. Continuavano a chiedermi i nomi dei miei compagni, io niente. E giù botte. 8/13
Così, per sette giorni. Poi, non contenti, mi hanno accecata. Ero ancora viva quando mi hanno portata davanti alla casa dei miei genitori, pensando di convincermi a parlare. Ma io sono rimasta in silenzio. 9/13
È stato un attimo. Ho sentito solo i primi colpi di mitraglia. Poi più niente. Così sono caduta. Io morta, loro sconfitti dal mio silenzio. Sconfitti da Irma Bandiera, nome di battaglia Mimma, una ragazza di ventinove anni. Era il 14 agosto 1944. 10/13
Il mio corpo lo ritrovarono vicino allo stabilimento della ICO, una fabbrica di materiale sanitario. Lasciato in vista dai fascisti per una giornata intera, come monito.
Poi mi portarono all’Istituto di Medicina legale di via Irnerio, e venni sepolta alla Certosa. 11/13
Hanno dipinto il mio volto sulla facciata delle scuole elementari Luigi Bombicci a Bologna. Aggiungendo una scritta: "LA COERENZA È COMPORTARSI COME SI È, NON COME SI È DECISO DI ESSERE. Una frase di Sandro Pertini. 12/13
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Ossigeno è tridimensionale, contro il panorama un po’ piatto cui non vogliamo rassegnarci, contro la superficialità che ne consegue. Per il pensiero lungo e laterale, una rivista manifesto, che vi invita a manifestarvi e manifestare, tutte e tutti.
La storia del padre di #LidiaMenapace è quella di oltre mezzo milione di soldati italiani dopo la firma dell’Armistizio, la storia degli internati militari italiani (IMI), una storia nota, ma raccontata ancora troppo poco. #Thread 1/7
“Finalmente però in una caldissima giornata di agosto anche la nostra guerra domestica finisce, mio padre rientra dal campo di concentramento magro e stracciato, tanto che per un istante la mamma non lo riconosce quando lo vede alla porta. 2/7
Ci racconta i patimenti, gli stenti, il freddo, le umiliazioni, la fame. Ma non è arrabbiato con nessuno, non ha odio, non ha rancori. 3/7
"La prima volta che ho deciso di mettermi in dieta pesavo 68 chili. Portavo una 44 abbondante e addosso gli anni ruggenti dell’adolescenza. Avevo letto da qualche parte, facendo i conti tra altezza ed età, che il mio peso forma sarebbe dovuto essere di 54 chili. #Thread 1/10
Avevo sgranato gli occhi: “54?”. In quinta elementare ne pesavo 55. Però ci avevo creduto. Mi ero detta che se c’era scritto che il peso forma era 54 così doveva essere. La dietologa dell’ospedale mi aveva detto che non sarei dimagrita molto, non le avevo chiesto il perché. 2/10
Dopo sei mesi di dieta e un’oretta di camminata al giorno, pesavo 64. Ok, 10 chili in più rispetto al previsto, ma i jeans mi stavano meglio. Ce l’avevo abbastanza fatta. Poi in pochi mesi non sono più 64, non sono più 68, ma sono 72 chili. E dico "sono", non "peso". 3/10
Siamo nel 1928. I coniugi Levinson sono cantanti di fama dell’Opera di Riga, in Lettonia. Sono molto famosi. Talmente famosi che decidono di trasferirsi a Berlino dopo che la Deutsche Oper ha offerto loro un contratto principesco. @JohannesBucklerbit.ly/pacchetto-buck… 1/10
Sei anni dopo, il 17 marzo del 1934, a Berlino nasco io, Hessy, a due passi dalla Porta di Brandeburgo. Una bambina bellissima, al punto che quando ho sei mesi mamma Polin mi porta dal fotografo più famoso della città, Hans Ballin. 2/10
Mamma e papà vogliono imprimere la mia memoria in un’immagine. Quello che i miei genitori ancora non sanno è che il fotografo spedirà la foto per partecipare a un concorso. Un concorso che, poi, vincerà. 3/10
Portammo, per il saggio di laboratorio del secondo anno, una nostra versione di Arden of Feversham, un drammone rinascimentale inglese di omicidi matrimoniali e vendette, che qualcuno aveva attribuito anche a Shakespeare, nella versione di Carmelo Bene (hybris del principiante!).
Ricordo la tensione prima di salire sul palco, tavole sconnesse in una chiesa sconsacrata. Stavo quasi per svenire, poi le prime risate
del pubblico, fatto di parenti e amici coscritti, la gioia, gli applausi e la festa dopo.
"Continuavano a ripetermi che un professionista deve pensare solo a giocare, e forse avevano ragione. Nel calcio il pallone veniva prima di qualsiasi buona intenzione. Io però cominciai a pensarla diversamente. Da quella sera di Natale del 1977. #Thread@JohannesBuckler 1/13
Avevo diciannove anni quando alcuni amici mi invitarono a far visita a un centro per bambini cerebrolesi. Ci andai accompagnato da Raffaella, la mia fidanzata. Quella visita cambiò la mia vita. Anzi. La nostra. 2/13
«Mi impressionò la loro emarginazione, l’abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un’emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale e mi avevano già insegnato il rispetto e la solidarietà verso gli altri.» 3/13