Mi chiamavano “il tessitore”, ma sono sempre stato per tutti solo il “Bepi”.Per il mio carattere, per quello che ho passato e per come è finita, la voglia di raccontarvi la mia storia è poca, anzi pochissima. Ma per Johannes deve essere raccontata. Dice che la gente deve sapere.
Mi chiamo Giuseppe Signorelli e sono nato a Bergamo il 18 settembre 1907.
Come molti ragazzi ho frequentato le scuole professionali indirizzo meccanico, riuscendo ad entrare, ancora giovane, alla Dalmine.
Con una mansione che mi aiutò moltissimo, quando venne il momento.
Ero addetto alla manutenzione delle macchine da scrivere negli uffici. Con assoluta libertà di movimento. Di più. Avevo la possibilità di conosce i dirigenti.
Come accadde a molti, io non aspettai l’8 settembre. Iniziai ancora prima della guerra.
A fare opera di proselitismo, intendo.
A creare una rete clandestina antifascista.
Devo dire che sono stato fortunato.
Alla Dalmine appena capivo che qualcuno, operaio o dirigente, aveva le mie stesse idee, gli raccontavo di quella rete.
Nessuno mi ha mai denunciato.
Forse perché un fascista si riconosce subito.
E io da loro stavo alla larga. Alla larghissima.
Di giorno lavoravo e di notte ci riunivamo per discutere.
Quasi sempre in casa Quarti, dove più tardi conobbi Ugo La Malfa.
Lavoravo, facevo riunioni con antifascisti e studiavo. Soprattutto testi di economia e problemi del lavoro, cosa che mi permetterà in seguito di dibattere con studiosi della materia.
Scrivevo anche articoli su “Voci d’Officina”, organo del Partito d’azione.
Naturalmente feci anche altro.
Come il 26 luglio del 1943 quando venni a sapere che il Direttore tecnico Zampi avrebbe parlato agli operai della Dalmine dalle scale della direzione.
Lo avevo studiato nei minimi particolari.
Il piano era di agire alla fine del discorso.
Gli operai avrebbero riservato al direttore la giusta riprovazione.
Proprio in quel momento, così dissi al Sottocornola, noi avremmo dovuto sottrarre le armi dai magazzini delle guardie per consegnarle poi a Bergamo agli uomini del Pda.
Fu la mia prima azione. Rubammo le armi, e le nascondemmo nel campanile di Lallio. Per recuperarle più tardi. Alla fine di agosto venni nominato Vicecommissario del sindacato.Una rete di amici che dopo l’8 settembre entreranno a far parte della Commissione clandestina di fabbrica
Dopo l’8 settembre i fascisti entrarono in azienda per arrestarci. Fuggii, pensando al dopo. Lo ripetevo a quelli che ”non vedono altro che la lotta di classe e la dittatura di una classe sull’altra”. Ci vogliono “sindacati non apolitici […]ma sindacati indipendenti dai partiti”
Nel frattempo dovevo selezionare gli elementi necessari a formare squadre di combattimento.
Procurando i mezzi necessari a quelli che volevano costituire una banda partigiana.
Ma quando c’era da combattere non mi tiravo certo indietro.
Come quando a Milano venni a sapere che per colpa di una spia era stato ucciso Sergio Kasman in Piazza Lavater.
Sergio, a soli 24 anni, era stato nominato, su indicazione di Ferruccio Parri, Capo di Stato Maggiore del Comando Piazza di Milano.
Piombai a Milano e con altri due compagni catturammo la spia.
Un incidente mi impedì di fare giustizia, ma da quel giorno presi il posto di Sergio.
Era il 24 maggio del 1944 quando venni arrestato in Piazza Fontana a Milano.
Tentai la fuga, ma venni ferito e trasportato in barella al comando della Legione “Resega” in Piazza San Sepolcro.
Mi dissero che sarei stato fucilato l’indomani all’Arena. Durante il tragitto un allarme aereo.
Approfittai del caos per mischiarmi alla gente scesa da un autobus.
Ero ancora capo di Stato maggiore della Piazza di Milano quando ci fu la liberazione delle città del nord, comandante partigiano delle Brigate Giustizia e Libertà.
