Per noi piloti inglesi della RAF furono un vero e proprio tormento.
Nemmeno i tedeschi riuscirono a crearci così tanti problemi.
Tutto ad un tratto i nostri apparati di navigazione smettevano di funzionare, le bussole impazzivano e diventava difficile governare l’aereo.
Le prime avvisaglie si erano palesate già nel 1917. Lo aveva scritto il quotidiano britannico The Spectator.
Sia la Royal Naval Air Service che l’anno successivo la Royal Air Force avevano subito i loro sabotaggi.
Non bastavano le tensioni della guerra aerea cui eravamo sottoposti.
Ogni volta che ci alzavamo in volo la preoccupazione per un eventuale loro intervento ci rendeva difficile l’espletamento del nostro lavoro.
Erano in grado di sabotarci in tutti i modi. Avevano persino trovato un sistema per spingere i gabbiani a scontrarsi con i nostri aerei. Era diventato il loro unico fine. Provocare il maggior numero possibile di inesplicabili contrattempi tale da turbare la vita di noi aviatori.
E ci riuscivano benissimo.
Come nel 1923 quando un nostro aereo si schiantò in mare per colpa loro.
Ne avevano parlato tutti i più famosi giornali dell’epoca.
Poi nel marzo del 1942 fu il tenente Roberts, della RAF a scriverne sul Listener.
E poi il principale periodico dell’aviazione militare britannica, il Royal Air Force Journal del 18 aprile 1942, dove si raccontava di questi sabotatori. Se ne parlò persino in Russia.
E poi c’erano i rapporti degli aviatori britannici.
A dire il vero questi sabotatori a volte stavano dalla nostra parte.
Ci furono testimonianze di "sabotatori" che aprivano varchi nelle nubi, che facevano ripartire motori fuori uso, persino che deviavano la contraerea tedesca.
Naturalmente nessun aviatore era in grado di vederli prima di ogni missione.
Nessuno, tranne uno.
Che alla BBC raccontò in un’intervista di averli incontrati.
“Portavano un colletto di celluloide e una cravatta vecchio stile” raccontò.
Ed erano persino divertenti a volte.
Come quando mettevano delle minuscole copie di caccia tedeschi contro il parabrezza. Per resistere ad alta quota erano forniti di una specie di maschera ad ossigeno naturale sul naso e una pelliccia azzurra che li proteggeva dal freddo.
Diventarono un fenomeno mondiale.
Tutti i giornali del mondo ne parlarono. Persino Boeing Magazine, la rivista della grande impresa aeronautica, che allora stava iniziando a produrre i modelli di grandi bombardieri.
Di quegli omini rossi o blu che erano malvagi e dispettosi e di quelli verdi o gialli, che erano buoni, ne scrisse persino La Stampa.
Il 6 agosto 1942, grazie al giornalista Italo Zingarelli.
“Have a fit of the gremlins” dicevano piloti inglesi quando su un aereo della RAF qualcosa andava storto.
Quando nella strumentazione o nel motore qualcosa smetteva di funzionare, l’aereo perdeva quota e al pilota non restava che avvertire i compagni per radio e lanciarsi.
Tranquilli, i gremlins non erano nient'altro che il prodotto delle allucinazioni dovute allo stress di piloti che volavano in alta quota.
A quelle altezze vertiginose spesso c'era una momentanea carenza di ossigeno nelle maschere, e ciò causava allucinazioni.
Roald Dahl, pilota di Hurricane nell’80° Sqd. di stanza in Egitto, dopo esser rimasto coinvolto in incidente nel deserto libico, scrisse un racconto e ne ricavò una sceneggiatura per un progetto avviato con la Disney.
Un progetto che non vide mai la luce
A causa delle ferite riportate al cranio Roald Dahl rinunciò a volare.
Continuando la sua carriera di scrittore.
Come da sue ultime volontà si è fatto seppellire con una sega elettrica, matite HB, del cioccolato, vino di Borgogna e le sue stecche da biliardo.
Ricordate il progetto che Roald Dahl inviò alla Disney?
Steven Spielberg ne produrrà un film, "Gremlins", nel 1984.
