Mi chiamo Maria Cefis, ma la storia che sto per raccontare non è la mia storia.
E’ la storia di un ragazzo di ventidue anni, Angelo, ucciso il 23 novembre 1944 in Valle Imagna.
Perché tengo tanto a lui?
Perché era il mio fidanzato.

Ricordo che faceva freddo quella mattina.
In quell’anno Angelo lavorava al Linificio – Canapificio Nazionale di Villa d’Almé.
Ma non faceva solo quello.
Io lo sapevo ed ero orgogliosa di lui.
Lui era anche uno staffettista della Brigata partigiana delle Fiamme Verdi “Valbrembo”, capeggiata da don Antonio Milesi.
Don Antonio era il curato di Villa d’Almè, nome di battaglia di “Dami”.
Fu lui quel giorno che diede ad Angelo e a Emanuele Quarti l’incarico di consegnare alcuni ordini agli uomini della “Valbrembo” accampati sul monte Ubione.
Ma quando arrivarono all’altezza di Capizzone…
Vennero sorpresi delle truppe fasciste della 612° Compagnia O.P. del Resmini.
E qui inizia il mio racconto.
E’ vero, ho trovato la forza di raccontare quel giorno solo pochi anni fa.
La gente deve sapere.
Non si può dimenticare. Non si deve dimenticare.
“Quando è arrivato nel bosco sopra Capizzone con uno zaino sulle spalle lo hanno visto i repubblicani e gli hanno sparato: lo hanno colpito ad una spalla. Lo hanno raggiunto e ha detto loro che era in giro per legna. […] lo hanno lasciato libero, quando arrivò un ex partigiano”
"Disse ai repubblicani che Angelo era un portaordini del “Dami” e che bisognava farlo fuori. Hanno spinto Angelo sul colle e lo hanno legato ad un albero, gli hanno cavato gli occhi, gli hanno strappato le unghie per farlo parlare. La donna della cascina lo sentiva urlare”.
“Ma l’Angelo non parlò per non tradire i suoi compagni. Alla fine lo hanno colpito con sette pallottole nella schiena, hanno tagliato la corda con la quale lo avevano legato e l’Angelo cadde in avanti: lo abbiamo trovato così il giorno dopo, in una pozza di sangue”
"Era stato Cesco, il fratello minore di Angelo a dirmi: vieni andiamo a vedere l’Angelo che è stato ferito. Siamo arrivati in bicicletta fino a Capizzone.
Siamo arrivati al colle e lo abbiamo visto in quello stato. Io mi sono sentita male”.
Anche Emanuele Quarti, che si trovava con Angelo racconta quel giorno.
“Giunti non trovammo i partigiani, ma i fascisti che intimarono “mani in alto”. Mentre alzavamo le mani ci guardammo e dicemmo «scappiamo» e poi ci buttammo a corpo morto verso la valle. Io inciampai e caddi”
“Angelo venne raggiunto da una raffica di mitra ad una spalla. Rotolai in un cespuglio e rimasi immobile per ore. Sentii i fascisti passare più volte vicino, mentre sparavano all’impazzata nei cespugli, aspettandomi da un momento all’altro di essere colpito”
“[…] Fu lì che sentii una voce, quella del traditore, che diceva ai fascisti che quello era la staffetta del comandante Dami. I fascisti inviperiti si accanirono sull’Angelo pestandolo col calcio del fucile e pugni per strappargli i nomi dei suoi compagni”.
Una pausa e poi altri colpi, e altri lamenti.
“Dimmi dove sono i tuoi amici!”. Come mai non li abbiamo trovati nel rifugio? Chi ti ha mandato?”. “Non t’illuderai di aiutarli, per caso!”. “Ormai li conosciamo tutti i tuoi amici, è questione di giorni e li facciamo fuori tutti”.
“Nonostante le sevizie Angelo resistette eroicamente, non rivelando alcun nome.
Venne quindi legato ad un albero e fucilato nelle prime ore del pomeriggio dai militi fascisti della 612ª Compagnia di Ordine Pubblico".
Il giorno dopo Angelo Gotti, questo il suo nome, venne disteso su una scala da due uomini mandati dal sindaco di Capizzone, pur sapendo che intercettati dai fascisti sarebbero stati presi e torturati.
Poi lo misero su un carretto avvolto in una coperta verso la camera mortuaria.
Angelo Gotti era nato a Villa d’Almè, in provincia di Bergamo, il 4 novembre del 1921 da Giovanni e Francesca Cappelli.
Come accadeva spesso a quei tempi, dopo il suo percorso scolastico, fu assunto al canapificio-linificio nazionale di Villa d’Almè dove rimase fino al 1941.
Poi venne reclutato dal regio esercito, impiegato come autiere.
Tornato a casa dai genitori, dopo l’8 settembre prese i primi contatti con i compaesani rifugiati sulle montagne.
Scegliendo di far parte della brigata “Fiamme Verdi", comandata da Don Antonio Milesi.
Lui Don Antonio lo conosceva bene perché era il curato di Villa D’Almè quando lui passava le sue giornate all’oratorio.
Nella brigata si fece subito notare per il coraggio venendo nominato caposquadra con voto unanime dei membri della brigata.
Con una nota in «Gazzetta ufficiale» del settembre 1953, alla memoria del sacrificio di Angelo Gotti viene decretata la medaglia d’oro al valor militare con il grado di sergente maggiore dell’esercito e partigiano combattente; nella motivazione dell’onorificenza si legge:
Valoroso combattente della lotta di liberazione, distintosi fin dall’inizio del movimento per iniziativa, per capacità di comando e per intrepido coraggio dimostrato in numerosi combattimenti, dopo 14 mesi di indefessa attività, seriamente ferito cadeva nelle mani del nemico».