Con la nomina di Ferruccio Parri a Presidente del Consiglio entrai a far parte della Consulta Nazionale.
Deluso di quello che stava avvenendo.
A cosa era servita la Resistenza?
Non volevo arrendermi. Avevo capito che la Resistenza sarebbe morta nel grigiore della politica tra mediazioni e compromessi.
Quando capii la brutta piega mollai tutto.
Che significavano quelle parole dette e ripetute da Togliatti, Nenni e De Gasperi?
“Clemenza per i piccoli e intransigenza per i grandi” Per poi aggiungere: ”bisogna punire solo chi ha compiuto atti di sevizie gravi e provate”.
Io mica li capivo.
A quella stregua Robespierre e Lenin che avrebbero dovuto fare?
Sono certo che il re di Francia o lo zar di Russia non avevano seviziato e ucciso personalmente nemmeno un suddito.
O fatto parte di un plotone di esecuzione.
O guidato un rastrellamento.
La Corte straordinaria di Bergamo aveva assolto quel Piero Pisenti, ministro della Giustizia della Repubblica di Salò.
Perché?
Il Pisenti aveva firmato, con Mussolini, quel bando che era costata la vita a tanti giovani.
Perché stava accadendo tutto questo?
Quei tre, e mi riferisco a Togliatti, Nenni e De Gasperi, non capiscono che se non tagliamo il male alla radice quel male continuerà a crescere intorno a noi?
Io non chiedo vendetta, io voglio giustizia. Quella vera. Altrimenti a che sono serviti tutti quei ragazzi morti?
C’era io, Bepi Signorelli, al comando della formazione della GL che aveva arrestato Piero Pisenti il 21 giugno 1945. I miei compagni erano intenzionati a fucilarlo, come previsto da un decreto del Clnai.
Fui io a oppormi, insieme al Solari. Per un processo giusto e equo. Invece
Il Pisenti venne assolto perché sostenne la tesi di aver aderito alla Rsi per evitare guai alla popolazione.
E non aveva mai prestato giuramento alla RSI.
Quindi, pur esercitando le funzioni di ministro, firmato bandi ecc., in pratica non era mai stato un vero ministro. Assurdo
Perché sul decreto del 18 aprile 1944 n. 145 che prevedeva la pena di morte per coloro che si erano uniti alle “bande operanti contro le organizzazioni militari e civili dello Stato” c’era anche la sua firma oltre quella di Mussolini e Graziani.
Quante morti aveva causato?
Nel 1977 Piero Pisenti pubblicherà un libro pieno di bugie e mistificazioni. Sarà troppo per il Bepi. A cosa era servita la Resistenza? “Non è andata come volevamo, anche se gli ideali di allora restano però sacrosantamente validi e sempre vivi, anche se oggi vengono calpestati”
Sempre più solo, isolato, abbandonato da tutti, il Bepi decide di togliersi la vita nella sua casa di Milano, infilandosi un sacchetto in testa.
E’ il 2 ottobre 1995.
Sui giornali un brevissimo necrologio sulla sua coraggiosa partecipazione alla Resistenza.
Nulla più.
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Tra morti di Cornalba (Eccidio raccontato giorni fa bit.ly/31QE3wY) c’erano anche tre partigiani russi.
Ricordati con i nomi di Angelo, Carlo e Michele.
In realtà non si è mai riusciti a risalire alla loro vera identità.
C’erano molti russi sul territorio bergamasco.
Bianchi, caucasici, georgiani, asiatici e calmucchi.
Ma tanti di loro, per i loro tratti orientali e gli occhi a mandorla, i bergamaschi li chiamavano “i mongoli”.
Esattamente erano dell’Azerbaigian.
Il soprannome proveniva dalla vulgata popolare che li chiamava così per le fattezze asiatiche di molti di loro. Qualcuno diceva che si muovessero come un’orda.
Prenderà la denominazione di 612° Compagnia OP (Ordine Pubblico). Sotto i suoi ordini.
Perché, si diceva, lui gli uomini li sapeva comandare “in modo adeguato”.
Che solo a sentire la parola “adeguato” ai bergamaschi faceva venire i brividi.