La sceneggiatura era di Chris Columbus, che prese spunto proprio dal progetto di Roald Dahl.
Nella prima sceneggiatura Columbus aveva previsto che i Gremlins mangiassero il cane del protagonista Bill, decapitassero la madre per poi lanciare la testa giù per le scale.
Non ho visto il film e quindi non conosco la versione finale.
Resta comunque il fatto che per i piloti inglesi i Gremlins non erano così cattivi.
Solo spiritelli scherzosi che si divertivano a combinare guai.
In fondo dei teneroni, piuttosto dispettosi, quello sì.
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Agli inizi del XX secolo non era permesso a noi donne di gareggiare individualmente.
Sempre e solo con un maschietto.
Fu così anche per me.
E chi scegliere, se non Edgar, che avevo sposato nel 1900 e che era anche il mio allenatore.
Ai miei tempi il pattinaggio era ritenuto uno sport estremamente virile.
Insomma per soli uomini. Noi donne tagliate fuori.
Il primo campionato del mondo fu disputato nel 1896.
Solo per uomini naturalmente.
Le gare femminili sono nate nel 1906, quelle per le coppie di artistico nel 1908 e quelle di danza nel 1952.
Indovinate grazie a chi.
Alla sottoscritta naturalmente, Florence Madeleine Cave in Syers, detta Madge.
Johannesssss!!! Johannesssss!!! Questo quando serve non c’è mai. Dove sei finito? Dobbiamo parlare in una questione importante.
«Sono qui. Calmati, non urlare»
Sai chi sono vero?
«Certo. Sei Gaio Giulio Cesare Augusto, nato Gaio Ottavio Turino meglio conosciuto come Ottaviano»
Per tutti sono Augusto ormai.
Devi assolutamente spiegarmi una cosa.
Ne va del mio onore. Del nostro onore.
Mi è giunta all’orecchio una notizia. Spero per voi che non sia vera. Sono di carattere mite, ma posso scatenare le mie legioni in un attimo.
«Vedo che sei in buona compagnia. Ci sei tu e gli altri Imperatori della dinastia giulio-claudia.
Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Poi vedo che ci sono anche Traiano e Vespasiano.
Mi sfugge la ragione di questa rimpatriata.
Vi ascolto, ditemi»
Qualcuno ha scritto che “i numeri costituiscono il solo linguaggio universale”.
Vero. Anche perché i numeri non sono mai solo numeri.
100
1.000.000
Cento
Un milione.
Oppure 7 come le persone che incontrai quando tornai a Kigali il 21 luglio del 1994.
2, come le esplosioni che udimmo quella sera del 6 aprile 1994 quando tutto ebbe inizio.
Subito dopo la telefonata della mia segretaria.
«Hanno abbattuto l’aereo del Presidente Habyarimana»
Quella notizia significava una cosa sola. Guai.
E scontri in città.
Quella notte dormimmo tutti in bagno, l’unica stanza della casa che non poteva essere raggiunta da eventuali colpi esplosi dalla strada.
Mentre il telefono continuava a squillare.
“Un giorno nella foresta scoppiò un gigantesco incendio: animali ed uccelli fuggirono impauriti.
Mentre tutte le razze raccolte si disperavano e si lamentavano della loro cattiva sorte, il colibrì volò verso il fiume e raccolse una goccia d’acqua.
Tanta quanta ce ne stava nel suo becco.
Ritornando verso l’incendio, gli altri animali lo derisero dicendo: “Ma cosa fai?”, gli chiesero.
Il piccolo colibrì, paziente, rispose: “Faccio quello che posso!”
E fu proprio per quel “faccio quello che posso” che mi premiarono.
De Amicis avrebbe fatto di noi personaggi da libro “Cuore”. Era il 22 novembre del 1954 quando in Campidoglio assegnarono i Premi della Bontà.
Un premio per Dario Tosi, 11 anni. Aveva portato a spalle a scuola tutti i giorni, per un chilometro, il suo compagno malato alle gambe.
Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro.
Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi.
E non sono le uniche stranezze.
Colleziono anche libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno.
Finché sono sveglio non hanno niente da temere.
Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono?
Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone da 102 mm.
Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.