Quel film con me protagonista ebbe un successo incredibile.
Era il 1985 e fu il primo film ad essere programmato in più di 2.000 sale cinematografiche statunitensi.
Il presidente degli Stati Uniti d'America Ronald Reagan mi lodò come un simbolo dell'esercito americano.
La trama.
Ero ai lavori forzati, a spaccare pietre in un penitenziario di Washington, quando arrivò il Colonnello Trautman a propormi la libertà.
In cambio dovevo tornare in Vietnam per una nuova missione. Liberare alcuni prigionieri statunitensi.
E così avevo fatto.
Ma era solo un film. Precisamente Rambo II.
E il Presidente Ronald Reagan volle eleggermi come possibile eroe nazionale.
«Così sapremo chi chiamare quando ce ne sarà bisogno».
Già.
Non era bastato subire una sonora sconfitta militare.
Con quel film si voleva far credere che saremmo stati in grado di strappare ai campi di prigionia i soldati caduti in mano nemica.
Un riscatto, dopo anni di umiliazioni.
Una cosa Reagan evitò di raccontare agli americani.
Quel tipo di missione, c’era già stata.
Era successo anni prima.
Ai piani alti arrivò in via confidenziale la notizia che almeno 2.000 militari americani, dati per dispersi in Vietnam, erano invece tenuti prigionieri in campi di lavoro.
Si studiarono alcune operazioni militari per il recupero.
Una su tutte.
Una missione coperta per anni dal segreto di Stato malgrado le continue richieste dei familiari di quei soldati.
Ci si mise pure la Cia ad insabbiare la cosa.
Senza riuscirci.
Era il 1981, sei anni dopo la fine della guerra.
Nome in codice: "Pocket Change".
Pocket Change. I francesi direbbero “argent de poche”, soldi in tasca, spiccioli.
La notizia confidenziale proveniva dalla CIA.
E da una fonte in Laos, identificata con sigla W/1.
In realtà un’anziana donna con legami stretti con la leadership comunista nella capitale laotiana
Il suo rapporto fece saltare sulla sedia gli alti funzionari di Washington.
C’era scritto che una trentina di piloti americani erano stati catturati ed erano ai lavori forzati nella costruzione di una strada nei pressi di Nhommarath.
Le foto del satellite confermarono il campo di prigionia. E così il responsabile della ricerca dei prigionieri (POW) Jerry Tuttle, confermò come plausibili quelle informazioni. Non era la prima volta. Erano state centinaia le segnalazioni, ma quella era “sicuramente attendibile”.
Fu un informatore laotiano della Dia, Phimmachack, a segnalare il trasferimento di 18 americani.
Tra questi il Tenente Colonnello Paul W. Bannon, abbattuto sul Laos nel 1969 (in realtà non era lui). Superato il test della macchina della verità, la Difesa preparò la missione.
Quando la 213, una squadra di segnalazione thailandese informò di aver intercettato un messaggio radio cifrato che parlava di trasferimento di prigionieri, tutto sembrò chiaro. Erano prigionieri americani.
E poi c’era quel “52” che si vedeva bene dalle foto scattate dal satellite
“52” come la sigla dei bombardieri B-52.
E poi nelle foto c’era anche una specie di “K”, il segnale di soccorso usato dai piloti.
Il recupero era difficile, complicato, ma il Presidente Reagan fu inflessibile.
Voleva, anzi doveva provarci.
A qualunque costo.
Così la macchina si mise in moto.
La CIA, che doveva raccogliere le informazioni necessarie.
Il JSOC, Comando unificato per le operazioni speciali che doveva pianificare l’operazione di salvataggio.
E la Delta Force, i corpi speciali dell’esercito.
I satelliti spia si misero a sorvegliare il campo 24 ore su 24.
La DIA costruì un modellino del campo.
Il commando della Delta pensò bene poi di costruirne uno a grandezza naturale nelle Filippine per esercitarsi con paracadutisti, elicotteri, eliminazione guardie ecc.
Dopo aver calcolato tutti i tempi, la decisione fu presa.
Piccoli elicotteri MH-6 sarebbero stati trasportati in una vecchia pista di atterraggio non lontano dal campo.
