Per anni sono stato la principale attrazione del quartiere Sankt Pauli, ad Amburgo.
Venivano da tutto il mondo a sentirmi raccontare le mie imprese. E che imprese.
Non ero stato solo un abilissimo mangiatore di spade, un clown, un acrobata, un palombaro e un prestigiatore.
Ero stato molto di più. Quella storia poi.
Era la conclusione della serata che tutti aspettavano. Un racconto incredibile, ma soprattutto vero, con tanto di documenti che lo attestavano.
Il mio nome? Otto Witte.
La mia professione? Artista di circo ed ex re d’Albania.
Avete capito bene. Ex re d’Albania.
Lo so che siete impazienti anche voi di sentire la mia storia. Mettetevi comodi.
Dovete sapere che nel 1912, dopo anni di dominio ottomano, l’Albania aveva proclamato la propria indipendenza.
Mancava da decidere solo il nome del futuro Re.
E come accadeva a quei tempi le grandi Potenze si erano riunite a Londra per decidere di quale nazionalità dovesse essere.
Lo so cosa state pensando. Farsi i fatti loro mai, vero? Purtroppo le cose andavano così, malgrado gli abitanti avessero già una loro preferenza.
Lo volevano musulmano e per questo la loro scelta era caduta su Halim Eddine, nipote del sultano di Costantinopoli.
Come dite? E io che c’entro in tutto questo?
Eccome se c’entro.
Adesso vi racconto. Dall’inizio.
Nato in Germania il 16 ottobre 1872, a otto anni ero già un fenomeno.
Nel senso che esordii come domatore di leoni in un circo. Più fenomeno di così.
Poi col tempo diventai un acrobata.
E di spettacolo in spettacolo mi ritrovai a Tirana.
Proprio nel 1913, dove leggendo i giornali venni a sapere che l’Albania, ex dominio ottomano, era diventata indipendente.
Il giornale riportava inoltre che gli albanesi volevano Halim Eddine, nipote del sultano, come proprio Re.
Incredibile a dirsi, nella foto, Halim Eddine era uguale a me. Sputato, compresi i due enormi baffi.
Che dovevo fare? Far finta di niente?
Decisi di presentarmi in Albania come Halim Eddine per farmi incoronare Re.
Organizzai quindi il tutto.
Quel 13 agosto 1913 fu un giorno memorabile.
Io, Halim Eddine, incoronato re d’Albania.
Con l’aiuto di un complice conosciuto in un carcere di Barcellona, rinchiusi per truffa, ero arrivato in città su un cavallo bianco.
Con la gente ai lati della strada che mi osannava.
Dovevate vedermi vestito da generale con la divisa ricoperta di medaglie.
Il mio complice, che mi aveva accompagnato, era vestito invece con abiti di seta.
Lo avevo presentato come uomo di fiducia.
Il mio braccio destro, insomma.
Vi garantisco che i primi cinque giorni furono per me indimenticabili.
Salito al trono con il nome di Otto I, mi assegnarono un harem con venticinque fanciulle.
Tra un piacere e l’altro ebbi persino il tempo di promettere al popolo che avrei dichiarato guerra al Montenegro.
Perché solo i primi cinque giorni?
Beh, non so come dirvelo. Va bene, ve lo dico.
Perché dopo fui costretto a fuggire a gambe levate. Per colpa di quel maledetto telegramma arrivato da Costantinopoli, dove Halim Eddine, quello vero, annunciava il suo arrivo in città.
Ci avevano scoperti, ma prima dell’arresto, io e il mio complice, riuscimmo a portare con noi una parte del tesoro reale. Che poi era stato l’unico scopo fin dall’inizio.
Travestiti da donna, con tanto di velo, raggiungemmo Durazzo per poi imbarcarci per Bari.
Finalmente salvi.
Dopo quell’esperienza tornai a lavorare nei circhi e nelle fiere, dove iniziai a raccontare quella storia.
