Ero sul Manin, cacciatorpediniere della Regia Marina, all'alba del 3 aprile 1941 a una trentina di miglia da Port Sudan, dopo una navigazione di 270 miglia.
Fu lì che tutto il convoglio fu attaccato da circa 70 bombardieri Bristol Blenheim ed aerosiluranti Fairey Swordfish
In che condizioni era la flotta italiana nel Mar Rosso?
Critiche.
Senza materie prime, nafta, pezzi di ricambio, munizioni, siluri e attrezzature e l'impossibilità di ricevere alcun aiuto dall’Italia.
In brutte condizioni è vero, ma a bordo c'erano marinai straordinari.
Da giorni le cose si stavano mettendo male per i cacciatorpedinieri italiani.
Potevamo raggiungere in relativa sicurezza le coste dell’Arabia Saudita o dello Yemen, neutrali, almeno nominalmente. Salvarci, insomma.
Ma tutti gli equipaggi si erano rifiutati.
Il 31 marzo si era quindi deciso di compiere un attacco congiunto contro Port Sudan e Port Suez.
Si doveva navigare di notte per evitare la Royal Navy e la RAF che, dopo la distruzione di quasi tutta l'aviazione italiana, dominava i cieli dell'Africa Orientale.
In effetti cercammo di partire la notte del primo aprile. Ma il cacciatorpediniere Leone, l’unico con tutta la strumentazione in ordine, si incagliò con gravi danni che ne rese necessario l’autoaffondamento.
Per questo l’azione fu annullata.
Costretti a partire in pieno giorno.
Esattamente da Massaua, alle 14.00 del 2 aprile 1941.
I cacciatorpedinieri Tigre e Pantera verso Port Suez, il Sauro, Battisti e Manin verso Port Sudan.
Meglio che mi presenti, prima dell’irreparabile.
Mi chiamo Ibrahim Faruk Mohammed, sottufficiale eritreo della Regia Marina.
l nostro convoglio venne intercettato all’alba del 3 aprile dai bombardieri Bristol Blenheim.
Cominciò il Battisti ad avere dei problemi.
Andò in avaria e lasciò la formazione verso la costa araba.
Dopo aver sbarcato l’equipaggio si autoaffondò.
Poi toccò al Sauro.
Alle 9 del mattino lo centrò una bomba da 224 kg.
La nave s'inabissò in appena mezzo minuto, portandosi con sé i 78 uomini dell'equipaggio.
Restavamo solo noi del Manin.
Ma solo per poco.
Già, povero Manin.
Era un cacciatorpediniere acciaccato.
Il Manin era stato varato nel 1925 e aveva partecipato a numerose missioni.
I lavori di climatizzazione ne avevano rallentato velocità ed autonomia.
Malgrado tutto resistemmo per oltre tre ore.
Centrato da due bombe da 224 kg, il Manin rimase immobilizzato.
A quel punto vennero attivate le cariche esplosive per l'autoaffondamento.
Ma non esplosero.
Per questo il tenente Crisciani, Batageli e Sacchetto ritornarono sulla nave.
Che si spezzò, trascinandoli a fondo.
Nel frattempo erano state messe a mare due lance, prive di motori e viveri.
Su una di queste c’era il comandante Fadin con un ginocchio sfracellato ed una coscia traforata. Ed una sessantina di superstiti.
E c’ero io.
Eravamo troppi, c’erano feriti, e non c'era posto per tutti
Fu così che, dopo aver lasciato il mio posto a un marinaio ferito, rifiutando ogni cambio, mi immersi nell’acqua restando aggrappato un giorno e una notte al bordo della scialuppa. Ma persi le forze e ad un certo punto salutai il mio comandante.
Prima di scomparire nell’oscurità
“Con raccapriccio,ma con profondo orgoglio che rende nel caso stolida ogni supremazia razziale, rivedo Faruk, il bulukbasci, ancora giovane di anni e forte nella persona, avvicinarsi lungo il bordo, appoggiare le sue nere mani dalle palme bianchissime, sul mio braccio abbandonato
e dirmi nel suo strano italiano “addio Comandante – io avere finito ogni forza – io ti ringraziare”, lasciare poi di tenersi aggrappato scomparire nella notte.
Non lo abbiamo più riveduto, ma non potrò dimenticare lo sguardo dell’addio
fatto di fredda rassegnazione e della più orgogliosa fierezza che non trova a mio parere, nell’ambito della virtù militare degna ricompensa e che mi fa sembrare banale ogni segno che testimonia sul petto di taluni allievi della gloria di un atto o gesto fortunato”.
Dopo una settimana di pericoli, fame e sete, la lancia approdò sulle coste dell’Arabia Saudita, paese neutrale.
Secondo le convenzioni internazionali ritornarono in Italia in occasione di uno scambio di prigionieri patrocinato dalla Turchia, anch’essa neutrale.
Mohammed Ibrahim Faruk, nato a Massaua, bulukbasci delle truppe coloniali italiane (equivalente al grado di sergente del Regio Esercito) è stato insignito della medaglia d'oro al valor militare (M.O.V.M) nel 1947.
«Imbarcato da pochi giorni su Cacciatorpediniere, prendeva parte, distinguendosi per bravura, al disperato tentativo di attacco a Base Navale avversaria, durante il quale l'unità veniva sottoposta ad incessanti attacchi aerei che ne causavano l'affondamento.
Trovatosi naufrago su imbarcazione a remi con oltre sessanta superstiti, rinunziava al proprio posto per assicurare l'altrui salvezza, restando per l'intera notte aggrappato fuori bordo. Esaurito dallo sforzo, anziché chiedere il cambio,
si allontanava dall'imbarcazione dopo aver ringraziato il Comandante ed affrontava sicura morte, dando luminoso esempio di virtù militare, di spirito di sacrificio e di abnegazione»

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Feb 9
Come vivevano nei campi di concentramento?
