Io ci credevo veramente Johannes.
Ho pensato fin dall’inizio di aver scoperto qualcosa di universale, qualcosa che avrebbe unito i popoli del mondo. Dalla torre di Babele in poi in molti si erano cimentati nel semplificare il linguaggio.
Io pensai veramente di esserci riuscito.
Mi chiamo François Sudre e sono nato in Francia, ad Albi nel 1787.
Dopo aver studiato al Conservatorio mi ero messo a insegnare musica. Quando presi la decisione di impegnarmi nella creazione di un linguaggio universale, mi trasferii a Parigi. L’inizio fu più che soddisfacente.
La prima prova con un mio studente.
Ci vollero poche lezioni per dialogare tra noi.
Io facevo domande con un violino nella mia camera da letto, lui rispondeva in un’altra camera con un pianoforte.
Avevo realizzato il primo sistema per tradurre le lettere in note musicali.
La “Langue Musicale” destò scalpore a Parigi.
Presi la decisione di portare quella mia “invenzione” in tournée per la Francia, ma mi servivano almeno due compagni d’avventura.
Sul palco io avrei fatto domande col mio violino, e loro avrebbero dovuto rispondere al pianoforte.
Il primo nome era semplice, Charles Lasonneur.
Per il secondo mi venne in mente un bambino che avevo incontrato tanti anni prima mentre stava suonando un violino per strada.
Gli avevo chiesto lo strumento e girando le chiavette lo avevo completamente scordato.
Poi l’avevo restituito. Quel bambino aveva cominciato a rigirare le chiavette e lo aveva accordato di nuovo perfettamente. Senza un diapason.
Aveva imparato ad accordarlo da solo, mi aveva detto. Ne ero certo, ma ancora non sapevo che sarebbe diventato un grande compositore.
Si chiamava Ernest Deldevez e con Charles Lasonneur iniziamo a girare i teatri di tutta la Francia.
Fu un successo, tanto che nel 1827 venni chiamato all’Institut de France per una dimostrazione.
Un esame.
Li stupimmo, conversando musicalmente in francese, latino e greco.
Ma le loro conclusioni furono che quel linguaggio era più adatto per le comunicazioni in guerra.
E qui nacque il primo problema.
Avevo creato il mio linguaggio usando le dodici note del pianoforte, tasti bianchi e neri.
Le trombe militari avevano solo quattro note.
Che fare.
Riuscii a ridurre il linguaggio a quattro note.
Dovevate vedere le loro facce quando iniziammo a comunicare da una collina all’altra.
Frasi come “distruggete il ponte”.
Funzionava, ma i generali dissero che era poco applicabile sul campo.
Quel linguaggio a quattro note lo chiamai Téléphonie. Continuai a perfezionarlo, trasformandolo in un linguaggio per ciechi, sordi e muti.
Tutti mi incoraggiavano a proseguire nel suo miglioramento, nessuno avanzò mai l’idea di darmi dei soldi per aiutarmi.
Vent’anni di lavoro e trentaduemila franchi spesi. Proprio un bell’investimento. Entrate zero.
A me non interessava.
La possibilità di far dialogare il mondo intero mi eccitava. Ero riuscito a passare dalle 12 note (tasti bianchi e neri del pianoforte) alle quattro della tromba.
Ma perché non usare solo le note naturali?
Che stupido che ero stato.
La miglior soluzione era sempre stata davanti a me.
Do re mi fa sol la si.
Mi ero sempre concentrato su un codice musicale per lingue già esistenti. Sarei andato oltre.
A un vero linguaggio universale.
Con grammatica, sintassi e vocabolario proprio.
Il nome del linguaggio? Lo scoprii strada facendo quando arrivai alla parola “lingua”.
Che era "solresol".
E quello divenne il nome di quel linguaggio.
I vocaboli che riuscii a ottenere con le prime cinque sillabe? 11.732.
Niente sinonimi.
E poi.
misol voleva dire “bene”? “Male” diventava solmi. Bastava invertire le note. Semplice.
Se buonanotte era “simi” come si scriveva il buongiorno? “misi”, bravi.
Calcolai che sarebbero bastate poche centinaia di parole per parlare come un bambino.
Come costruire parole dello stesso argomento?
Trovai anche lì la soluzione.
