Inverno 1943.
Passata la tempesta i fiocchi di neve avevano ricoperto la villa, gli alberi e tutti i viali.
Faceva freddo, ma finalmente era tornato a splendere il sole.
Dovevate vedermi nel mio bel cappottino blu, con quella sciarpa di lana grossa che mi aveva fatto nonna.
Mi chiamo Graziella.
Testarda ero testarda, lo ammetto.
Tranne che con papà Giorgio. Comunque, in caso di richieste piacevoli, la mia resistenza era nulla. Come quando mamma Jole mi aveva prospettato l’idea di venire per qualche tempo qui, nella villa di Graglia, nel biellese.
Avevo cominciato a saltellare dalla gioia.
Abitavamo nel centro di Torino e la mia vita era quella di una bambina di otto anni. La scuola al mattino, una passeggiata al Parco del Valentino al pomeriggio con Riccardo, il mio cuginetto, poi a casa per i compiti, cena e poi a nanna
Giornate sempre uguali, con un unico desiderio. Tornare a Graglia in quella bellissima villa immersa in un parco.
Per noi bambini era sempre una gioia.
Corse nei prati, alberi da scoprire, bagni nella vasca in giardino e fiori, tanti fiori colorati.
Per quello, quando mamma mi aveva chiesto se volevo andare a Graglia, ero felice.
Strana però come richiesta, almeno in quel periodo. Tra l’altro papà non sarebbe venuto con noi. Lavorando alla Fiat, non poteva certo lasciare il lavoro.
Forse il motivo era quello strano gioco?
Da qualche tempo al suono di una sirena tutti dovevano uscire di casa e correre in luoghi riparati. Rifugi antiaerei li chiamavano.
Non so quale fosse lo spirito del gioco. Io avevo paura. A dire il vero nessuno si divertiva.
Non le donne che spesso scappavano da casa coi bigodini in testa e non gli uomini, che di notte correvano verso il rifugio in pigiama.
Sicuramente non quell’antipatica bambina del terzo piano che zompettava giù dalle scale con quei buffi capelli arruffati.
Quando ero arrivata in villa la prima cosa che avevo fatto era stata quella di andare nel fienile per vedere se era ancora lì.
Aperto il portone l’avevo vista, appoggiata al muro.
La mia bella slitta rossa, che mi era stata regalata qualche anno prima al mio compleanno.
Era diventata ben presto il mio gioco preferito.
Quante risate durante la discesa giù, fino alla scuola. E ora era lì, pronta ad essere usata con il mio amico Silvano, che abitava lì tutto l’anno.
Era arrivato, più magro però.
Ultimamente a tavola c’era meno cibo per tutti.
Stelvio invece non l’avevo visto.
Aveva quindici anni e avevo saputo che lui era stato incaricato di tenere d’occhio la strada principale per controllare l’arrivo dei tedeschi in uniforme.
Questi giochi degli adulti io mica li capivo.
Avevo giocato con Silvano quel giorno.
Lo avevo salutato e mi ero avviata verso casa. Compresi subito che qualcosa non andava.
Cosa ci facevano quegli uomini in uniforme davanti alla villa? Perché urlavano verso la mamma?
Perché dalla casa uscivano altre persone in uniforme portando via le nostre uova e le nostre galline?
Anche la farina e il latte era roba nostra.
Ero impietrita.
Fino a quando uno di loro venne verso di me urlando: “Ehi, bambina, vieni qui!”
Fu mamma a mettermi in salvo. Abbracciandomi forte. A quel punto quell’uomo cattivo vide la mia slitta. “Dammi quella slitta!”.
Spostai la mano che la teneva stretta e la misi dietro la schiena.
La mamma prese la slitta dalle mie mani e la consegnò all’uomo.
La mia slitta rossa.
Niente più risate, niente più record.
Come sarei andata a scuola? Solo a piedi?
Lasciai la mano di mamma e scappai nella mia stanza a piangere.
