Il 4 agosto 1578 per il Portogallo fu un giorno infausto.
Per il più grave lutto della sua storia.
Il giorno in cui lui era morto, intendo, o meglio, scomparso.
Lui, Don Sebastiano I, 24 anni, fior fiore della nobiltà lusitana.
Sedicesimo re del Portogallo e dell'Algarve.
Sicuramente morto nella battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, contro l’esercito islamico del sultano Abd al-Malik.
Come poteva pensare di battere i 50.000 cavalieri del sultano con i suoi 20.000 uomini.
Era stata una carneficina.
Il suo corpo? Mai ritrovato.
Dopo la sua morte era salito al trono il suo prozio, il cardinale Enrico.
Ma Sebastiano era troppo amato dal suo popolo.
Era nato così un movimento chiamato “sebastianismo", che sperava nel ritorno del re scomparso per riportare il Paese al suo antico splendore.
Sebastiano I.
La sua breve vita aveva segnato la sua psiche. L’Infante de Portugal era diventato re a soli tre anni.
Il padre, il principe Giovanni Manuele d’Aviz, era morto due settimane prima della sua nascita.
A soli 17 anni.
Dopo il parto, la madre Giovanna d'Asburgo, sorella di Filippo II e figlia dell’imperatore Carlo V, era stata richiamata dal padre alla corte di Madrid per assumere la reggenza del Paese.
Lasciando per sempre il Portogallo.
Il 17 maggio 1554 era tornata in Spagna affidando il figlio Sebastiano appena nato alle cure della suocera.
Sua zia, la regina Caterina.
Si racconta che furono le continue nozze tra parenti ad aver creato in Sebastiano problemi di salute.
Malgrado la salute cagionevole Sebastiano I era però molto attivo.
Amatissimo dal suo popolo aveva sempre sete di avventure e cristianizzare l’Africa la sua più grande aspirazione.
Se poi Africa significava avere oro, avorio e schiavi a disposizione, tanto meglio.
Era stato quello che l'aveva spinto a gettarsi in quell’impresa in Marocco. Il pretesto?
Quando il sultano Muhammad al-Mutawakkil gli chiese aiuto perché Abd al-Malik, suo zio, gli aveva usurpato il trono.
Con la benedizione di Papa Gregorio XIII iniziò la sua crociata
Vi ho già raccontato all'inizio come è andata.
Una carneficina.
Sebastiano I sicuramente morto e il suo corpo mai ritrovato.
Il non ritrovamento del corpo diede origine ad una leggenda.
Il re Sebastiano I, ancora vivo, si aggirava tra le dune del deserto pronto a rientrare.
Era il 1598 quando il re riapparve inviando da Roma due missive con tanto di sigillo reale.
I portoghesi impazzirono di gioia per il ritorno del loro Sebastiano.
Come conosco questi particolari?
Perché ero stato io ad inviare quelle missive.
Mi chiamo Marco Tullio Catizone, nato a Magisano, in provincia di Catanzaro.
Avevo partecipato anch’io alla battaglia di Alcazarquivir in Marocco, con l’esercito di Sebastiano.
Tutti dicevano che ero il ritratto sputato del re scomparso.
Ebbi così l’idea di sostituirmi a lui.
Il “ritorno” di Sebastiano, che poi ero io, sconvolse l’equilibrio europeo.
Lui, il simbolo della perduta indipendenza nazionale portoghese.
Appoggiato dal re di Francia Enrico IV, durante il successivo soggiorno a Venezia, diventai il “Sebastião de Veneza”.
Furono i nobili e religiosi portoghesi esiliati in Italia a finanziarmi.
Forse per ostacolare l’incoronazione di Filippo III, successore di Filippo II di Spagna in una lotta diplomatica tra le grandi potenze dell’epoca,
Lo so, ero un impostore. Ma che volete.
Non conoscevo una parola di portoghese e sinceramente era strano per il re di Portogallo.
Un tentativo piuttosto ingenuo e maldestro per poter durare.
Infatti non durò.
Come andò a finire?
Arrivato a Venezia conquistai una certa notorietà.
Una nobildonna veneta mi chiese di sposarla e un soldato che aveva combattuto con Sebastiano giurò sulla mia somiglianza col defunto re.
Non finì bene.
Una volta smascherato le autorità veneziane mi arrestarono.
Il 15 dicembre del 1600, venni rimesso in libertà con un decreto di espulsione da tutto il territorio della Repubblica.
Mi travestii da frate e andai a Firenze.
Scelta infelice.
Mi riconobbero e il Granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici, mi fece arrestare e torturare.
Fu però il viceré spagnolo del Regno di Napoli a volermi processare.
A Napoli, durante il processo, chiamarono a testimoniare mia moglie, mio cognato e mia suocera.
Sperando nella clemenza della corte confessai tutto. Dopo essermi lasciato sfuggire delle imprecazioni in calabrese.
Altro che clemenza.
MI condannarono al remo a vita.
Di remata in remata arrivai in Spagna nel 1603 a bordo di una galea.
Il 27 dicembre dello stesso anno, a Sanlúcar, nella Plaza de la Ribera, prima mi tagliarono la mano destra.
Poi mi impiccarono.
E infine mi fecero a pezzi.
E questa è la mia storia.
Io, Marco Tullio Catizone, nato a Magisano in provincia di Catanzaro a metà del Cinquecento da Ippolito e da Petronia Cortes, ero solo un impostore.
Mai stato Sebastiano I.
E nemmeno il “Sebastião de Veneza”.