Se il do come prima sillaba individuava le caratteristiche fisiche era semplice comporre la parola testa con doredofa.
E capelli? doredosi.
Attenzione. Non era un linguaggio per musicisti. Assolutamente no. Era un linguaggio per tutti.
I plurali?
“Giorno” era doremi?
Per il plurale giorni” bastava allungare la prima consonante dell’ultima sillaba.
“Giorni”= doremmmi.
Per la felicità di futuri studenti niente coniugazioni dei verbi.
Per il passato, il presente, il futuro si anteponeva la doppia sillaba. Tipo sisi o mimi.
E poi c’era l’accento su una sillaba.
Se “redomido” era calunniare, “REdomido” era calunnia e “reDOmido” calunniatore.
Avevo inventato migliaia di parole, ma sapevo che non sarebbe bastato. Creai quindi i dizionari di Solresol in dodici diverse lingue: francese, inglese, tedesco, portoghese, italiano, spagnolo, olandese, russo, turco, arabo, persiano e cinese.
E poi convocai i giornalisti.
All’Accademia Reale di Belle Arti. Una dimostrazione di traduzione dal francese al Solresol. Io suonavo il violino e i miei studenti traducevano contemporaneamente in francese. Non solo. Chiesi di propormi parole in altre lingue. La traduzione dei miei allievi fu sempre perfetta.
Mi chiesero di tradurre parole dall’inglese, dal tedesco, dallo spagnolo, dall’italiano.
Avevo già stampato i dizionari di tutte quelle lingue. Come detto, avevo persino un dizionario cinese-solresol.
Dopo essere stato eletto il nuovo Gutenberg, continuai a stupire il mondo.
Creai il linguaggio "solresol" per ciechi e sordi. Durante una dimostrazione mi feci bendare gli occhi con un fazzoletto e a un mio allievo fu detta una frase da tradurre.
L’allievo si avvicinò e iniziò a toccare le mie mani.
Fu facile riferire alla platea quella frase.
Avevo assegnato le 7 note della scala musicale ad altrettanti punti della mano. Iniziai a girare il mondo. Da Parigi a Londra, fino a New York. Cambiando modo di comunicare in "solresol".
Coi numeri per esempio. 1 il do, 2 il re ecc.
O con i colori dello spettro solare RAGVBIV
Mentre mia moglie iniziò ad aiutarmi sul palcoscenico, io continuai a lavorare ai miei dizionari. Avevo lavorato anni per quel linguaggio, avevo avuto riconoscimenti, Solo una cosa non avevo avuto. I soldi. Nessuno era disposto a finanziarmi perché il solresol non dava profitti.
François Sudre è morto a Parigi il 3 ottobre 1862.
Il suo linguaggio musicale universale era ingegnoso, certo, ma fu ben presto dimenticato.
Troppe poche le sillabe utilizzate, troppe le difficoltà nel separare le parole. Del suo lavoro solo un dizionario è arrivato fino a noi.
Il suo più acerrimo nemico, Aimé Paris, andava ripetendo che “è insensato cercare di rendere con sole sette sillabe la ricchezza del pensiero umano”. Sicuramente vero.
Ma visto il frastuono di oggi generato da ogni discussione, forse il "solresol" non era poi così tanto male.
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
Il 4 agosto 1578 per il Portogallo fu un giorno infausto.
Per il più grave lutto della sua storia.
Il giorno in cui lui era morto, intendo, o meglio, scomparso.
Lui, Don Sebastiano I, 24 anni, fior fiore della nobiltà lusitana.
Sedicesimo re del Portogallo e dell'Algarve.
Sicuramente morto nella battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, contro l’esercito islamico del sultano Abd al-Malik.
Come poteva pensare di battere i 50.000 cavalieri del sultano con i suoi 20.000 uomini.
Era stata una carneficina.
Il suo corpo? Mai ritrovato.
Dopo la sua morte era salito al trono il suo prozio, il cardinale Enrico.
Ma Sebastiano era troppo amato dal suo popolo.
Era nato così un movimento chiamato “sebastianismo", che sperava nel ritorno del re scomparso per riportare il Paese al suo antico splendore.
Per anni sono stato la principale attrazione del quartiere Sankt Pauli, ad Amburgo.
Venivano da tutto il mondo a sentirmi raccontare le mie imprese. E che imprese.
