Era il 1916 quando papà si arruolò volontario nel Regio Esercito, assegnato al 6º Reggimento Bersaglieri. Aveva diciannove anni. Militare in carriera era partito per l’Africa nel 1935 con il grado di centurione. Avevo quattordici anni quando mi venne detto che papà non c’era più.
Ucciso il 27 febbraio 1936, durante la seconda battaglia del Tembien.
Per il coraggio gli fu assegnata la Medaglia d'oro al valor militare.
Io ero nato a Bologna il 9 marzo 1922, ma la mia famiglia proveniva da Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.
Dopo la mia nascita la mia famiglia si era poi trasferita a Nese, una frazione di Alzano Lombardo.
La maturità presso il Collegio militare Teulié di Milano e, nel 1939, la facoltà di Ingegneria al Politecnico.
Fu in quegli anni che entrai a far parte della Fuci.
Mi trovavo a Cerveteri (Roma) l’8 settembre, nel battaglione allievi ufficiali.
Fu lì che imparai quel minimo di tattica militare.
E fu a Roma che presi parte agli scontri contro le forze tedesche presso Porta San Paolo.
Il 25 settembre del 1943 mi rifugiai nel comune di Piazzatorre, in Alta Valle Brembana.
Io coi fascisti non mi volevo arruolare, per quello mi recai a Milano entrando nel GAP locale.
Per paura di essere riconosciuto scappai a Lovere per unirmi alla 53° Brigata Garibaldi.
Col nome di battaglia «tenente Giorgio» presi parte a diversi combattimenti contro le forse nazifasciste tra la Val Seriana e la Val Cavallina.
Il 31 agosto 1944, ero anch’io della partita nella vittoriosa battaglia contro i nazifascisti in zona Fonteno, vicino Bergamo
Tutto era cominciato il 6 agosto.
“C’era un maresciallo a Sovere che ne combinava di tutti i colori, aveva mandato in Germania 70-80 persone e ne aveva fatte uccidere 5 o 6”.
Decidemmo di dire basta.
Per prenderlo ci mettemmo d’accordo con la sua amante.
All’appuntamento, lungo la strada che da Pianico porta a Sovere, trovò noi partigiani.
Lo catturammo e lo portammo con noi in montagna.
I tedeschi iniziarono a mandare delle belle ragazze su a Fonteno.
Dicevano di voler fare fotografie e vendere lievito per il pane.
In realtà dovevano cercare di capire dove eravamo nascosti.
Poi al martedì salivano i tedeschi nel ristorante per essere informati dalle ragazze.
Quando lo venimmo sapere ci appostammo nei pressi del ristorante e catturammo due soldati tedeschi e l’interprete.
La mattina seguente Fonteno fu invasa dalle truppe tedesche alla ricerca dei loro uomini.
Circondato il paese, radunarono tutti gli abitanti nella piazza.
“Poi hanno preso il parroco Don Mocchi, il curato Vittorio Musinelli e la maestra Faustina Bertoletti, il falegname Angelo Pedretti e gli hanno detto che se non avessero riportato i due tedeschi e l’interprete entro le 12 avrebbero ucciso tutta la popolazione e bruciato il paese”
Eravamo quarantacinque partigiani su in montagna quando arrivarono a dirci di liberare i tedeschi.
Venimmo a sapere che i tedeschi avevano cominciato a bruciare le cascine.
Fui io a prendere la decisione.
Niente consegna. Avremmo liberato noi il paese.
Quando attaccammo i tedeschi si scatenò l’inferno. Conoscevamo troppo bene quella zona.
Entrammo a Fonteno, immobilizzammo i tedeschi e liberammo tutti gli abitanti.
Distruggemmo anche gli automezzi tedeschi con bombe a mano.
Non solo.
Riuscimmo a catturare il comandante delle SS, maggiore Langer.
Obbligandolo, in cambio della libertà, a ordinare la ritirata dei suoi uomini e dei fascisti.
E l'impegno di non operare ritorsioni e rappresaglie in futuro.
Liberato, Langer non mantenne la parola.
I tedeschi tornarono a novembre.
Non c’era nessuno di noi partigiani, perché ci eravamo già trasferiti altrove.