Solo il “Charlatàn Calabrés”.
Quello sì.
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"Hominem te esse memento" continua a ripetergli l’auriga dietro di lui.
“Ricordati che sei solo un uomo”.
Strani questi Romani.
Forse per evitare che l’Imperatore Aureliano, mentre viene acclamato dalla folla romana, si monti troppo la testa nella gloria di questo momento.
Grazie Johannes per avermi dato la parola.
Per raccontare, in questo momento particolare, quello che sono stata. Un consiglio prima.
Oggi voi non avete l’auriga, ma un naso da pagliaccio in tasca farebbe comodo a qualcuno di voi.
Quando uno comincia a montarsi la testa...
Detto ciò, Roma è in festa. Ci sono tutti, popolani e patrizi ad assistere al trionfo dell’Imperatore Aureliano sul suo carro imperiale per la via Sacra di Roma.
Ma tutti guardano me, e le catene d’oro che mi trattengono.
Non ho mai abbassato lo sguardo, neppure per un attimo.
Io ci credevo veramente Johannes.
Ho pensato fin dall’inizio di aver scoperto qualcosa di universale, qualcosa che avrebbe unito i popoli del mondo. Dalla torre di Babele in poi in molti si erano cimentati nel semplificare il linguaggio.
Io pensai veramente di esserci riuscito.
Mi chiamo François Sudre e sono nato in Francia, ad Albi nel 1787.
Dopo aver studiato al Conservatorio mi ero messo a insegnare musica. Quando presi la decisione di impegnarmi nella creazione di un linguaggio universale, mi trasferii a Parigi. L’inizio fu più che soddisfacente.
La prima prova con un mio studente.
Ci vollero poche lezioni per dialogare tra noi.
Io facevo domande con un violino nella mia camera da letto, lui rispondeva in un’altra camera con un pianoforte.
Avevo realizzato il primo sistema per tradurre le lettere in note musicali.
Per anni sono stato la principale attrazione del quartiere Sankt Pauli, ad Amburgo.
Venivano da tutto il mondo a sentirmi raccontare le mie imprese. E che imprese.
Non ero stato solo un abilissimo mangiatore di spade, un clown, un acrobata, un palombaro e un prestigiatore.
Ero stato molto di più. Quella storia poi.
Era la conclusione della serata che tutti aspettavano. Un racconto incredibile, ma soprattutto vero, con tanto di documenti che lo attestavano.
Il mio nome? Otto Witte.
La mia professione? Artista di circo ed ex re d’Albania.
Avete capito bene. Ex re d’Albania.
Lo so che siete impazienti anche voi di sentire la mia storia. Mettetevi comodi.
Dovete sapere che nel 1912, dopo anni di dominio ottomano, l’Albania aveva proclamato la propria indipendenza.
Mancava da decidere solo il nome del futuro Re.
Giorni fa vi ho raccontato di Heinrich Himmler, l’uomo che si vestiva da sultano turco e che amava i bordelli e le osterie (qui bit.ly/3G7o2C4). Milioni le vittime di quell’orrore, ma di alcune di loro si parla poco, anzi pochissimo. Parlo dei figli dei gerarchi nazisti.
Nati tra il 1927 e il 1944 hanno saputo dell’orrore solo dopo la guerra e malgrado l’orribile realtà, hanno avuto reazioni diverse.
Crescendo qualcuno ha rinnegato tutto, altri praticamente niente, altri si sono chiusi in un devastane mutismo derivato dai sensi di colpa.
Lei, Gudrun, figlia unica di Marga e Heinrich Himmler, ha sempre fatto parte del partito dei nostalgici.
Fino alla sua morte.
Passando tutta la sua vita a difendere suo padre, malgrado fosse stato il principale organizzatore di quell’orrore.
"Le colpe dei padri ricadono sui figli" recita l’Antico Testamento. Ma dai, non è possibile.
Passi per "l'albero si riconosce dai frutti" del Vangelo. Ma perché le colpe dovrebbero ricadere su altri. Perché?
Eppure dovrei sapere la risposta, perché a me andò proprio così.
Tutto cominciò nell’aprile del 1938 a Vienna.
Stavo passeggiando per la città quando vidi alcuni soldati tedeschi che si stavano divertendo, obbligando alcuni ebrei a pulire con delle spazzole il suolo calpestato dai loro sacri "piedi ariani"
Non esitai un attimo.
Presi una spazzola e mi inginocchiai unendomi a loro nell'opera di pulizia.
“Alzati in piedi bastardo, facci vedere i documenti”, mi urlarono.
“Sono amico degli ebrei e quando posso do sempre loro una mano”, dissi porgendo il documento.
Quando i duchi di Windsor gli fecero visita, nel 1937, lui li accolse vestito di un chimono blu, pantofole guarnite di pietre preziose, una cintura con un pugnale d’oro e anelli su tutte le dita delle mani.
Non fu l’unica stravaganza a dire il vero.
Dopo pranzò li invitò a giocare col suo meraviglioso trenino, quello che aveva nell’attico, in una sala lunga venticinque metri.
Non fu tanto il trenino a colpirli, ma l’aereo che sganciava bombe di legno sullo stesso trenino, che lui manovrava comodamente seduto in poltrona.
Era stato nel 1922 che aveva incontrato l'uomo esile.
Gli aveva offerto i propri servigi, e a quell’uomo non era parso vero di avere a fianco uno decorato con la medaglia “Pour le Mérite”, assegnata a chi aveva abbattuto almeno venticinque aerei nemici nella prima guerra mondiale