Non sei obbligato ad ascoltare la storia della mia vita Johannes. So che ti costa fatica e so quello che provi ogni volta che leggi queste storie.
Sai già che la mia è una di quelle che tocca nel profondo.
Se non vuoi ascoltarla ti basta un click.
E io me ne vado.
Vedo che sei ancora qui.
Quindi mi sento autorizzato a raccontare quello che è accaduto in quei giorni.
Di come tutto possa precipitare da un momento all’altro quando meno te lo aspetti.
La mia infanzia? Come quella di tanti altri.
Sono nato a Caposele, in provincia di Avellino al confine con quella di Salerno, il 29 gennaio 1927.
Una splendida terra la mia. E molto generosa.
Tanto da regalare la sua principale ricchezza ai pugliesi. Le sorgenti di Santa Maria della Sanità e del fiume Sele.
Lo sai Johannes che gli antichi attribuivano al fiume Sele una proprietà magica?
Qualunque oggetto di legno immerso nelle sue acque per un certo periodo di tempo diventa pietra.
Non ci credi?
Lo ha scritto Aristotele, il sommo filosofo greco.
Lui il fiume lo chiamava Ceto.
E pure il geografo Strabone ne parla.
“I virgulti immersi nelle sue acque sassificano pur conservando la forma e il colore primitivo“.
E poi Plinio.
“Similmente nel fiume Sele oltre Salerno, si trasformano in pietra non solo i rami che vi si immergono, ma anche le foglie“.
Non sto cambiando discorso Johannes.
Comunque puoi chiamarmi Leuccio, come hanno sempre fatto tutti in paese.
Ho una moglie, Raffaella, che in paese chiamano Faluccia, e tre figli, Carmela, Enzo e Alfonsina.
Dei figli bellissimi.
E io con il lavoro più bello del mondo.
Almeno per me.
Custode e addetto alla manutenzione nella parte iniziale della più grande opera idraulica.
La galleria Pavoncelli lunga 260 km, che porta oltre 4.000 litri al secondo fino in Puglia.
Si chiama Acquedotto Pugliese, anche se parte in Irpinia.
Te l’ho detto, siamo generosi.
La Puglia era sempre stata povera di acqua.
Orazio la descriveva come terra assetata: "siderum insedit vapor siticulosae Apuliae" (arriva alle stelle l'afa della Puglia sitibonda).
Loro senza acqua.
E noi invece, a Caposele, ne avevamo tanta.
Così all’inizio del secolo si era cominciato a costruire l'acquedotto.
Per me un onore lavorarci.
La nostra casa era la foresteria all'imbocco della galleria Pavoncelli. Una vita tranquilla.
I figli che crescono, una bella moglie. Normalità.
Fino a quel maledetto giorno.
Forse avrei dovuto immergere il mio corpo nelle acque del Sele.
Sarei diventato più forte e forse sarei riuscito a resistere a quella tempesta.
Sicuramente avrei dovuto farlo almeno con i miei figli. Per renderli resistenti come pietre.
Ricordo benissimo quel giorno.
Il giorno precedente, un sabato, avevamo festeggiato il compleanno di mia figlia Carmela, la primogenita.
Mia moglie Faluccia aveva preparato una bella torta. Una bellissima giornata. Mai immaginando.
Il giorno dopo, domenica 23 novembre 1980, a mezzogiorno, ricevemmo una telefonata da mio cognato.
Voleva parlare con mio figlio Enzo.
Lo invitava a casa sua a Lioni, in provincia di Avellino.
Enzo era entusiasta.
E così era andato lo avevamo accompagnato.
Non ricordo altro.
Ricordo solo che alle 19 Carmela prese l’auto e con Alfonsina andò a riprendere Enzo per riportarlo a casa.
Erano le 19.34 quando iniziò a tremare tutto.
Novanta lunghissimi secondi.
La nostra casa subì numerosi danni, ma non crollò. Questo permise a me e a mia moglie di fuggire in strada.
Erano quasi le 20, quando la vidi.
La sezione iniziale dell’acquedotto, intendo.
Era danneggiata. C’era il rischio di dover bloccare l’erogazione dell’acqua verso la Puglia.
