#sempreilgiornodellamemoria
Capita.
Di non ricordare un nome, anche ce l’hai sulla punta della lingua. La capisco. Tra milioni di nomi poi.
Certo, che sia accaduto proprio nel “giorno della memoria”, non è il massimo.
O forse è altro, non so.
Dice che è arrivata in ritardo e non era a conoscenza dell’argomento. Prendiamo atto.
Comunque, per evitare che l’anno prossimo qualcun altro possa avere un vuoto di memoria, qualche nome lo possiamo anticipare.
Qualche nome tra tanti.
Perché un nome si fa presto a trovarlo. Magari un nome sconosciuto.
Tra quelli che Johannes chiama gli “angeli invisibili”. Come Eri Zinger, con suo figlio Yehonanta che vedete nella foto. Uccisi ad Auschwitz.
Oppure un nome che conosco bene. Molto bene.
Il mio.
Mi chiamo Giulia Belleli, figlia di Elio Belleli e Enrica Misan, nata in Italia a Trieste il 4 ottobre 1923.
Avevo quindici anni quando per colpa di quelle leggi razziali, “all’acqua di rose” come dice qualcuno, dovetti abbandonare il mio lavoro di sarta.
Nel settembre del 1943 iniziammo a nasconderci.
I tedeschi, con l’aiuto dei fascisti, catturarono prima mio padre vicino al Tempio; poi mia madre in casa e mia sorella per strada.
Mio fratello, che era falegname, lo arrestarono sul tranvai.
Io, sposata da poco, me ne stavo nascosta su una soffitta quando Vittorio lo spazzino venne a dirmi: “Presto, presto vai a vedere che c'è una colonna di prigionieri che i tedeschi stanno portando verso la stazione".
Corsi alla stazione e nascosta dietro un vagone vidi partire mio papà, mia sorella e mia madre.
Mio fratello no, non l’ho visto.
Fu nella stessa notte che i tedeschi, accompagnati dai fascisti, arrestarono me e mio marito.
Ero disorientata e confusa.
Non mi ero mai allontanata da Trieste.
Figuriamoci a calci e pugni.
Sei mesi siamo rimasti nella Risiera di San Sabba.
Di mio marito non seppi più nulla.
Quando partii per la Germania pensai che avrei rivisto la mia famiglia.
Non sapevo nulla dei campi di concentramento.
Lo capii quando arrivai ad Auschwitz.
Fu qualcosa di tremendo.
“Quelle che dormivano nelle cuccette sopra buttavano le cimici sotto. C'era uno sporco impressionante”.
“I gabinetti erano costituiti da una tavola con tanti buchi in fila e tutte assieme al mattino dovevamo andare di corpo in mezzo ad una ressa di deportate incalzanti. E poi la fame! Ci buttavamo sopra le bucce di patate. La vita era tanto dura che perdemmo subito le mestruazioni”
Avevo sempre fatto la sarta. Mi misero a tagliare alberi. E chi non era capace veniva picchiato.
Non sapendolo proprio fare, quel lavoro, le prendevo sempre. Le botte, intendo. Ci svegliavano con le sirene e quando uscivamo dal campo per andare a lavorare faceva ancora buio”.
Un giorno scelsero cinquanta di noi.
Compresa la sottoscritta. Non sapevo dove ci avrebbero portate, ma “anche se mi avessero ammazzato per me era lo stesso. In un certo senso speravo che mi ammazzassero. Avevo le gambe gonfie e piene di pus”.
Invece finimmo in un altro campo a lavorare in una fabbrica di armi.
Non so come sono riuscita a sopravvivere a quell’inferno.
Ad Auschwitz avevo visto tanti bambini strappati alle loro madri.
Ancora oggi mi sveglio di notte e mi sembra che mi portino via mio figlio.
Ma mio figlio sta benissimo.
