Qualcuno ha scritto che “i numeri costituiscono il solo linguaggio universale”.
Vero. Anche perché i numeri non sono mai solo numeri.
100
1.000.000
Cento
Un milione.
Oppure 7 come le persone che incontrai quando tornai a Kigali il 21 luglio del 1994.
2, come le esplosioni che udimmo quella sera del 6 aprile 1994 quando tutto ebbe inizio.
Subito dopo la telefonata della mia segretaria.
«Hanno abbattuto l’aereo del Presidente Habyarimana»
Quella notizia significava una cosa sola. Guai.
E scontri in città.
Quella notte dormimmo tutti in bagno, l’unica stanza della casa che non poteva essere raggiunta da eventuali colpi esplosi dalla strada.
Mentre il telefono continuava a squillare.
Tutti a chiedermi cosa stesse accadendo.
Cosa fare, come comportarsi, come prepararsi al peggio. Perché si rivolgevano a me?
Perché vivevo in Ruanda da trent’anni. Non solo.
Dal 1988 ero console onorario della Repubblica Italiana a Kigali.
Mi chiamo Pierantonio Costa e sono nato a Mestre, penultimo di sette fratelli, il 7 maggio 1939.
E visto che parliamo di numeri…
15, come gli anni che avevo quando raggiunsi mio padre che era emigrato per lavoro nella Repubblica Democratica del Congo.
Le prime avvisaglie di cosa può essere una guerra in Africa, con la rivolta mulelista, e poi la fuga a Kigali, in Ruanda.
Nel 1965 il primo permesso permanente.
E il matrimonio con Mariann, una cittadina svizzera.
3, come i nostri figli. Olivier, Caroline e Matteo.
Il Ruanda, il Paese dalle mille colline.
Il 7 aprile del 1994 quello stesso Paese diventò un immenso mattatoio.
Io, Console e imprenditore.
4, come le imprese che avevo in Ruanda di import-export.
150, come il numero dei miei dipendenti.
Dopo quelle due esplosioni del 6 aprile 1994 e la telefonata della mia segretaria capii che dovevo fare qualcosa.
250, come il numero degli italiani presenti nelle liste consolari.
Fortunatamente i telefoni funzionavano.
Cercai di contattarli, sotto il rumore dei mortai.
Il dramma si stava delineando e io non avevo tempo da perdere.
Ero l’unica figura istituzionale dell’Italia presente in Ruanda.
Dovevo andare in città per recuperare i miei connazionali.
Mia moglie Mariann si mise a disfare i vestiti per ricavare stoffe bianche, rosse e verdi.
Per cucire alcune bandiere italiane.
Se volevo circolare in città mi avrebbero fatto comodo.
E in città, tra le strade deserte, vidi solo militari e gente, tanta gente col machete in mano.
Con la precisa volontà di eliminare tutti i tutsi.
Con le squadre della morte in azione il mio compito non era per niente facile.
Recuperare gli italiani, predisporre i blindati necessari, organizzare e far atterrare i nostri aerei per portare lontano, e in salvo, più persone possibili.
Il tesserino consolare fu un buon lasciapassare.
Anche se a ogni blocco bisognava fermarsi, discutere per poter proseguire e soprattutto lasciare qualche soldo.
Quello sempre.
Riuscii a far passare gli italiani. Ma non solo loro.
A ogni passaggio la colonna aumentava.
Non solo italiani, non solo missionari e suore, ma anche ruandesi, belgi e francesi.
Ai posti di blocco sempre più discussioni.
Piano piano riuscii a far passare tutto il convoglio.
Fino all'arrivo all’aeroporto.
Presi l’ultimo volo, dopo aver visto che tutti erano in salvo.
Mio figlio Olivier seduto a fianco mi disse: «Hai salvato la vita agli italiani, ma tutti i ruandesi che conoscevi? Amici e dipendenti? Perché non hai fatto niente per loro?».
Rimasi in silenzio.
Senza rispondere.
Mi trasferii a Bujumbura, capitale del Burundi dove abitava mio fratello Arturo. Il mio compito di console era finito. Avrei potuto passare le giornate sul lago Tanganica.
Ma avevo un tarlo nella testa.
E una convinzione.
Qualsiasi uomo normale può compiere cose straordinarie.
Che fine avevano fatto i 150 bambini dell’orfanotrofio di Nyanza? Chi li stava sfamando?
Presi quella decisione.
Quella di tornare in Ruanda per cercare di far arrivare in Burundi, e quindi salvare, il maggior numero di persone.
Pur sapendo di rischiare la vita.
E così avevo fatto. Dai miei appunti.
23 aprile 1994.
51 le persone accompagnate alla frontiera.
4 maggio 1994, 32.
E poi 17. E poi altre ancora. Ancora. E ancora.
In totale oltre 2.000 le persone salvate, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio della Croce Rossa.
Pierantonio Costa continuò a fare la spola tra il Ruanda e il vicino Burundi tra gente che spaccava teste col machete, stupri di massa e massacri.
Portando in salvo tutte le persone che riusciva a mettere sotto la protezione del Governo Italiano.
Dopo quei terribili giorni Pierantonio Costa rimase a vivere in Ruanda.
La parte più difficile non fu quella imprenditoriale, ma quella di dimenticare l’orrore cui aveva assistito.
Con quella domanda sempre in testa.
“Avrei potuto fare di più?”
Alla fine del genocidio Pierantonio Costa si ritrovò ad aver perso beni per oltre 3 milioni di dollari.
Quasi tutti usati per un unico scopo.
Superare posti di blocco, pagare mazzette
e salvare il maggior numero di persone.
