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“Believe in something. Even if it means sacrificing everything”
“Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”.
Quella frase che la Nike aveva coniato per Colin Kaepernick mi aveva turbato.
Mai immaginando che avrebbe cambiato la mia vita.
C’era qualcosa nella mia vita per cui valeva la pena sacrificare tutto? C’era. E da molto tempo.
Ma bastava per rinunciare a tutto?
Per rinunciare alla cosa che amavo di più? Forse è il caso che cominci dall’inizio.
Non ho mai conosciuto il mio padre biologico. So che mamma si era trasferita da Los Angeles a Jefferson City, Missouri, prima della mia nascita. Ero nata in quella cittadina e lì avevo conosciuto Reggie Williams e sua moglie Cherilyn.
Lui era il pastore del carcere cittadino.
Con mamma ci eravamo poi trasferite ad Atlanta, ma io non perdevo occasione per tornare in città a trascorrere le vacanze.
Fu durante una di quei periodi che venni a conoscenza del suo caso.
Lui si chiamava Jonathan Irons.
Era in carcere per un crimine commesso nel 1997. Precisamente il 14 gennaio.
Un certo Stanley Stotler, tornando a casa, aveva sorpreso un ladro nascosto in un armadio di casa e minacciandolo con una pistola lo aveva costretto ad uscire.
Il ladro uscendo aveva sparato due colpi.
Uno invece Stotler con la sua 9 millimetri.
Il ladro era riuscito a fuggire, mente Stotler era rimasto gravemente ferito.
Un’operazione al cervello lo aveva salvato per un pelo.
Cosa c’entra Jonathan Irons con questa faccenda? C’entra, perché una settimana dopo fu lui ad essere arrestato, per essere il ladro che aveva sparato. Aveva solo 16 anni, e il suo passato non deponeva certo a suo favore.
Per questo era stato giudicato come un adulto.
Le prove? Un detective affermò che aveva ammesso di essere entrato nella casa di Stotler e di essere ubriaco in quel momento. Ma a quella testimonianza non era presente nessun avvocato.
Né risultava in nessun documento o registrazione.
Per questo lui aveva sempre negato.
Non aveva mai detto nulla a quel detective. Era sì nel quartiere quella sera, ma non aveva niente da spartire con quella violenza.
Ma cosa può capitare ad un nero che si trova nel quartiere sbagliato nel momento sbagliato?
Non c’era nessuna arma del crimine, nessun testimone, nessuna impronta, niente DNA, niente di niente. Ma l’accusa disse: “Non andateci piano solo perché è giovane (….). Dobbiamo mandare un messaggio forte a questi giovani (…)
E così il 4 dicembre 1998, solo un mese e mezzo dopo l’inizio del processo, il 18enne Jonathan Irons era stato condannato a cinquanta anni di reclusione per furto con scasso e aggressione a mano armata. Cinquanta anni di reclusione.
Era stato il pastore Williams ad organizzare un incontro tra me e Jonathan in carcere.
Nel 2007, prima di partire per l’University of Connecticut. Iniziò lì la nostra amicizia.
Dopo averlo battuto in una partita a dama gli promisi che non mi sarei dimenticata di lui.
In 20 anni tutti i suoi appelli erano stati respinti. Ma ora c’ero io, Maya Moore, convinta della sua innocenza.
Portai il suo caso anche in televisione.
Era chiara l’ingiustizia nei suoi confronti.
E io odiavo le ingiustizie.
Tanto da proporre, nel 2016, quella protesta per l’uccisione di Alton Sterling e Philando Castile, due uomini di colore uccisi da agenti di polizia. Giocavo nei Minnesota Lynx.
Per protesta i poliziotti di Minneapolis presenti abbandonarono lo stadio.
Ero fiera di quel gesto. Di aver messo in risalto la troppa violenza verso gli uomini di colore. Prima di Colin Kaepernick, e il suo inginocchiarsi durante l’inno nazionale.
Prima della tragedia di George Floyd.
“Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”.
E io per quello in cui credevo ho sacrificato tutto.
“Ho deciso di dedicare la mia vita alla liberazione di Jonathan come ho dedicato la mia carriera alla pallacanestro”.
Già, perché nel 2019, a soli 30 anni, ho deciso di dedicare la mia vita alla liberazione di Jonathan.
E ho abbandonato il basket.
Continuando avrei potuto diventare la giocatrice più vincente di tutti i tempi.
Avevo già vinto molto.
Due titoli NCAA (90 successi in fila). Numero 1 del Draft del 2011 e subito il titolo WNBA con le Minnesota Lynx, poi altri tre titoli (2013, 2015 e 2017), un premio di MVP delle Finals (2013), uno di MVP della regular season (2014) e tre dell’All-Star Game in sei convocazioni.
E poi nei mesi invernali due volte l’Eurolega (2012 e 2018), tre volte il campionato cinese (dal 2013 al 2015) e tutto ciò che si poteva vincere con la nazionale USA (due ori mondiali e due olimpici).
AVrei potuto vincere di più. Invece...
bit.ly/327kLju
Il mio chiodo fisso era dimostrare l’innocenza di Jonathan. Lo avevo spiegato sul New York Times. Avrei impiegato il mio tempo per aiutare Jonathan Irons a ribaltare la sentenza di condanna. Perché era ingiusta.

Com'è andata a finire?
Il 2 luglio 2020 Il giudice di Jefferson, City Daniel Green, ha annullato la sentenza di condanna di Irons e ha ordinato la sua scarcerazione dalla prigione di massima sicurezza in cui è stato rinchiuso per 23 anni.
Secondo l’avvocato di Irons, Kent Gipson, (la cui parcella è stata in larga parte pagata da Maya), le impronte trovate in casa non erano di Irons. Ed erano state tenute nascoste. Serviva un colpevole e un colpevole era stato trovato. Anche se innocente.
Grazie a @cav_jesus per avermi suggerito di raccontare la storia di Maya Moore.
Perché quando si parla di diritti civili i nomi nello sport sono sempre quelli.
Da LeBron James a Colin Kaepernick.
E ci dimentichiamo di lei, la grande Maya Moore.
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