Nei lager non si vive, si sopravvive.
Avevano pochissimo da mangiare, un pugno di riso e un pezzo di pane duro.
E poi con tutte quelle epidemie di tifo non avevano nemmeno la forza di lavorare.
Le donne avevano paura di uscire dalle tende persino per fare i bisogni.
I guardiani picchiavano tutti continuamente.
Ogni scusa era buona per punire i prigionieri con la morte, costringendo gli altri ad assistere alle esecuzioni. Almeno una cinquantina ogni giorno. Image
Il 2 maggio 1931 era stato lui in persona, Graziani, a fare un censimento.
Nel lager di Marsa Brega c’erano 21.117 esseri umani. A Soluch 20.123. A Sidi Ahmed el Magrun 13.050. A El Agheila, 10.900 e a Agedabia 10.000. A el Abiar 3123.
In totale 78.313 prigionieri. Image
Read 22 tweets
Feb 7
#sempreilgiornodellamemoria
Capita.
Di non ricordare un nome, anche ce l’hai sulla punta della lingua. La capisco. Tra milioni di nomi poi.
Certo, che sia accaduto proprio nel “giorno della memoria”, non è il massimo.
O forse è altro, non so.
Dice che è arrivata in ritardo e non era a conoscenza dell’argomento. Prendiamo atto.
Comunque, per evitare che l’anno prossimo qualcun altro possa avere un vuoto di memoria, qualche nome lo possiamo anticipare.
Qualche nome tra tanti.
Perché un nome si fa presto a trovarlo. Magari un nome sconosciuto.
Tra quelli che Johannes chiama gli “angeli invisibili”. Come Eri Zinger, con suo figlio Yehonanta che vedete nella foto. Uccisi ad Auschwitz.
Oppure un nome che conosco bene. Molto bene.
Il mio.
Read 21 tweets
Feb 3
Non sono mai riuscito a darmi pace per quella frase.
E’ una cosa che ti rimane dentro.
Lo so che stavamo scherzando, lo so, ma non riesco a dimenticarla.
Io gli volevo bene, era stato lui nel 1958 a scegliermi per suonare il basso nel suo gruppo di supporto.
Mi chiamo Waylon Jennings e sono morto nel 2002, dopo una straordinaria carriera musicale.
Con moltissimi premi di musica country vinti.
Per lui invece la carriera finì quel giorno, dopo quella maledetta frase.
Lui si chiamava Charles Hardin Holley, in arte Buddy Holly.
"Egli entrò nella mia vita quando io ne avevo bisogno, ed io entrai nella sua allo stesso modo” racconterà la sua Maria. Con il permesso della zia lui le aveva chiesto di uscire la prima volta nel giugno 1958. Cinque ore dopo, porgendole una rosa, le aveva chiesto di sposarlo.
Read 24 tweets
Jan 27
#Giornatadellamemoria
Mi chiamo Helene Hannenmann e sono una donna tedesca. Ariana.
Oggi è un giorno di maggio del 1943.
Mi sono svegliata facendo le solite cose.
Un giorno come un altro. Almeno, doveva esserlo.
Mi sbagliavo.
Non fu un giorno come un altro. Per niente.
Blaz si era svegliato nervoso per via di una verifica a scuola.
Otis con un forte mal d’orecchio. I gemelli stavano bene, ma si alzavano sempre con gran fatica.
E poi la piccola Adalia, di tre anni, il mio scricciolo, il mio angioletto.
E poi c’era lui, mio marito Johann.
Quando ci eravamo sposati molti mi avevano detto di stare attenta, che mi avrebbe rubato qualcosa.
Perché mi dicevano questo? Lui era di etnia rom.
O meglio, zingari, come preferivano chiamarli i tedeschi.
Si erano ricreduti dopo che era entrato nella Filarmonica di Berlino.
Read 17 tweets
Jan 26
Ricordo benissimo quel giorno, il 25 marzo del 2003. Dispersa. Ufficialmente “Missing”.
Mi chiamo Jessica Lynch, e allora avevo 19 anni.
Due giorni prima, nei pressi di Nassiriyah, un furgone dell'esercito USA con a bordo 15 militari era stato attaccato dall’esercito iracheno.
E’ vero. Facevo parte di quella 507° Compagnia di manutenzione quando siamo caduti in un’imboscata. Che ci facevo in Iraq?
Vengo da Palestine, in West Virginia e con quella disoccupazione non avevo altra scelta.
Da grande avrei voluto fare la maestra elementare
Invece ero finita in Iraq ed ero stata catturata.
Nei giorni successivi Washington Post descrisse minuziosamente la mia resistenza epica: "pur avendo subito ferite d'arma da fuoco...ha continuato a sparare a parecchi soldati iracheni...fino ad esaurire le munizioni".
Read 22 tweets
Jan 20
Quel film con me protagonista ebbe un successo incredibile.
Era il 1985 e fu il primo film ad essere programmato in più di 2.000 sale cinematografiche statunitensi.
Il presidente degli Stati Uniti d'America Ronald Reagan mi lodò come un simbolo dell'esercito americano.
La trama.
Ero ai lavori forzati, a spaccare pietre in un penitenziario di Washington, quando arrivò il Colonnello Trautman a propormi la libertà.
In cambio dovevo tornare in Vietnam per una nuova missione. Liberare alcuni prigionieri statunitensi.
E così avevo fatto.
Ma era solo un film. Precisamente Rambo II.
E il Presidente Ronald Reagan volle eleggermi come possibile eroe nazionale.
«Così sapremo chi chiamare quando ce ne sarà bisogno».
Già.
Non era bastato subire una sonora sconfitta militare.
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