La mia storia.
La gente faceva la fila per venire a vedermi.
A vedere l’ex Re d’Albania.
E ad ascoltarmi, visto anche alla fine volevano sapere tutto di quella storia.
Agli scettici mostravo la mia carta d’identità con scritto "Otto Witte ex re d'Albania".
Sono morto il 13 agosto 1958.
Se passate da Amburgo potete venire a vedere la mia tomba.
Naturalmente la lapide recita: “Otto Witte, ex Re d’Albania”.
E qui finisce la storia di Otto Witte, ex Re d’Albania.
La sua incoronazione ha però un grosso difetto: è una storia completamente inventata.
Non esiste infatti nessun documento albanese che provi il suo racconto. Come non è mai esistito nessun Halim Eddine, nipote del sultano.
Eppure a quella sua storia credettero in molti.
La gente certo, ma anche scrittori e giornalisti.
E autorità, visto che fu la polizia di Berlino ad autorizzarlo a scrivere sulla carta d’identità "Otto Witte, ex Re d’Albania".
E le amministrazioni lo scrivevano nell'indirizzo.
Un bugiardo quindi. Un truffatore. Quella del re d’Albania non fu l’unica storia inventata.
Raccontò anche di aver fondato un partito politico e di essersi candidato alla presidenza tedesca nel 1925 prendendo un sacco di voti.
Dimettendosi poi a favore di Paul von Hindenburg.
In quanto a truffe non era secondo a nessuno.
Riuscì persino a vendere a Venezia un falso quadro della Gioconda ad un armatore greco.
La Gioconda, il quadro che tutti stavano cercando dopo il furto da parte di tale Vincenzo Peruggia.
La rivista Time pubblicò un articolo nel 1958.
La storia di Otto Witte, un autentico imbroglione, capace di prendere in giro tutti.
Ma diciamo la verità. Una cosa è certa.
Otto Witte era un truffatore, è vero, ma nel raccontare la storia del re deve essersi divertito un sacco.
Cosa spinge un uomo a truffare la gente invece di trovarsi un lavoro onesto?
Totò risponde così nel film “Totòtruffa '62“.
“Lo so, dovrei lavorare invece di cercare dei fessi da imbrogliare, ma non posso, perché nella vita ci sono più fessi, che datori di lavoro”.
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Io ci credevo veramente Johannes.
Ho pensato fin dall’inizio di aver scoperto qualcosa di universale, qualcosa che avrebbe unito i popoli del mondo. Dalla torre di Babele in poi in molti si erano cimentati nel semplificare il linguaggio.
Io pensai veramente di esserci riuscito.
Mi chiamo François Sudre e sono nato in Francia, ad Albi nel 1787.
Dopo aver studiato al Conservatorio mi ero messo a insegnare musica. Quando presi la decisione di impegnarmi nella creazione di un linguaggio universale, mi trasferii a Parigi. L’inizio fu più che soddisfacente.
La prima prova con un mio studente.
Ci vollero poche lezioni per dialogare tra noi.
Io facevo domande con un violino nella mia camera da letto, lui rispondeva in un’altra camera con un pianoforte.
Avevo realizzato il primo sistema per tradurre le lettere in note musicali.
Giorni fa vi ho raccontato di Heinrich Himmler, l’uomo che si vestiva da sultano turco e che amava i bordelli e le osterie (qui bit.ly/3G7o2C4). Milioni le vittime di quell’orrore, ma di alcune di loro si parla poco, anzi pochissimo. Parlo dei figli dei gerarchi nazisti.
Nati tra il 1927 e il 1944 hanno saputo dell’orrore solo dopo la guerra e malgrado l’orribile realtà, hanno avuto reazioni diverse.
Crescendo qualcuno ha rinnegato tutto, altri praticamente niente, altri si sono chiusi in un devastane mutismo derivato dai sensi di colpa.