Quanti uomini? Una quarantina, con mitragliatrici, esplosivi e motoseghe per aprire le celle dei prigionieri.
“Ma siamo sicuri che i prigionieri sono lì?” chiese il Generale Dick Scholtes.
"Non è il caso di andare a vedere da vicino?”
“Troppo rischioso” rispose la CIA.
Trovarono un compromesso.
Sarebbe andati degli agenti laotiani con un americano.
Io, John James Rambo, non avrei mai creato tutti quei problemi.
Quell’americano non aveva nessuna esperienza.
Che ce lo avevano mandato a fare? E poi quelle radio. Troppo antiquate. Praticamente inutilizzabili.
E poi almeno le corde da arrampicata, via.
All’ultimo momento si erano accorti di averle dimenticate, e a Chicago, prima della partenza, erano andati in un negozio di articoli da montagna a comprarle.
Tutto bene? Un cavolo. Erano bianche.
E come ti mimetizzi nella jungla col bianco.
Allora ne avevano trovate altre color verde oliva. Meglio.
Due mesi prima c’era stato il fallimento per liberare gli ostaggi a Teheran. Il motivo del fallimento? La mancata condivisione delle informazioni tra il Pentagono e gli ufficiali che dovevano liberare gli ostaggi.
Per evitare l’ennesimo fallimento il cerchio delle persone informate dell’operazione Pocket Change venne allargato. Troppo allargato.
A tal punto che la fuga di notizie arrivò alla stampa.
Ci pensò il Pentagono a convincere al silenzio una dozzina di testate giornalistiche.
Niente notizie fino alla fine dell’operazione.
Che iniziò il 13 marzo 1981.
Ma una volta arrivati in Thailandia iniziarono i guai.
Prima bloccati una settimana dall’esercito laotiano.
Poi uno si sparò su un piede.
Un altro si ammalò.
Arrivarono al campo dopo un mese.
Dopo due giorni di avvistamenti comunicarono di aver contato 160 prigionieri.
Ma nessuno con caratteri somatici caucasici.
Di americani, insomma, nemmeno l’ombra.
Il Washington Post non aspettò la fine dell’operazione. E neppure il Post.
L’operazione Pocket Change fu un fallimento.
Ma quello che uscì nel 1999 dai documenti desecretati fu qualcosa di incredibile.
Non erano stati “due giorni” di avvistamenti, ma due ore.
E le foto erano state scattate da almeno mezzo chilometro di distanza dal perimetro.
Dalla fretta risultavano tutte sfocate.
E di prigionieri americani nemmeno l’ombra.
L’unica certezza, i continui contrasti tra le varie agenzie di intelligence, che portarono la missione “Pocket Change” ad essere un campionario di tutti gli errori possibili e immaginabili.
Ora sapete quanto sia stato importante il mio contributo, quello di John Rambo.
Gli americani non amano parlare del Vietnam. Una ferita sempre aperta.
E quando non vuoi guardare in faccia la realtà, basta poco.
A volte, anche solo sostituire la realtà con un film di fantasia.
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“Abolire i pantaloni rossi? Mai! I pantaloni rossi sono la Francia”.A pronunciare queste parole fu, nel 1913, il ministro della guerra del mio Paese, Eugène Etienne. Arrivò la guerra e i pantaloni continuarono ad essere rossi. Lo stesso colore della guerra franco-prussiana (1870)
In realtà i pantaloni rossi erano in uso fin dal 1829.
Il colore rosso aveva lo scopo di riconoscere meglio i soldati in combattimento, quando la coltre di fumo della polvere da sparo rendeva irriconoscibili i soldati. Poi le cose erano cambiate.
Non so che tipo di guerra avessero in mente i nostri governanti.
In quella guerra il rosso era il colore ideale per un tiro al bersaglio.Soprattutto dopo aver sostituito la polvere nera che offuscava i campi di battaglia dopo una scarica, con la polvere senza fumo dei proiettili
Per noi piloti inglesi della RAF furono un vero e proprio tormento. Nemmeno i tedeschi riuscirono a crearci così tanti problemi.