Ero preoccupato, angosciato per i miei figli, cognato, cognata, nipotini.
Non avevo notizie, ma dovevo agire. Subito.
Con altri colleghi rimanemmo all’acquedotto per eseguire tutte le operazioni necessarie a mettere in sicurezza il tutto. Senza dormire.
Mangiando pochissimo.
Un lavoro estenuante, ti garantisco.
Ma necessario.
Fu solo mercoledì 26 novembre che ricevetti la notizia. Avevano ritrovato Carmela, Enzo e Alfonsina.
E anche mio cognato, mia cognata e i nipotini.
Sotto le macerie.
La casa dove si trovavano in quel momento era crollata su di loro.
Carmela, aveva 22 anni. Enzo di anni ne aveva 18.
E Alfonsina 15. Tutti morti. I miei angeli.
Che strazio Johannes. E poi tutte quelle telefonate.
I parenti che stavano a Milano che ci invitavano a salire da loro. Ma io non potevo partire.
I lavori all’acquedotto non erano conclusi.
Tutta l’acqua della Puglia dipendeva da mio lavoro e da quello dei miei colleghi.
Continuai, con la morte nel cuore, ad andare sul posto di lavoro.
Per sei lunghissimi e strazianti giorni.
E qui finisce la storia raccontata in prima persona da Leone Cuozzo, che tutti chiamavano Leuccio.
Seppur in un mutismo straziante, mise in sicurezza l’Acquedotto Pugliese, perché diceva: “milioni di persone dipendono da me”.
Per sei lunghissimi giorni
Poi, sabato 29 novembre, salì in macchina con la moglie intenzionato ad andare a Roma.
Con una scusa scese dall’auto e risalì in casa, richiudendo la porta dietro di sé.
Un colpo di fucile fu l’ultima scelta della sua vita.
Il 6 luglio del 2012, alla presenza della moglie Raffaella, è stato dedicato a Leone Cuozzo il nuovo potabilizzatore dell’Acquedotto Pugliese che consente di immettere nella rete l’acqua raccolta dall’invaso artificiale di Conza della Campania.
Quei 90 interminabili secondi del 23 novembre 1980 distrussero gran parte dell’Irpinia e della Basilicata provocando 2.914 morti, 8.848 feriti e circa 280.000 sfollati.
Che se ci guardi dentro, non sono soltanto numeri.
L’acquedotto Pugliese è un’opera straordinaria.
Oggi è l’acquedotto più lungo d’Europa e il terzo al mondo.
40.000 chilometri di reti, 5 potabilizzatori, 184 impianti di depurazione.
Con un telecontrollo di 4500 sensori e 1250 postazioni, serve oltre quattro milioni di persone
E questa è la storia di Leone Cuozzo, detto Leuccio.
La storia di un uomo che mentre crollava tutto, intorno a lui e dentro di lui, si preoccupò di garantire acqua a milioni di pugliesi.
Perché quello, diceva, era il suo lavoro.
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
“Le dittature, tanto di destra come di sinistra, non mi sono mai andate a genio. Purtroppo ci sono persone a cui piacciono i dittatori”.
Non mi tirai indietro quando fu indetto quel referendum. L’esito era incerto. Io molto conosciuto.
"Rey del metro cuadrado" mi chiamavano.
Era il 1988 e il mio Paese, il Cile, da anni era un paese triste, che non sorrideva più.
Molti sparivano nel nulla. La tortura all’ordine del giorno. Una continua violazione dei diritti umani.
Per quello intervenni in quel referendum, schierandomi pubblicamente per il NO.
La Costituzione entrata in vigore nel 1981 stabiliva che fosse effettuato un referendum al termine del primo mandato presidenziale.
Votare "SI" significava confermare Pinochet, il "No" avrebbe portato a nuove elezioni.
Come potevo tirarmi indietro?
Non lo avevo mai fatto.
Caro Johannes, ho letto che anche da voi ci sono i campi di concentramento.
Ho visto gente sfilare per strada vestita con quelle pettorine a righe che indossavamo noi in quell’inferno.
Avevano in mano anche del filo spinato. Mi dispiace.
Soprattutto per quelle donne.
