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Sapevano tutti che sarebbe andata a finire così. Lui e le sue manie di grandezza.
Confuso lo era sempre stato.
Il 22 febbraio 1937 aveva scritto a Graziani.
“In caso di conflitto, come l’Italia non chiederà niente all’Impero, così l’Impero non si aspetti aiuti dall’Italia”.
Peccato che non avesse messo l’A.O.I.(Africa Orientale Italiana) nelle condizioni di difendersi da sola.Poi cambiò idea. Con l’entrata in guerra non gli bastò avere ”morti da far valere al momento della vittoria tedesca”. Gli serviva al tavolo della pace anche un pegno coloniale
Non c’era stato nessun tavolo e i tedeschi la guerra non l’avevano ancora vinta.
Amedeo di Savoia-Aosta, diventato viceré d'Etiopia il 21 dicembre 1937, il suo invece lo aveva fatto. Aveva preso Cassala, Ghezan Kurmuk e Galabat. E poi Moiale e ad est l’intera Somalia Britannica.
Lui quelli li odiava. I tedeschi intendo.
E a Mussolini aveva continuato a rimarcare l’inadeguatezza delle truppe italiane in Africa per arginare l’offensiva nemica.
Oltre che a supplicarlo di non entrare in guerra a fianco di Hitler.
Inascoltato.
E così, all’inizio del 1941, aveva capito che l’Impero era condannato a morte.
In verità lo aveva capito anche prima, alla fine del 1940 quando aveva chiesto a Roma, in vista dell’offensiva nemica, qualcosa come 100 aerei, 10.000 gomme per autocarro e 100.000 ton di carburante.
E cosa gli avevano mandato? Trentanove S79 da bombardamento e trentadue caccia CR42. La benzina era arrivata con un piroscafo dal Giappone. Pieno anche di copertoni.
Peccato che non erano della stessa misura dei cerchioni dei loro autocarri.
Quindi inutilizzabili.
Non era questione di uomini.
Poteva contare ancora su 92.000 uomini nella divisione “Granatieri di Savoia” schierati intorno ad Addis Abeba e 80 battaglioni di camicie nere. E poi 200.000 indigeni. Ascari eritrei, zaptjè e dubat somali, poco adatti però ad una guerra difensiva
Il problema erano i mezzi.
Scarsissimi. Doveva difendere 8.700 Km di confini con soli 990 pezzi d’artiglieria, 240 aerei e una sessantina di “scatolette di sardine” o “bare d’acciaio” o “casse da morto.
Chiamavano così i nostri carri armati leggeri.
Avessero avuto anche milioni di mitragliatrici Fiat 1914, quelle con raffreddamento ad acqua, il loro destino sarebbe stato comunque segnato.
Fu in queste condizioni che alla Amedeo di Savoia si ritrovò sui 3.400 metri dell’Amba Alagi con 7.000 soldati italiani e 3.000 ascari
Lo sapeva. I 39.000 uomini del generale Cunningham non gli lasciavano scampo. Erano lì da un mese, precisamente dal 17 aprile 1941.Tre giorni prima Mussolini lo aveva autorizzato alla resa. E lui aveva chiesto agli indigeni di tornare ai loro villaggi.
Erano rimasti quasi tutti.
E così era giunto il tempo della resa.
La fine dell’Impero.
Gli avevano offerto di mettersi in salvo utilizzando un S79 in grado di fare la rotta Etiopia-Italia.
Aveva rifiutato.
“Devo difendere il mio onore e quello del mio Paese. Se devo cadere, cadrò in piedi”.
Nel frattempo Hailé Selassié era entrato trionfalmente ad Addis Abeba il 5 maggio e aveva preso il titolo di imperatore.
Tutti si aspettavano da lui una sola voce: vendetta, per quello che avevamo fatto anche con il gas.
Invece….
Aveva impedito rappresaglie e vendette emanando un editto di perdono verso noi italiani.
“Non ripagate dunque il male col male. (...) Prenderemo le armi al nemico e lo lasceremo andare a casa per la stessa via dalla quale è venuto."
Nel frattempo sull'Amba Alagi il Duca aveva perso 1.300 uomini.
Senza più colpi nei cannoni, pochi caricatori, senza viveri e acqua. Con una sete allucinante. Non avevano scampo. Avevano resistito tanti giorni e l’onore della bandiera era salvo.
Era giunto il momento.
Era il 17 maggio 1941 quando gli uomini di Amedeo d'Aosta si prepararono alla resa.
Il Duca era elegante come sempre, sull’attenti, con la cravatta d’ordinanza e le gambe strette nelle mollettiere color kaki.
Mentre veniva eseguito l'ammainabandiera italiano.
E poi la discesa giù dall’Amba.
Vicino a lui il generale inglese Maine.
Dietro un sottufficiale sudafricano. Ora è un POW, un prisoner of war, ma per lui e per gli italiani che scendono con lui, gli inglesi hanno preparato un picchetto d’onore.
Il duca Amedeo d'Aosta, ormai prigioniero, verrà trasferito in Kenia il 5 giugno 1941, in una riserva, a 50 miglia da Nairobi.
E’ il POW numero 11590.
Alla fine di dicembre la sua salute peggiorerà e morirà di tubercolosi il 3 marzo 1942 nell'ospedale militare di Nairobi.
Al suo funerale parteciparono anche i generali britannici con il lutto al braccio.
Per sua espressa volontà è sepolto al sacrario militare italiano di Nyeri, in Kenya, insieme a 676 suoi soldati.
La decisione di entrare in guerra a fianco di Hitler decretò di fatto la fine dell’Impero.
Da quel giorno l’Impero dovette fare assegnamento solo sulle proprie forze.
Come olio, pasta e riso per pochi mesi, carburante per sei mesi, carbone per quattro, pneumatici per 60 giorni.
Per non parlare delle armi.
E dell’aviazione. Che disponeva solo di 325 caccia e bombardieri di cui 61 in magazzino e 81 in riparazione.

Era il 3 ottobre 1935 quando tre corpi d’armata italiani avevano varcato dall’Eritrea il fiume Mareb iniziando l’invasione dell’Etiopia.
Mussolini si era affrettato a comunicare al mondo l’avvenuta invasione.
Il sottosegretario agli esteri italiano Fulvio Suvich spedì un telegramma alla Società delle Nazioni.
“Ho l’onore di comunicarvi ciò che segue.
Lo spirito bellicoso e aggressivo che si è sviluppato in Etiopia…ha trovato la sua ultima e piena espressione nell’ordine di mobilitazione generale annunciato dall’Imperatore…”
“Questo ordine costituisce una minaccia diretta e immediata per le truppe italiane…
Il Governo italiano costretto ad autorizzare il comando superiore a prendere le misure necessarie di difesa..”

Secondo il Governo italiano eravamo noi gli aggrediti e loro gli aggressori.
L’attacco all’Etiopia non fu preceduto da una formale dichiarazione di guerra.
Per Mussolini quei territori erano abitati da selvaggi, altro che Stato sovrano.
Quindi nessun diritto Internazionale.
Per anni si negò l'uso dei gas in Etiopia. Documenti provarono invece che furono usati arsina e iprite.
Ma non fu solo gas.
In Etiopia il fascismo mostrò il suo vero volto.
Mostrò quanto fosse razzista e violento.

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