Come nel gennaio 1944 quando aveva effettuato un rastrellamento al Roccolo "Gasparotto al Colle di Zambla per cercare i responsabili dell’uccisione a Bergamo di Giovanni Favettini, commissario prefettizio di Scanzorosciate.
Un attacco ai partigiani di Dante Paci e Aldo Battagion concluso con l’arresto di tutti i partigiani e l’uccisione di Valdo Eleuterio, 17 anni.
E il roccolo dato alle fiamme.
Lui quei partigiani li aveva torturati.
Il Paci per sei mesi.
Senza ottenere nessuna informazione.
Mi chiamo Maria Cefis, ma la storia che sto per raccontare non è la mia storia.
E’ la storia di un ragazzo di ventidue anni, Angelo, ucciso il 23 novembre 1944 in Valle Imagna.
Perché tengo tanto a lui?
Perché era il mio fidanzato.
Ricordo che faceva freddo quella mattina.
In quell’anno Angelo lavorava al Linificio – Canapificio Nazionale di Villa d’Almé.
Ma non faceva solo quello.
Io lo sapevo ed ero orgogliosa di lui.
Lui era anche uno staffettista della Brigata partigiana delle Fiamme Verdi “Valbrembo”, capeggiata da don Antonio Milesi.
Don Antonio era il curato di Villa d’Almè, nome di battaglia di “Dami”.
Fu lui quel giorno che diede ad Angelo e a Emanuele Quarti l’incarico di consegnare alcuni ordini agli uomini della “Valbrembo” accampati sul monte Ubione.
Ma quando arrivarono all’altezza di Capizzone…
Era il 1916 quando papà si arruolò volontario nel Regio Esercito, assegnato al 6º Reggimento Bersaglieri. Aveva diciannove anni. Militare in carriera era partito per l’Africa nel 1935 con il grado di centurione. Avevo quattordici anni quando mi venne detto che papà non c’era più.
Ucciso il 27 febbraio 1936, durante la seconda battaglia del Tembien.
Per il coraggio gli fu assegnata la Medaglia d'oro al valor militare.
Io ero nato a Bologna il 9 marzo 1922, ma la mia famiglia proveniva da Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.
Dopo la mia nascita la mia famiglia si era poi trasferita a Nese, una frazione di Alzano Lombardo.
La maturità presso il Collegio militare Teulié di Milano e, nel 1939, la facoltà di Ingegneria al Politecnico.
Fu in quegli anni che entrai a far parte della Fuci.
Dopo la costituzione, nel marzo del 1944, della famigerata 612° Compagnia OP, il “boia” Aldo Resmini, elevato a comandante per “meriti” (leggere qui bit.ly/3os7deK), ebbe l’ennesima occasione per dare sfoggio del suo odio verso i partigiani.
Da indiscrezioni della gente del luogo, noi della formazione partigiana Brigata Fiamme Verdi “Valbrembo”, venimmo a sapere che la Villa Masnada in località Curdomo sulla provinciale tra Bergamo e Ponte San Pietro, era fornita di indumenti militari, armi automatiche e munizioni.
Non solo.
Nel giardino facevano bella mostra due autocarri. Un’occasione troppo ghiotta.
I tedeschi che ogni mattina lasciavano la villa per recarsi alle Officine Caproni di Ponte San Pietro per controllare la produzione bellica e due autocarri per trasportare il bottino.
Oggi è il 22 dicembre 1943. E’ l’alba, pioviggina e in lontananza nuvoloni neri si stavano avvicinando. Ci hanno fatti scendere dal camion all’interno del piazzale di un magazzino di legname accanto alla strada.
Nessun dubbio sul nostro destino.
Perché ci eravamo seduti sopra
Sulle nostre tredici bare, intendo.
Nessun rimpianto. Conoscevamo i rischi.
Lo sapevamo fin dall’inizio.
Quello che mi dispiace è non essere riuscito a proteggere i miei ragazzi.
Mi chiamo Eraldo Locardi, tenente, nome di battaglia “Longhi”.
Il 7 dicembre scorso, circa 200 tra tedeschi e fascisti guidati da una spia, hanno sorpreso sei di noi nella cascina appena fuori dalla frazione di Ceratello.
Io e altri sei siamo stati catturati pochi giorni dopo.
Sempre per colpa di quella maledetta spia.