Pierantonio Costa ci ha lasciato il 1° gennaio del 2021. A 81 anni.
Oltre alla medaglia d’oro al valor civile, nel 2009 è stato onorato con un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di Milano.
Candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2011. bit.ly/2Z6CUN8
Non solo numeri.
100 1.000.000 416 7
100, i giorni.
1.000.000 come il numero di tutsi e hutu moderati uccisi in poco più di tre mesi, dal 7 aprile al 15 luglio 1994 in Ruanda.
416 all’ora
7 al minuto.
Il genocidio del Ruanda non fu una cosa improvvisa.
Fu una follia annunciata.
Nei tre anni precedenti il Ruanda era diventato il terzo importatore d’armi di tutta l’Africa.
Centinaia di migliaia i machete arrivati dalla Cina.
E questa è la storia di Pierantonio Costa.
Che seppe instillare “Una goccia di bene nell’immenso mattatoio che fu il Ruanda di quei giorni”.
”Ho solo risposto alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare. Sempre”.
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“Un giorno nella foresta scoppiò un gigantesco incendio: animali ed uccelli fuggirono impauriti.
Mentre tutte le razze raccolte si disperavano e si lamentavano della loro cattiva sorte, il colibrì volò verso il fiume e raccolse una goccia d’acqua.
Tanta quanta ce ne stava nel suo becco.
Ritornando verso l’incendio, gli altri animali lo derisero dicendo: “Ma cosa fai?”, gli chiesero.
Il piccolo colibrì, paziente, rispose: “Faccio quello che posso!”
E fu proprio per quel “faccio quello che posso” che mi premiarono.
De Amicis avrebbe fatto di noi personaggi da libro “Cuore”. Era il 22 novembre del 1954 quando in Campidoglio assegnarono i Premi della Bontà.
Un premio per Dario Tosi, 11 anni. Aveva portato a spalle a scuola tutti i giorni, per un chilometro, il suo compagno malato alle gambe.
Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro.
Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi.
E non sono le uniche stranezze.
Colleziono anche libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno.
Finché sono sveglio non hanno niente da temere.
Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono?
Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone da 102 mm.
Era il 1695 e la nave su cui ero imbarcato, la Victoire, aveva attraccato al porto di Napoli in attesa di partire per le Antille.
Pensai bene di recarmi a visitare Roma, magari sarei riuscito a fare un saluto al Santo Padre.
Mi chiamo Oliver Misson, figlio di un nobile di Provenza, con la passione per l’avventura.
Per questo avevo abbandonato l’accademia militare per imbarcarmi sulla nave da guerra francese Victoire comandata da un mio parente, il capitano Fourbin.
E fu proprio a Roma che conobbi quel frate italo-domenicano, tale Caraccioli.
Aveva abbandonato il saio, troppo rigida e devota ai potenti la sua vita.
Aveva così deciso di girare il mondo per propagandare le sue idee.
Idee.
Più che idee un sogno.
Come vivevano nei campi di concentramento?
Nei lager non si vive, si sopravvive.
Avevano pochissimo da mangiare, un pugno di riso e un pezzo di pane duro.
E poi con tutte quelle epidemie di tifo non avevano nemmeno la forza di lavorare.
Le donne avevano paura di uscire dalle tende persino per fare i bisogni.
I guardiani picchiavano tutti continuamente.
Ogni scusa era buona per punire i prigionieri con la morte, costringendo gli altri ad assistere alle esecuzioni. Almeno una cinquantina ogni giorno.
Il 2 maggio 1931 era stato lui in persona, Graziani, a fare un censimento.
Nel lager di Marsa Brega c’erano 21.117 esseri umani. A Soluch 20.123. A Sidi Ahmed el Magrun 13.050. A El Agheila, 10.900 e a Agedabia 10.000. A el Abiar 3123.
In totale 78.313 prigionieri.
Ero sul Manin, cacciatorpediniere della Regia Marina, all'alba del 3 aprile 1941 a una trentina di miglia da Port Sudan, dopo una navigazione di 270 miglia.
Fu lì che tutto il convoglio fu attaccato da circa 70 bombardieri Bristol Blenheim ed aerosiluranti Fairey Swordfish
In che condizioni era la flotta italiana nel Mar Rosso?
Critiche.
Senza materie prime, nafta, pezzi di ricambio, munizioni, siluri e attrezzature e l'impossibilità di ricevere alcun aiuto dall’Italia.
In brutte condizioni è vero, ma a bordo c'erano marinai straordinari.
Da giorni le cose si stavano mettendo male per i cacciatorpedinieri italiani.
Potevamo raggiungere in relativa sicurezza le coste dell’Arabia Saudita o dello Yemen, neutrali, almeno nominalmente. Salvarci, insomma.
Ma tutti gli equipaggi si erano rifiutati.
#sempreilgiornodellamemoria
Capita.
Di non ricordare un nome, anche ce l’hai sulla punta della lingua. La capisco. Tra milioni di nomi poi.
Certo, che sia accaduto proprio nel “giorno della memoria”, non è il massimo.
O forse è altro, non so.
Dice che è arrivata in ritardo e non era a conoscenza dell’argomento. Prendiamo atto.
Comunque, per evitare che l’anno prossimo qualcun altro possa avere un vuoto di memoria, qualche nome lo possiamo anticipare.
Qualche nome tra tanti.
Perché un nome si fa presto a trovarlo. Magari un nome sconosciuto.
Tra quelli che Johannes chiama gli “angeli invisibili”. Come Eri Zinger, con suo figlio Yehonanta che vedete nella foto. Uccisi ad Auschwitz.
Oppure un nome che conosco bene. Molto bene.
Il mio.