Vive in Australia, è sposato e ha dei bellissimi bambini. Quello che voglio dire è che nonostante siano passati molti anni quel dolore, quell’inferno, mi accompagna sempre dappertutto.
Il mio nome, Giulia Belleli, può andare bene?
Se non va bene quello di Giulia Belleli, potete usare il mio.
Mi chiamo Diamantina Vivante. "Tina" per il mio papà. Nel 1938, dopo le leggi razziali, iniziarono a chiamarmi: “Porca di un’ebrea”.
Io non capivo.
Se hai solo dieci anni è difficile riuscire capire certe cose.
Dopo essere stata costretta ad abbandonare la scuola, i fascisti sigillarono pure la casa della mia famiglia.
Per un anno fummo ospitati da un sarto.
"Poi la moglie ci denunciò e per quello ci arrestarono tutti".
Io li implorai di non prendere la mia mamma che era anziana. Fu tutto inutile.
"Anche per un’anziana come lei – mi dissero - prendiamo le diecimila lire della taglia".
Finimmo tutti in Germania. A Bergen-Belsen.
Io, mio papà, mia mamma, le mie quattro sorelle e un fratello.
“Quando siamo arrivati a Bergen-Belsen la prima cosa che abbiamo visto era una specie di catasta nera[…] verso l'alba abbiamo visto che era una catasta di morti ed era quella la fine che ci aspettava”.
“Ci mancava l'acqua, eravamo tanto tormentate dalla sete che bevevamo l'acqua delle fognature.
Si moriva di sete o di malattie, di sporco, di pidocchi. Tutte quante le mie sorelle e mamma sono morte: hanno fatto solo un mese di campo e sono morte”.
“Dopo la liberazione mi è rimasta l'ossessione della mancanza d'acqua.
Quando mi hanno messa in ospedale, hanno dovuto mettermi una bottiglia d'acqua sotto alle coperte perché altrimenti non avevo pace, vivevo nel terrore che mi portassero via l'acqua”.
“Auschwitz era un mondo rovesciato. Ho passato sei selezioni. Ho ancora nella testa le grida e le urla delle infelici compagne destinate alla morte".
“Era una cosa terrificante e ti chiedevi perché dovevi morire senza nessuna colpa. Nessuna”.
(Marta Ascoli)
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Come vivevano nei campi di concentramento?
Nei lager non si vive, si sopravvive.
Avevano pochissimo da mangiare, un pugno di riso e un pezzo di pane duro.
E poi con tutte quelle epidemie di tifo non avevano nemmeno la forza di lavorare.
Le donne avevano paura di uscire dalle tende persino per fare i bisogni.
I guardiani picchiavano tutti continuamente.
Ogni scusa era buona per punire i prigionieri con la morte, costringendo gli altri ad assistere alle esecuzioni. Almeno una cinquantina ogni giorno.
Il 2 maggio 1931 era stato lui in persona, Graziani, a fare un censimento.
Nel lager di Marsa Brega c’erano 21.117 esseri umani. A Soluch 20.123. A Sidi Ahmed el Magrun 13.050. A El Agheila, 10.900 e a Agedabia 10.000. A el Abiar 3123.
In totale 78.313 prigionieri.
Ero sul Manin, cacciatorpediniere della Regia Marina, all'alba del 3 aprile 1941 a una trentina di miglia da Port Sudan, dopo una navigazione di 270 miglia.
Fu lì che tutto il convoglio fu attaccato da circa 70 bombardieri Bristol Blenheim ed aerosiluranti Fairey Swordfish
In che condizioni era la flotta italiana nel Mar Rosso?
Critiche.
Senza materie prime, nafta, pezzi di ricambio, munizioni, siluri e attrezzature e l'impossibilità di ricevere alcun aiuto dall’Italia.
In brutte condizioni è vero, ma a bordo c'erano marinai straordinari.
Da giorni le cose si stavano mettendo male per i cacciatorpedinieri italiani.