Orrendamente torturato,resisteva con sovrumana forza d’animo nulla rivelando.Sanguinante e mutilato di un occhio veniva posto davanti ai fucili del plotone di esecuzione,con esemplare coraggio rivendicava la sua appartenenza alle formazioni partigiane e la sua fedeltà alla Patria

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10 Dec
Prenderà la denominazione di 612° Compagnia OP (Ordine Pubblico). Sotto i suoi ordini.
Perché, si diceva, lui gli uomini li sapeva comandare “in modo adeguato”.
Che solo a sentire la parola “adeguato” ai bergamaschi faceva venire i brividi.
Come nel gennaio 1944 quando aveva effettuato un rastrellamento al Roccolo "Gasparotto al Colle di Zambla per cercare i responsabili dell’uccisione a Bergamo di Giovanni Favettini, commissario prefettizio di Scanzorosciate.
Un attacco ai partigiani di Dante Paci e Aldo Battagion concluso con l’arresto di tutti i partigiani e l’uccisione di Valdo Eleuterio, 17 anni.
E il roccolo dato alle fiamme.
Lui quei partigiani li aveva torturati.
Il Paci per sei mesi.
Senza ottenere nessuna informazione.
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8 Dec
Era il 1916 quando papà si arruolò volontario nel Regio Esercito, assegnato al 6º Reggimento Bersaglieri. Aveva diciannove anni. Militare in carriera era partito per l’Africa nel 1935 con il grado di centurione. Avevo quattordici anni quando mi venne detto che papà non c’era più.
Ucciso il 27 febbraio 1936, durante la seconda battaglia del Tembien.
Per il coraggio gli fu assegnata la Medaglia d'oro al valor militare.
Io ero nato a Bologna il 9 marzo 1922, ma la mia famiglia proveniva da Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.
Dopo la mia nascita la mia famiglia si era poi trasferita a Nese, una frazione di Alzano Lombardo.
La maturità presso il Collegio militare Teulié di Milano e, nel 1939, la facoltà di Ingegneria al Politecnico.
Fu in quegli anni che entrai a far parte della Fuci.
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7 Dec
Dopo la costituzione, nel marzo del 1944, della famigerata 612° Compagnia OP, il “boia” Aldo Resmini, elevato a comandante per “meriti” (leggere qui bit.ly/3os7deK), ebbe l’ennesima occasione per dare sfoggio del suo odio verso i partigiani.
Da indiscrezioni della gente del luogo, noi della formazione partigiana Brigata Fiamme Verdi “Valbrembo”, venimmo a sapere che la Villa Masnada in località Curdomo sulla provinciale tra Bergamo e Ponte San Pietro, era fornita di indumenti militari, armi automatiche e munizioni.
Non solo.
Nel giardino facevano bella mostra due autocarri. Un’occasione troppo ghiotta.
I tedeschi che ogni mattina lasciavano la villa per recarsi alle Officine Caproni di Ponte San Pietro per controllare la produzione bellica e due autocarri per trasportare il bottino.
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6 Dec
Oggi è il 22 dicembre 1943. E’ l’alba, pioviggina e in lontananza nuvoloni neri si stavano avvicinando. Ci hanno fatti scendere dal camion all’interno del piazzale di un magazzino di legname accanto alla strada.
Nessun dubbio sul nostro destino.
Perché ci eravamo seduti sopra
Sulle nostre tredici bare, intendo.
Nessun rimpianto. Conoscevamo i rischi.
Lo sapevamo fin dall’inizio.
Quello che mi dispiace è non essere riuscito a proteggere i miei ragazzi.
Mi chiamo Eraldo Locardi, tenente, nome di battaglia “Longhi”.
Il 7 dicembre scorso, circa 200 tra tedeschi e fascisti guidati da una spia, hanno sorpreso sei di noi nella cascina appena fuori dalla frazione di Ceratello.
Io e altri sei siamo stati catturati pochi giorni dopo.
Sempre per colpa di quella maledetta spia.
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3 Dec
Paneroni, chi è costui?
Paneroni sono io teste di rapa.
Giovanni Paneroni per la precisione, nato a Rudiano, in provincia di Brescia, il 23 gennaio del 1871, qualche giorno prima che Roma diventasse la capitale d'Italia. Fu papà Battista a indirizzarmi agli studi.
Prima le scuole elementari, che per l'epoca rappresentavano già un traguardo non indifferente, e poi il collegio vescovile a Bergamo, dove rimasi due anni.
Lasciai per mancanza di vocazione, ma quelle basi mi servirono per dare vita a quell’idea rivoluzionaria.
Iniziai prima a lavorare in una bottega in Bergamo dove imparai la lavorazione del "Tiramolla", uno dei dolci più diffusi e popolari del periodo.
Una professione che mi sosterrà economicamente per tutta la vita, permettendomi di crescere una grande famiglia con ben otto figli.
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2 Dec
Salve Johannes. Che succede?
Chi sono tutte queste persone?
Hai organizzato una rimpatriata per caso?
Per quale motivo sono divisi in tre gruppi?
Ho capito.
Sono tutte facce conosciute vedo, a cominciare dal console romano Appio Claudio Caudice.
Sta parlando con il tiranno di Siracusa, Gerone II. Vedo il generale Annone con il console Marco Attilio Regolo.
Accanto a loro lo stratega spartano Santippo.
Tito Livio non manca mai.
Con i suoi racconti incanta sempre tutti.
Guarda laggiù, c’è anche Amilcare Barca.
Con il figlio Annibale e il genero Asdrubale Maior.
E poi Gaio Lutazio Catulo.
In disparte, parlottano Publio Cornelio e Gneo Cornelio Scipione.
Non poteva certo mancare Quinto Fabio Massimo Verrucoso, chiamato “il temporeggiatore”.
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