Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.
Troppo ingiusti e spietati gli ultimi anni del XVII secolo. Lui sognava un mondo nuovo, una sorta di repubblica libera, non più controllata da francesi o inglesi. Uomini e donne uguali. Una società di liberi e uguali, nessuna proprietà privata, senza politica e leggi repressive.
Mi convinse. E diventammo amici.
Lo imbarcai sulla Victoire come padre spirituale della ciurma.
Lasciammo Napoli direzione Gibilterra.
Poi al largo, nell’Atlantico, per raggiungere le Americhe.
Durante il viaggio il frate Caraccioli fece proseliti persino tra l’equipaggio
Stavamo navigando al largo di Martinica, quando l’avvistammo.
Quella nave solcava il mare sollevando onde altissime.
Quando si avvicinò vidi i colori della bandiera: il vessillo della marina inglese.
Una fregata. Troppo lenta.
Vidi i marinai inglesi accorrere ai cannoni.
Due bordi di bolina e a chi sapeva leggere apparve il nome del vascello nemico, Wirichester, della Marina britannica.
Un bottino per la Corona di Francia.
Furono loro a sparare per primi, ma noi avevamo ben 24 bocche di fuoco.
La fiancata del legno avversario andò in pezzi.
E poi la manovra coi rampini.
Uno scontro breve. Il ponte ricoperto di cadaveri.
I superstiti inglesi in attesa.
Eravamo felici. Ma durò poco.
In mezzo ai cadaveri, accanto a tre ufficiali, c’era quello del nostro comandante, il capitano Fourbin.
Essendo il più alto in grado presi il comando della Victoire.
Feci affondare la nave inglese e poi la domanda: “Che farne dei prigionieri inglesi?
Fu il frate Caraccioli a suggerirmi la soluzione.
I prigionieri potevano unirsi a noi.
Nel nostro sogno.
Il sogno di costruire un mondo nostro, basato su leggi giuste: tutti liberi, tutti uguali, tutti fratelli. Radunammo vincitori e vinti e spiegammo loro il nostro progetto.
Fu messo ai voti democraticamente.
Il sogno di quella nuova democrazia convinse tutti
L’urlo definitivo fu “A Deo, A Libertate”.
Creammo la nostra bandiera.
Il Jolly Roger piratesco era nero raffigurante un teschio umano?
La nostra sarebbe stata bianca, con quel grido "per Dio e la libertà".
Era nata la libera Repubblica di Libertalia.
Decidemmo di stanziarci in Madagascar.
Lontani dalle rotte più frequentate, paesaggio incantato e natura incontaminata.
Ma avevamo bisogno di risorse per quel libero stato di uguali. L’unico modo era depredare vascelli.
Ricordo ancora il primo. Issammo la nostra bandiera bianca e loro ci fecero avvicinare.
La nave apparteneva alla Marina olandese, dal nome impronunciabile, Nzeuwstaat.
E trasportava schiavi.
Impiccammo comandante e ufficiali.
E liberammo gli schiavi.
Che si unirono a noi.
E di bottino in bottino approdammo in Madagascar, tra Nosy Be e l’isola di Sainte Marie.
La comunità indigena ci accolse festante.
Era un vero Paradiso, con animali di razze sconosciute.
E quando si celebrarono matrimoni, il mio fu il più osannato.
Sposai infatti la sorella della regina.
Si sposò anche il frate Caraccioli, ormai libero dai doveri della castità.
Si sposò con una notabile appartenente alla corte locale.
La Repubblica di Libertalia, la colonia più democratica del mondo, sembrava destinata a durare a lungo.
Tutti liberi, tutti uguali, tutti fratelli.
La terra coltivabile suddivisa, i bottini di guerra equamente ripartiti.
Non durò molto.
Dopo circa venticinque anni fu una tribù indigena, contraria a quel regno, a scatenare una guerra.
Una tremenda guerra civile.
Il frate Caraccioli, ormai anziano, morì trafitto dalle lance di quegli insorti.
Io, Oliver Misson, riuscii a mettermi in salvo.
Ero in navigazione verso un ritorno in Francia quando onde altissime, scatenate da un terribile uragano, seppellirono me e la mia nave in fondo al mare.
Per sempre.
Caraccioli era morto, io ero morto, e con noi era morta la Repubblica democratica di Libertaria.
Le fonti storiche non sono concordi.
Sull'esistenza di Libertalia, intendo. Per alcuni è veramente esistita, per altri solo una leggenda. Di Libertalia si parla nel libro “A General History of the Robberies and Murders of the Most Notorious Pyrates” del capitano Charles Johnson.
Pubblicato a Londra per la prima volta nel 1724, racconta e descrive il mondo dei pirati e dei filibustieri. L’autore, il capitano Charles Johnson, è uno pseudonimo.
All’inizio si riteneva fosse Daniel Defoe, l'autore di Robinson Crusoe.
Come reagirono in Europa quando arrivò la notizia della distruzione di Libertaria?
Lo racconta il libro.
I governi europei tirarono un sospiro di sollievo e si affrettarono a cancellare nella zona i resti, e nella mente della gente il ricordo di quello che era avvenuto.