Non ero stato solo un abilissimo mangiatore di spade, un clown, un acrobata, un palombaro e un prestigiatore.
Ero stato molto di più. Quella storia poi.
Era la conclusione della serata che tutti aspettavano. Un racconto incredibile, ma soprattutto vero, con tanto di documenti che lo attestavano.
Il mio nome? Otto Witte.
La mia professione? Artista di circo ed ex re d’Albania.
Avete capito bene. Ex re d’Albania.
Lo so che siete impazienti anche voi di sentire la mia storia. Mettetevi comodi.
Dovete sapere che nel 1912, dopo anni di dominio ottomano, l’Albania aveva proclamato la propria indipendenza.
Mancava da decidere solo il nome del futuro Re.
Giorni fa vi ho raccontato di Heinrich Himmler, l’uomo che si vestiva da sultano turco e che amava i bordelli e le osterie (qui bit.ly/3G7o2C4). Milioni le vittime di quell’orrore, ma di alcune di loro si parla poco, anzi pochissimo. Parlo dei figli dei gerarchi nazisti.
Nati tra il 1927 e il 1944 hanno saputo dell’orrore solo dopo la guerra e malgrado l’orribile realtà, hanno avuto reazioni diverse.
Crescendo qualcuno ha rinnegato tutto, altri praticamente niente, altri si sono chiusi in un devastane mutismo derivato dai sensi di colpa.
Lei, Gudrun, figlia unica di Marga e Heinrich Himmler, ha sempre fatto parte del partito dei nostalgici.
Fino alla sua morte.
Passando tutta la sua vita a difendere suo padre, malgrado fosse stato il principale organizzatore di quell’orrore.
"Le colpe dei padri ricadono sui figli" recita l’Antico Testamento. Ma dai, non è possibile.
Passi per "l'albero si riconosce dai frutti" del Vangelo. Ma perché le colpe dovrebbero ricadere su altri. Perché?
Eppure dovrei sapere la risposta, perché a me andò proprio così.
Tutto cominciò nell’aprile del 1938 a Vienna.
Stavo passeggiando per la città quando vidi alcuni soldati tedeschi che si stavano divertendo, obbligando alcuni ebrei a pulire con delle spazzole il suolo calpestato dai loro sacri "piedi ariani"
Non esitai un attimo.
Presi una spazzola e mi inginocchiai unendomi a loro nell'opera di pulizia.
“Alzati in piedi bastardo, facci vedere i documenti”, mi urlarono.
“Sono amico degli ebrei e quando posso do sempre loro una mano”, dissi porgendo il documento.
Quando i duchi di Windsor gli fecero visita, nel 1937, lui li accolse vestito di un chimono blu, pantofole guarnite di pietre preziose, una cintura con un pugnale d’oro e anelli su tutte le dita delle mani.
Non fu l’unica stravaganza a dire il vero.
Dopo pranzò li invitò a giocare col suo meraviglioso trenino, quello che aveva nell’attico, in una sala lunga venticinque metri.
Non fu tanto il trenino a colpirli, ma l’aereo che sganciava bombe di legno sullo stesso trenino, che lui manovrava comodamente seduto in poltrona.
Era stato nel 1922 che aveva incontrato l'uomo esile.
Gli aveva offerto i propri servigi, e a quell’uomo non era parso vero di avere a fianco uno decorato con la medaglia “Pour le Mérite”, assegnata a chi aveva abbattuto almeno venticinque aerei nemici nella prima guerra mondiale
Quando ebbe inizio?
Esattamente il 6 gennaio del 1929, nevicava e faceva freddo.
Chi lo conosceva lo definiva “un essere insignificante”, ventinove anni, miope, tale da costringerlo a portale lenti molto spesse.
Proveniva alla classica famiglia borghese di Monaco di Baviera.
Lui ci aveva provato a fare carriera in ambito militare, ma non era andato più in là del grado di allievo ufficiale. Essendo lui e la famiglia in difficoltà economiche aveva deciso di donare le sue braccia all’agricoltura.
Voleva diventare agronomo.
Per questo si era iscritto all’università. Mettendosi subito in mostra. Tranquilli, non come studente.
Tutti lo conoscevano perché alle feste universitarie si presentava sempre vestito da sultano turco.
Teneva un diario dove scriveva il nome delle ragazze che lo respingevano.