Non trovando nessuno presero due cacciatori.
Mentre li portavano in paese videro un ragazzo che concimava il prato e uno che dava da mangiare alle sue bestie.
“Li hanno portati al cimitero e li hanno uccisi tutti”. Loro non avevano fatto niente di male.
Non erano partigiani.
Mi venne detto che la domenica entrò una donna in chiesa chiedendo di suo figlio.
“Stava concimando il prato. Non è tornato a casa. Sapete qualcosa?”.
La Tagliamento ci attaccò il 17 novembre nella zona della Malga. Grazie al solito delatore.
In questo caso una nostra sentinella russa che invece di avvisarci aveva abbandonato la sua posizione.
Per colpa sua ci trovammo sotto il lancio di bombe a mano.
Due miei uomini furono feriti gravemente e ben presto finimmo le munizioni.
Fui io stesso a chiedere ai fascisti di interrompere il combattimento.
Mi sarei arreso se avessero portato i miei due uomini in ospedale.
Accettarono. E così deponemmo le armi.
Io e i miei compagni venimmo arrestati.
Processati e condannati a morte.
Ricordate i miei due uomini feriti ai quali i fascisti avevano garantito le cure? Li avevano uccisi subito a colpi di pugnale.
Due giorni prima della fucilazione mi si presentò il Resmini.
Con la concessione della grazia in quanto mio padre era medaglia d’oro nella campagna d’Africa. Gli dissi che avrei accettato, purché la grazia fosse valida anche per i miei uomini. «O tutti o nessuno!». Lui rifiutò. Odiava troppo i partigiani. Chiesi di essere fucilato per primo
Il 21 novembre del 1944 Giorgio Paglia, il “tenente Giorgio” e i suoi uomini furono portati al cimitero di Costa Volpino.
A comandare il plotone di esecuzione c’era un certo Giordano Colombo.
Un vecchio compagno di università di Giorgio.
“Carissima Cicci, stasera mi fucileranno. Non piangere per me. Saprò morire da soldato. Mi spiace non poterti vedere ancora, ma questi sono i casi della vita. In questi mesi di montagna ho sognato tanto la vita che avremmo condotto assieme per sempre, se tutto fosse finito bene”.
“Se Dio non ha voluto vuol dire che è bene così. Ti ringrazio per le serene gioie che mi hai dato. Ricordati che ti ho voluto molto, molto bene. Salutami mamma, papà e Gianfranco. Ti abbraccio. Giorgio”.
Non appena seppe della morte del fidanzato, Maria Lucia Vandone, la sua Cicci, prese un treno per Bergamo.
«Vegliai il corpo con sua mamma per tutta la notte e poi al mattino lo portammo al cimitero.
I fascisti non ci permisero di fargli il funerale».
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Prenderà la denominazione di 612° Compagnia OP (Ordine Pubblico). Sotto i suoi ordini.
Perché, si diceva, lui gli uomini li sapeva comandare “in modo adeguato”.
Che solo a sentire la parola “adeguato” ai bergamaschi faceva venire i brividi.
Come nel gennaio 1944 quando aveva effettuato un rastrellamento al Roccolo "Gasparotto al Colle di Zambla per cercare i responsabili dell’uccisione a Bergamo di Giovanni Favettini, commissario prefettizio di Scanzorosciate.
Un attacco ai partigiani di Dante Paci e Aldo Battagion concluso con l’arresto di tutti i partigiani e l’uccisione di Valdo Eleuterio, 17 anni.
E il roccolo dato alle fiamme.
Lui quei partigiani li aveva torturati.
Il Paci per sei mesi.
Senza ottenere nessuna informazione.
Mi chiamo Maria Cefis, ma la storia che sto per raccontare non è la mia storia.
E’ la storia di un ragazzo di ventidue anni, Angelo, ucciso il 23 novembre 1944 in Valle Imagna.
Perché tengo tanto a lui?
Perché era il mio fidanzato.
Ricordo che faceva freddo quella mattina.
In quell’anno Angelo lavorava al Linificio – Canapificio Nazionale di Villa d’Almé.
Ma non faceva solo quello.
