Tra morti di Cornalba (Eccidio raccontato giorni fa bit.ly/31QE3wY) c’erano anche tre partigiani russi.
Ricordati con i nomi di Angelo, Carlo e Michele.
In realtà non si è mai riusciti a risalire alla loro vera identità.
C’erano molti russi sul territorio bergamasco.
Bianchi, caucasici, georgiani, asiatici e calmucchi.
Ma tanti di loro, per i loro tratti orientali e gli occhi a mandorla, i bergamaschi li chiamavano “i mongoli”.
Esattamente erano dell’Azerbaigian.
Il soprannome proveniva dalla vulgata popolare che li chiamava così per le fattezze asiatiche di molti di loro. Qualcuno diceva che si muovessero come un’orda.
Ma come erano giunti sui monti della bergamasca?
Tutto era iniziato ai primi di aprile del 1945 quando i “russi” avevano deciso di disertare dalle forze di occupazione tedesche.
C’erano circa 2000 “russi” nella bergamasca in quei giorni.
Un centinaio a Lovere, 500 a Clusone e 600 a Gandino.
Questi ultimi erano stati aiutati dalla 53° Brigata Garibaldi ad arrivare in Svizzera.
Poi altre 700 erano arrivati il 26 marzo tra Almè, Villa d’Almè e Almenno. Azeri che facevano parte della 2° compagnia del Waffen-Gruppe Aserbeidschan delle Waffen SS di stanza in Slovacchia.
In cerca di cibo e alloggio giunsero ad Almenno San Bartolomeo.
Avevano disertato grazie all’aiuto di alcuni partigiani.
Erano stati quest’ultimi a contattarli e a mettere giù il piano. Che era scattato proprio l’11 aprile.
La reazione dei tedeschi e dei fascisti non si fece attendere.
Con i primi manifesti sui muri di Villa d’Almè.
“Tutti coloro che sono in possesso di effetto militari abbandonati o ceduti dalle truppe russe sono obbligati a fare denuncia”.
Dopo l’inutile tentativo, tedeschi e fascisti decisero di rastrellare la zona.
Tra i rastrellatori la famigerata 612° OP comandata dal Resmini.
Sarà Don Vitali a raccontare cosa accadde quel giorno.
Quel 13 aprile 1945, nella zona di Monte di Nese.
"Erano centoventi gli azeri e si erano addormentati proprio nei prati di quella zona. Stanchi, affamati, braccati, senza ordini da parte dei loro ufficiali. Pensavano di trovare riposo, almeno per alcune ore, tra le case dell’abitato".
E ancora.
“…già all’imbrunire di quel giorno, mi accorsi che in paese qualcosa di strano stava accadendo, c’erano rumori confusi tra le case sparse a nord della canonica, rumori di bestie agitate, fruscii nei prati, strane e indistinguibili voci lontane”
“Quella sera e quella notte furono per me “la guerra”. Quella guerra sporca, quella vigliacca, quella fatta di attacchi e fughe, attentati e rappresaglie arrivò a Monte di Nese.
Fu alle prime luci dell’alba, ai rintocchi dell’Ave Maria che i miei dubbi divennero certezze”.
“Qua e là nei prati attorno alle casupole, strani soldati dagli occhi a mandorla e dalla pelle scura dormivano accovacciati sull’erba […] Quando la luce iniziò a rendere nitide le figure, il cuore mi sobbalzò nel petto, un primo colpo di fucile ruppe l’assorto silenzio".
“Al primo rintocco sentii il primo colpo di fucile e il primo azero ucciso.
Ma al colpo di fucile seguirono raffiche di mitraglia.
E poi colpi di mortaio. Un fuoco infernale che ebbe termine intorno alle tredici.
A terra rimasero quarantatré azeri.
Uccisi dai tedeschi”.
Ma non era finita lì, perché sopraggiunsero “quelli del Resmini”.
Addestrati alla repressione partigiana nella bergamasca, erano arrivati per “ammazzarli tutti”.
Non ci volle molto per prendere altri settantasette azeri.
Li vedemmo camminare con le mani dietro la nuca.
Presso il cimitero di Monte di Nese ne fucilarono cinquantasette, dodici vicino alla chiesa e otto alla Busa.
Non hanno avuto nessuna pietà.
I fascisti gli hanno portato via tutto.
Vestiti, oggetti di valore, gli stessi documenti personali. E poi li hanno abbandonati lì.
Riuscimmo a dar loro una degna sepoltura solo otto giorni dopo.
“Trovammo alcuni biglietti con frasi in alfabeto cirillico, qualche fotografia di famiglie e terre lontane, nei loro volti ancora qualche lacrima e quegli occhi a mandorla sbarrati al cielo”.
"Seppelliti in una fossa comune otto giorni dopo perché i rastrellamenti continuarono anche nei giorni successivi per ripulire la zona di eventuali superstiti sfuggiti alla cattura".
Alla fine della strage i morti azeri saranno 120.
Molti altri, fuggiti sui monti della bergamasca, entreranno in contatto coi partigiani della "XXIV Maggio" e della "I Maggio".
Grazie a loro inizieranno un viaggio tra le montagne per giungere alla fine in Svizzera.
Nel 1950 tutti i resti dei 120 azeri sono stati recuperati e riuniti in cassette ossario presso il cimitero di Alzano Lombardo.
Prima i resti erano a Monte di Nese dove veniva riportata l’indicazione: “A ricordo di 120 mongoli caduti per mano fascista”.