Lei, Gudrun, figlia unica di Marga e Heinrich Himmler, ha sempre fatto parte del partito dei nostalgici.
Fino alla sua morte.
Passando tutta la sua vita a difendere suo padre, malgrado fosse stato il principale organizzatore di quell’orrore.
"Le colpe dei padri ricadono sui figli" recita l’Antico Testamento. Ma dai, non è possibile.
Passi per "l'albero si riconosce dai frutti" del Vangelo. Ma perché le colpe dovrebbero ricadere su altri. Perché?
Eppure dovrei sapere la risposta, perché a me andò proprio così.
Tutto cominciò nell’aprile del 1938 a Vienna.
Stavo passeggiando per la città quando vidi alcuni soldati tedeschi che si stavano divertendo, obbligando alcuni ebrei a pulire con delle spazzole il suolo calpestato dai loro sacri "piedi ariani"
Non esitai un attimo.
Presi una spazzola e mi inginocchiai unendomi a loro nell'opera di pulizia.
“Alzati in piedi bastardo, facci vedere i documenti”, mi urlarono.
“Sono amico degli ebrei e quando posso do sempre loro una mano”, dissi porgendo il documento.
Quando i duchi di Windsor gli fecero visita, nel 1937, lui li accolse vestito di un chimono blu, pantofole guarnite di pietre preziose, una cintura con un pugnale d’oro e anelli su tutte le dita delle mani.
Non fu l’unica stravaganza a dire il vero.
Dopo pranzò li invitò a giocare col suo meraviglioso trenino, quello che aveva nell’attico, in una sala lunga venticinque metri.
Non fu tanto il trenino a colpirli, ma l’aereo che sganciava bombe di legno sullo stesso trenino, che lui manovrava comodamente seduto in poltrona.
Era stato nel 1922 che aveva incontrato l'uomo esile.
Gli aveva offerto i propri servigi, e a quell’uomo non era parso vero di avere a fianco uno decorato con la medaglia “Pour le Mérite”, assegnata a chi aveva abbattuto almeno venticinque aerei nemici nella prima guerra mondiale
Quando ebbe inizio?
Esattamente il 6 gennaio del 1929, nevicava e faceva freddo.
Chi lo conosceva lo definiva “un essere insignificante”, ventinove anni, miope, tale da costringerlo a portale lenti molto spesse.
Proveniva alla classica famiglia borghese di Monaco di Baviera.
Lui ci aveva provato a fare carriera in ambito militare, ma non era andato più in là del grado di allievo ufficiale. Essendo lui e la famiglia in difficoltà economiche aveva deciso di donare le sue braccia all’agricoltura.
Voleva diventare agronomo.
Per questo si era iscritto all’università. Mettendosi subito in mostra. Tranquilli, non come studente.
Tutti lo conoscevano perché alle feste universitarie si presentava sempre vestito da sultano turco.
Teneva un diario dove scriveva il nome delle ragazze che lo respingevano.
So la fatica che hai fatto, Johannes. Poche informazioni, niente biografia, niente ritratto, la mia figura dimenticata, scomparsa nel nulla. E quella data poi.
La mente va sempre alla rivoluzione industriale, o alle prime leghe emiliane. Ma tutto ebbe inizio molto tempo prima.
«Lo so. Qualche secolo prima.
Torniamo al 1333, un anno importante per Firenze.
Con i suoi centomila abitanti festeggiava il compimento di un’opera straordinaria come la cerchia muraria.
Mancava ancora il campanile al nuovo duomo, ma la sua costruzione stava per iniziare».
Dante era morto e Giotto era su con gli anni, ma non erano gli artisti i protagonisti della vita pubblica di Firenze. Erano altri. Il loro motto? “In nome di Dio e di ghuadagno”. Li chiamavano “gli uomini dai piedi polverosi”, perché erano sempre in giro per il mondo: i mercanti.