Tutto ad un tratto i nostri apparati di navigazione smettevano di funzionare, le bussole impazzivano e governare l’aereo diventava difficile.
Le prime avvisaglie si erano palesate già nel 1917.
Lo aveva scritto il quotidiano britannico The Spectator.
Sia la Royal Naval Air Service che l’anno successivo la Royal Air Force avevano subito i loro sabotaggi.
Non bastavano le tensioni della guerra aerea cui eravamo sottoposti.
Ogni volta che ci alzavamo in volo la preoccupazione per un eventuale loro intervento rendeva difficile l’espletamento del nostro lavoro.
Erano un pericolo continuo.
Erano membri di una piccola comunità religiosa cristiana, ma in Iran quella è una religione considerata impura, e così erano fuggiti da quel Paese.
Lui, la moglie e le loro due bambine di 7 e 11 anni.
Destinazione Australia.
Erano finiti in quel deserto, precisamente nel centro di detenzione per migranti di Woomera.
Sì, proprio quella, la Zona Proibita.
Grande come l’Inghilterra, dove si erano svolti tra il 1955 e il 1963 dei test nucleari condotti proprio dal Regno Unito.
Gli aborigeni che abitavano quella zona?
Presi di peso e trasferiti in altre regioni.
Comunque loro quattro erano scappati da un inferno, l'Iran, ed erano finiti in un altro inferno.
Forse peggiore.
Un centro per rifugiati gestito da una compagnia privata.
Una poesia di Gianni Rodari recita: “Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra.” Come dargli torto. Credo che nella guerra l’essere umano dia il peggio di sé.
In alcuni casi, andando oltre.
Lo chiamano “fuoco amico”.
Che poi di amico non ha proprio un bel niente.
E’ solo la dimostrazione, quando non è malasorte, di quanto l’intelligenza umana sia limitata.
Uccidere migliaia di persone “amiche” per negligenza o stupidità, quasi sempre restando impuniti.
Chi non ricorda la battaglia di Verdun.
La Prima Guerra mondiale aveva visto l’utilizzo di “armi chimiche” o gas asfissianti come venivano chiamati. Ma erano anche lacrimogeni, urticanti e velenosi.
Ne avevano paura tutti.
Anche quelli che li utilizzavano.
Ci mancava pure il film. Con tutti quegli Oscar poi.
Lo so che su Wikipedia è scritto chiaro “il film è tratto dall'omonima opera teatrale…”, ma sapete quanta gente pensa sia un film storico? Ma dai.
Dovevate scriverlo a chiare lettere: OPERA DI FANTASIA.
Tutta colpa di quel russo, Aleksandr Sergeevič Puškin, e del suo microdramma.
Da lì la pièce teatrale in due atti scritta da Peter Shaffer.
E ora questo film.
Tutto per cercare di convincere la gente che io quello lo odiavo. Tanto da ucciderlo.
Io provare invidia per quello? Ma quando mai.
Ero uno dei musicisti più importanti di tutta Europa. Quale autore scelse l’imperatrice Maria Teresa D’Austria per l’inaugurazione del Nuovo Regio Ducal Teatro nel 1778?
Il sottoscritto.
Con l'opera lirica "L'Europa riconosciuta"
"Hominem te esse memento" continua a ripetergli l’auriga dietro di lui.
“Ricordati che sei solo un uomo”.
Strani questi Romani.
Forse per evitare che l’Imperatore Aureliano, mentre viene acclamato dalla folla romana, si monti troppo la testa nella gloria di questo momento.
Grazie Johannes per avermi dato la parola.
Per raccontare, in questo momento particolare, quello che sono stata. Un consiglio prima.
Oggi voi non avete l’auriga, ma un naso da pagliaccio in tasca farebbe comodo a qualcuno di voi.
Quando uno comincia a montarsi la testa...
Detto ciò, Roma è in festa. Ci sono tutti, popolani e patrizi ad assistere al trionfo dell’Imperatore Aureliano sul suo carro imperiale per la via Sacra di Roma.
Ma tutti guardano me, e le catene d’oro che mi trattengono.
Non ho mai abbassato lo sguardo, neppure per un attimo.