Potevamo raggiungere in relativa sicurezza le coste dell’Arabia Saudita o dello Yemen, neutrali, almeno nominalmente. Salvarci, insomma.
Ma tutti gli equipaggi si erano rifiutati.
Non sono mai riuscito a darmi pace per quella frase.
E’ una cosa che ti rimane dentro.
Lo so che stavamo scherzando, lo so, ma non riesco a dimenticarla.
Io gli volevo bene, era stato lui nel 1958 a scegliermi per suonare il basso nel suo gruppo di supporto.
Mi chiamo Waylon Jennings e sono morto nel 2002, dopo una straordinaria carriera musicale.
Con moltissimi premi di musica country vinti.
Per lui invece la carriera finì quel giorno, dopo quella maledetta frase.
Lui si chiamava Charles Hardin Holley, in arte Buddy Holly.
"Egli entrò nella mia vita quando io ne avevo bisogno, ed io entrai nella sua allo stesso modo” racconterà la sua Maria. Con il permesso della zia lui le aveva chiesto di uscire la prima volta nel giugno 1958. Cinque ore dopo, porgendole una rosa, le aveva chiesto di sposarlo.
#Giornatadellamemoria
Mi chiamo Helene Hannenmann e sono una donna tedesca. Ariana.
Oggi è un giorno di maggio del 1943.
Mi sono svegliata facendo le solite cose.
Un giorno come un altro. Almeno, doveva esserlo.
Mi sbagliavo.
Non fu un giorno come un altro. Per niente.
Blaz si era svegliato nervoso per via di una verifica a scuola.
Otis con un forte mal d’orecchio. I gemelli stavano bene, ma si alzavano sempre con gran fatica.
E poi la piccola Adalia, di tre anni, il mio scricciolo, il mio angioletto.
E poi c’era lui, mio marito Johann.
Quando ci eravamo sposati molti mi avevano detto di stare attenta, che mi avrebbe rubato qualcosa.
Perché mi dicevano questo? Lui era di etnia rom.
O meglio, zingari, come preferivano chiamarli i tedeschi.
Si erano ricreduti dopo che era entrato nella Filarmonica di Berlino.
Ricordo benissimo quel giorno, il 25 marzo del 2003. Dispersa. Ufficialmente “Missing”.
Mi chiamo Jessica Lynch, e allora avevo 19 anni.
Due giorni prima, nei pressi di Nassiriyah, un furgone dell'esercito USA con a bordo 15 militari era stato attaccato dall’esercito iracheno.
E’ vero. Facevo parte di quella 507° Compagnia di manutenzione quando siamo caduti in un’imboscata. Che ci facevo in Iraq?
Vengo da Palestine, in West Virginia e con quella disoccupazione non avevo altra scelta.
Da grande avrei voluto fare la maestra elementare
Invece ero finita in Iraq ed ero stata catturata.
Nei giorni successivi Washington Post descrisse minuziosamente la mia resistenza epica: "pur avendo subito ferite d'arma da fuoco...ha continuato a sparare a parecchi soldati iracheni...fino ad esaurire le munizioni".
Quel film con me protagonista ebbe un successo incredibile.
Era il 1985 e fu il primo film ad essere programmato in più di 2.000 sale cinematografiche statunitensi.
Il presidente degli Stati Uniti d'America Ronald Reagan mi lodò come un simbolo dell'esercito americano.
La trama.
Ero ai lavori forzati, a spaccare pietre in un penitenziario di Washington, quando arrivò il Colonnello Trautman a propormi la libertà.
In cambio dovevo tornare in Vietnam per una nuova missione. Liberare alcuni prigionieri statunitensi.
E così avevo fatto.
Ma era solo un film. Precisamente Rambo II.
E il Presidente Ronald Reagan volle eleggermi come possibile eroe nazionale.
«Così sapremo chi chiamare quando ce ne sarà bisogno».
Già.
Non era bastato subire una sonora sconfitta militare.