Sai. Ricordo ancora quando hai “voluto” leggere le nostre storie.
Non ti bastava sapere a grandi linee cosa erano stati quei campi di concentramento per noi donne.
Hai voluto conoscere anche i minimi particolari. Vomitare, fu per te una liberazione. I tuoi lettori sono avvisati
Noi donne non fummo trattate peggio degli uomini come ha scritto qualcuno. Fummo trattate diversamente, quello sì, in quanto donne.
Dalla rasatura delle parti intime a quelle luride baracche. O “gabbie per conigli” come le chiamavamo. Con quelle coperte ricoperte di escrementi.
“Männer zur linken! Frauen nach rechts!”, uomini a sinistra! Donne a destra! E perché mai?
Nevicava quella domenica di gennaio quando il treno merci ci aveva scaricato dopo un viaggio di 36 ore.
659 ebrei olandesi.
Esattamente 240 uomini e bambini e 419 donne e bambine.
Partiti dal campo di transito olandese di Westerbork stipati all’inverosimile.
Un sollievo una volta arrivati, con la possibilità di sgranchirmi le gambe finalmente. E tante domande. Dove sono arrivato? E’ un posto che non ho mai sentito. Lo chiamano Auschwitz.
E poi.
Cosa ci fa quel mucchio di valigie abbandonate nella neve? Dove sono i proprietari?
Sicuramente verranno a riprendersele.
Ho 40 anni, e indosso un soprabito. Sono sporco.
E stanco, dopo tutte quelle ore in quel treno gelido senza cibo, acqua e servizi igienici.
C’è chi descrive la realtà nella sua interezza.
E poi c’è chi fa solo propaganda, che è una descrizione parziale e spesso falsa della stessa realtà.
La propaganda mira a influenzare le opinioni e il comportamento altrui, a vantaggio di qualcuno, per determinati obiettivi.
Quante tecniche esistono per creare falsi messaggi, per fare della propaganda credibile?
A decine.
Si va dalla "conventio ad tacendum", dove si scelgono le notizie da dare e quelle da nascondere, al “ricorso alla paura” per creare qualche ipotetico nemico.
Del “ricorso alla paura” fu maestro Goebbels, che riuscì a convincere milioni di tedeschi che qualcuno voleva la loro morte.
(si servì delle idee e dei libri di Theodore N. Kaufman, uomo d'affari e scrittore ebreo americano)
Un vero peccato.
Il fotografo di guerra Robert Capa era con una delle prime ondate di truppe sulla spiaggia di Omaha Beach.
Sto parlando dello sbarco in Normandia.
Le spiagge erano state chiamate in gergo Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword.
Dicevo, un vero peccato.
Capa scattò infatti 106 fotografie quel giorno, durante lo sbarco.
Magari in uno di quegli scatti c’ero anch'io. Magari.
Peccato quell’errore di un tecnico nel laboratorio fotografico della rivista Life a Londra.
Solo 11 fotografie si sono salvate.
E pure sfocate.
Il fotografo ha detto che la sfocatura era stata una sua scelta. Non so, mi sembra strano.
Comunque so solo che quel giorno, che si sarebbe poi rivelato fondamentale per le sorti del conflitto, io ero presente.
E fui pure una pedina fondamentale.
Mamma si chiamava Franzisca Grünwald, una bella infermiera di ventisei anni.
Papà un ufficiale medico di trentatré anni di nome Albert Salomon.
Il luogo? Un ospedale di fortuna sul fronte di guerra in Francia.
Come riuscì a conquistarlo?
Fu grazie a uno starnuto.
Quel giorno Albert stava operando un soldato, le mani occupate, poi uno starnuto e il naso che cola.
Fu mamma, la bella infermiera, a estrarre il suo fazzoletto per pulirgli il naso.
E fu in quel preciso momento che lui si accorse di lei. E se ne innamorò.
Un breve fidanzamento e nel 1916 il matrimonio a Berlino.
Una cerimonia religiosa ebraica e poi il ritorno al fronte per lui. Per lei una casa vuota.
Papà tornò dal fronte giusto in tempo per vedermi nascere. Era il 16 aprile 1917.