Troppo pericoloso.
Troppa pericolosa l’idea che potesse esistere una società di “tutti liberi, tutti uguali, tutti fratelli”.
Anche perché, uguaglianza, giustizia e libertà per tutti, per loro era una cosa impossibile.
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Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro.
Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi.
E non sono le uniche stranezze.
Colleziono anche libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno.
Finché sono sveglio non hanno niente da temere.
Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono?
Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone da 102 mm.
Come vivevano nei campi di concentramento?
Nei lager non si vive, si sopravvive.
Avevano pochissimo da mangiare, un pugno di riso e un pezzo di pane duro.
E poi con tutte quelle epidemie di tifo non avevano nemmeno la forza di lavorare.
Le donne avevano paura di uscire dalle tende persino per fare i bisogni.
I guardiani picchiavano tutti continuamente.
Ogni scusa era buona per punire i prigionieri con la morte, costringendo gli altri ad assistere alle esecuzioni. Almeno una cinquantina ogni giorno.
Il 2 maggio 1931 era stato lui in persona, Graziani, a fare un censimento.
Nel lager di Marsa Brega c’erano 21.117 esseri umani. A Soluch 20.123. A Sidi Ahmed el Magrun 13.050. A El Agheila, 10.900 e a Agedabia 10.000. A el Abiar 3123.
In totale 78.313 prigionieri.
Ero sul Manin, cacciatorpediniere della Regia Marina, all'alba del 3 aprile 1941 a una trentina di miglia da Port Sudan, dopo una navigazione di 270 miglia.
Fu lì che tutto il convoglio fu attaccato da circa 70 bombardieri Bristol Blenheim ed aerosiluranti Fairey Swordfish
In che condizioni era la flotta italiana nel Mar Rosso?
Critiche.
Senza materie prime, nafta, pezzi di ricambio, munizioni, siluri e attrezzature e l'impossibilità di ricevere alcun aiuto dall’Italia.
In brutte condizioni è vero, ma a bordo c'erano marinai straordinari.
Da giorni le cose si stavano mettendo male per i cacciatorpedinieri italiani.
Potevamo raggiungere in relativa sicurezza le coste dell’Arabia Saudita o dello Yemen, neutrali, almeno nominalmente. Salvarci, insomma.
Ma tutti gli equipaggi si erano rifiutati.
#sempreilgiornodellamemoria
Capita.
Di non ricordare un nome, anche ce l’hai sulla punta della lingua. La capisco. Tra milioni di nomi poi.
Certo, che sia accaduto proprio nel “giorno della memoria”, non è il massimo.
O forse è altro, non so.
Dice che è arrivata in ritardo e non era a conoscenza dell’argomento. Prendiamo atto.
Comunque, per evitare che l’anno prossimo qualcun altro possa avere un vuoto di memoria, qualche nome lo possiamo anticipare.
Qualche nome tra tanti.
Perché un nome si fa presto a trovarlo. Magari un nome sconosciuto.
Tra quelli che Johannes chiama gli “angeli invisibili”. Come Eri Zinger, con suo figlio Yehonanta che vedete nella foto. Uccisi ad Auschwitz.
Oppure un nome che conosco bene. Molto bene.
Il mio.
Non sono mai riuscito a darmi pace per quella frase.
E’ una cosa che ti rimane dentro.
Lo so che stavamo scherzando, lo so, ma non riesco a dimenticarla.
Io gli volevo bene, era stato lui nel 1958 a scegliermi per suonare il basso nel suo gruppo di supporto.
Mi chiamo Waylon Jennings e sono morto nel 2002, dopo una straordinaria carriera musicale.
Con moltissimi premi di musica country vinti.
Per lui invece la carriera finì quel giorno, dopo quella maledetta frase.
Lui si chiamava Charles Hardin Holley, in arte Buddy Holly.
"Egli entrò nella mia vita quando io ne avevo bisogno, ed io entrai nella sua allo stesso modo” racconterà la sua Maria. Con il permesso della zia lui le aveva chiesto di uscire la prima volta nel giugno 1958. Cinque ore dopo, porgendole una rosa, le aveva chiesto di sposarlo.
#Giornatadellamemoria
Mi chiamo Helene Hannenmann e sono una donna tedesca. Ariana.
Oggi è un giorno di maggio del 1943.
Mi sono svegliata facendo le solite cose.
Un giorno come un altro. Almeno, doveva esserlo.
Mi sbagliavo.
Non fu un giorno come un altro. Per niente.
Blaz si era svegliato nervoso per via di una verifica a scuola.
Otis con un forte mal d’orecchio. I gemelli stavano bene, ma si alzavano sempre con gran fatica.
E poi la piccola Adalia, di tre anni, il mio scricciolo, il mio angioletto.
E poi c’era lui, mio marito Johann.
Quando ci eravamo sposati molti mi avevano detto di stare attenta, che mi avrebbe rubato qualcosa.
Perché mi dicevano questo? Lui era di etnia rom.
O meglio, zingari, come preferivano chiamarli i tedeschi.
Si erano ricreduti dopo che era entrato nella Filarmonica di Berlino.