Io lo sapevo ed ero orgogliosa di lui.
Lui era anche uno staffettista della Brigata partigiana delle Fiamme Verdi “Valbrembo”, capeggiata da don Antonio Milesi.
Don Antonio era il curato di Villa d’Almè, nome di battaglia di “Dami”.
Fu lui quel giorno che diede ad Angelo e a Emanuele Quarti l’incarico di consegnare alcuni ordini agli uomini della “Valbrembo” accampati sul monte Ubione.
Ma quando arrivarono all’altezza di Capizzone…
Dopo la costituzione, nel marzo del 1944, della famigerata 612° Compagnia OP, il “boia” Aldo Resmini, elevato a comandante per “meriti” (leggere qui bit.ly/3os7deK), ebbe l’ennesima occasione per dare sfoggio del suo odio verso i partigiani.
Da indiscrezioni della gente del luogo, noi della formazione partigiana Brigata Fiamme Verdi “Valbrembo”, venimmo a sapere che la Villa Masnada in località Curdomo sulla provinciale tra Bergamo e Ponte San Pietro, era fornita di indumenti militari, armi automatiche e munizioni.
Non solo.
Nel giardino facevano bella mostra due autocarri. Un’occasione troppo ghiotta.
I tedeschi che ogni mattina lasciavano la villa per recarsi alle Officine Caproni di Ponte San Pietro per controllare la produzione bellica e due autocarri per trasportare il bottino.
Oggi è il 22 dicembre 1943. E’ l’alba, pioviggina e in lontananza nuvoloni neri si stavano avvicinando. Ci hanno fatti scendere dal camion all’interno del piazzale di un magazzino di legname accanto alla strada.
Nessun dubbio sul nostro destino.
Perché ci eravamo seduti sopra
Sulle nostre tredici bare, intendo.
Nessun rimpianto. Conoscevamo i rischi.
Lo sapevamo fin dall’inizio.
Quello che mi dispiace è non essere riuscito a proteggere i miei ragazzi.
Mi chiamo Eraldo Locardi, tenente, nome di battaglia “Longhi”.
Il 7 dicembre scorso, circa 200 tra tedeschi e fascisti guidati da una spia, hanno sorpreso sei di noi nella cascina appena fuori dalla frazione di Ceratello.
Io e altri sei siamo stati catturati pochi giorni dopo.
Sempre per colpa di quella maledetta spia.
Paneroni, chi è costui?
Paneroni sono io teste di rapa.
Giovanni Paneroni per la precisione, nato a Rudiano, in provincia di Brescia, il 23 gennaio del 1871, qualche giorno prima che Roma diventasse la capitale d'Italia. Fu papà Battista a indirizzarmi agli studi.
Prima le scuole elementari, che per l'epoca rappresentavano già un traguardo non indifferente, e poi il collegio vescovile a Bergamo, dove rimasi due anni.
Lasciai per mancanza di vocazione, ma quelle basi mi servirono per dare vita a quell’idea rivoluzionaria.
Iniziai prima a lavorare in una bottega in Bergamo dove imparai la lavorazione del "Tiramolla", uno dei dolci più diffusi e popolari del periodo.
Una professione che mi sosterrà economicamente per tutta la vita, permettendomi di crescere una grande famiglia con ben otto figli.
Salve Johannes. Che succede?
Chi sono tutte queste persone?
Hai organizzato una rimpatriata per caso?
Per quale motivo sono divisi in tre gruppi?
Ho capito.
Sono tutte facce conosciute vedo, a cominciare dal console romano Appio Claudio Caudice.
Sta parlando con il tiranno di Siracusa, Gerone II. Vedo il generale Annone con il console Marco Attilio Regolo.
Accanto a loro lo stratega spartano Santippo.
Tito Livio non manca mai.
Con i suoi racconti incanta sempre tutti.
Guarda laggiù, c’è anche Amilcare Barca.
Con il figlio Annibale e il genero Asdrubale Maior.
E poi Gaio Lutazio Catulo.
In disparte, parlottano Publio Cornelio e Gneo Cornelio Scipione.
Non poteva certo mancare Quinto Fabio Massimo Verrucoso, chiamato “il temporeggiatore”.