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Lo so, qualcuno sminuisce continuamente quello che abbiamo fatto, affermando che in fondo sono stati gli Alleati a liberare il Paese.
Secondo queste persone noi potevano starcene tranquillamente seduti sul divano, aspettando la loro avanzata.
Agimmo diversamente.
Insieme a molti altri, decisi anch'io di fare qualcosa.
Tutto cominciò dopo l’8 settembre.
Nelle valli bergamasche si andavano formando i primi gruppi di lotta contro i nazi-fascisti.
Abitavo a Bergamo, quando si presentarono alla mia porta alcuni militari sbandati.
Li accolsi. E li organizzai.
Diventammo la “banda Maresana”. Li guidai per oltre un anno in azioni contro i tedeschi e i fascisti. Finché la rappresaglia nazi-fascista non si scatenò contro la X Brigata Garibaldi, attiva nella val Taleggio, che aveva occupato i paesi della valle.
Mi chiamavano “il tessitore”, ma sono sempre stato per tutti solo il “Bepi”.Per il mio carattere, per quello che ho passato e per come è finita, la voglia di raccontarvi la mia storia è poca, anzi pochissima. Ma per Johannes deve essere raccontata. Dice che la gente deve sapere.
Mi chiamo Giuseppe Signorelli e sono nato a Bergamo il 18 settembre 1907.
Come molti ragazzi ho frequentato le scuole professionali indirizzo meccanico, riuscendo ad entrare, ancora giovane, alla Dalmine.
Con una mansione che mi aiutò moltissimo, quando venne il momento.
Ero addetto alla manutenzione delle macchine da scrivere negli uffici. Con assoluta libertà di movimento. Di più. Avevo la possibilità di conosce i dirigenti.
Come accadde a molti, io non aspettai l’8 settembre. Iniziai ancora prima della guerra.
Prenderà la denominazione di 612° Compagnia OP (Ordine Pubblico). Sotto i suoi ordini.
Perché, si diceva, lui gli uomini li sapeva comandare “in modo adeguato”.
Che solo a sentire la parola “adeguato” ai bergamaschi faceva venire i brividi.
Come nel gennaio 1944 quando aveva effettuato un rastrellamento al Roccolo "Gasparotto al Colle di Zambla per cercare i responsabili dell’uccisione a Bergamo di Giovanni Favettini, commissario prefettizio di Scanzorosciate.
Un attacco ai partigiani di Dante Paci e Aldo Battagion concluso con l’arresto di tutti i partigiani e l’uccisione di Valdo Eleuterio, 17 anni.
E il roccolo dato alle fiamme.
Lui quei partigiani li aveva torturati.
Il Paci per sei mesi.
Senza ottenere nessuna informazione.
Mi chiamo Maria Cefis, ma la storia che sto per raccontare non è la mia storia.
E’ la storia di un ragazzo di ventidue anni, Angelo, ucciso il 23 novembre 1944 in Valle Imagna.
Perché tengo tanto a lui?
Perché era il mio fidanzato.
Ricordo che faceva freddo quella mattina.
In quell’anno Angelo lavorava al Linificio – Canapificio Nazionale di Villa d’Almé.
Ma non faceva solo quello.
Io lo sapevo ed ero orgogliosa di lui.
Lui era anche uno staffettista della Brigata partigiana delle Fiamme Verdi “Valbrembo”, capeggiata da don Antonio Milesi.
Don Antonio era il curato di Villa d’Almè, nome di battaglia di “Dami”.
Fu lui quel giorno che diede ad Angelo e a Emanuele Quarti l’incarico di consegnare alcuni ordini agli uomini della “Valbrembo” accampati sul monte Ubione.
Ma quando arrivarono all’altezza di Capizzone…
Era il 1916 quando papà si arruolò volontario nel Regio Esercito, assegnato al 6º Reggimento Bersaglieri. Aveva diciannove anni. Militare in carriera era partito per l’Africa nel 1935 con il grado di centurione. Avevo quattordici anni quando mi venne detto che papà non c’era più.
Ucciso il 27 febbraio 1936, durante la seconda battaglia del Tembien.
Per il coraggio gli fu assegnata la Medaglia d'oro al valor militare.
Io ero nato a Bologna il 9 marzo 1922, ma la mia famiglia proveniva da Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.
Dopo la mia nascita la mia famiglia si era poi trasferita a Nese, una frazione di Alzano Lombardo.
La maturità presso il Collegio militare Teulié di Milano e, nel 1939, la facoltà di Ingegneria al Politecnico.
Fu in quegli anni che entrai a far parte della Fuci.
Dopo la costituzione, nel marzo del 1944, della famigerata 612° Compagnia OP, il “boia” Aldo Resmini, elevato a comandante per “meriti” (leggere qui bit.ly/3os7deK), ebbe l’ennesima occasione per dare sfoggio del suo odio verso i partigiani.
Da indiscrezioni della gente del luogo, noi della formazione partigiana Brigata Fiamme Verdi “Valbrembo”, venimmo a sapere che la Villa Masnada in località Curdomo sulla provinciale tra Bergamo e Ponte San Pietro, era fornita di indumenti militari, armi automatiche e munizioni.
Non solo.
Nel giardino facevano bella mostra due autocarri. Un’occasione troppo ghiotta.
I tedeschi che ogni mattina lasciavano la villa per recarsi alle Officine Caproni di Ponte San Pietro per controllare la produzione bellica e due autocarri per trasportare il bottino.