Dalla finestra sentii la signora Gina, la mamma di Silvano, urlare.
Quegli uomini la stavano strattonando.
All’improvviso uno di loro si allontanò da lei avvicinandosi ad un grande albero.
Io l’interno di quell’albero lo conoscevo bene.
Era il nostro nascondiglio segreto, di me e di Silvano. Cosa stava facendo quel soldato?
Lo sentii ancora urlare:” Esci di lì !”.
Con chi stava urlando?
Solo io e Silvano conoscevamo quel nascondiglio.
Dal tronco spuntò un uomo.
Ma come…io quell’uomo lo conoscevo.
Si chiamava Giovanni e veniva tutte le sere ad ascoltare la radio insieme alla mamma.
Che ci faceva uno come lui, grande e grosso, dentro un albero?
Se era uno dei soliti giochi degli adulti non era per niente divertente.
Di Giovanni ricordavo che alla radio non ascoltava mai della buona musica.
Solo discorsi strani.
Veniva, ascoltava la radio e se ne andava.
Sempre gentile, mi portava spesso qualche regalino. Le sue visite duravano un’oretta.
Serio, a volte preoccupato.
Una volta gliel'avevo chiesto.
Perché non ascoltasse la musica, intendo.
Lui mi aveva risposto che la musica gli piaceva, e parecchio, ma aveva bisogno di ascoltare quelli come lui, che “resistevano e combattevano per la libertà del nostro Paese”.
Non ci avevo capito molto.
La musica era senz’altro meglio.
Il tutto però non spiegava cosa ci facesse dentro quell’albero.
Giovanni uscì.
Fu allora che gli uomini in uniforme iniziarono a picchiarlo.
Alla fine lo trascinarono via.
Insieme alla mia slitta rossa.
Graziella ha ancora molto da raccontare.
Cosa accadde a Giovanni, per esempio, e alla sua slitta rossa. O a Stelvio che faceva la guardia.
Del perché una bambola rossa appariva tra i suoi giochi ogni volta che arrivavano quegli uomini cattivi.
Per poi sparire subito dopo.
Perché mamma si preoccupò moltissimo quando un tedesco, entrando in casa, si mise a suonare il suo pianoforte?
Il soldato disse che era scordato, ma mica era vero. Quando lo suonava la sua mamma era perfetto.
Che segreto nascondeva?
E molto, molto altro.
Io credo sia importante raccontare la guerra ai bambini, anche se non è mai facile.
Con quali argomenti? Con quali parole?
Ecco, l’amica Jolanda Restano @JolandaRestano ci riesce benissimo con il suo ultimo libro “La slitta rossa”, splendidamente illustrato da Angelo Ruta.
Una storia vera, quella di Graziella, che ci racconta i giorni della guerra e della Resistenza attraverso i suoi occhi da bambina.
Uno sguardo dove l’amicizia e la solidarietà superano ogni violenza. Commovente.
Un libro per tutti, da leggere ai bambini, magari sotto l’albero.
La bambina che vedete nella foto qui sotto è Graziella. Che non è solo la protagonista de "La slitta rossa", ma anche la mamma di Jolanda Restano, l’autrice del libro. @JolandaRestano
Un grazie e un grande abbraccio a entrambe.

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1 Dec
06/12/1923 - La discussione sul disastro della diga del Gleno al Senato.
Il costruttore: Scienza e ingegneri non servono a costruire una diga. Basta solo il buon senso. Image
I ruderi sono ancora là, da quel maledetto 1 dicembre 1923, a oltre 1500 metri in alta Val di Scalve.
Aveva piovuto a dirotto nei giorni precedenti.
Non quella mattina, anche se il tempo era comunque uggioso.
bit.ly/3d4xSaY
Dopo tanto dolore tra chi geme e chi muore,
tra quell’onda fatal in quel giorno infernal,
episodio pietoso dai soldati animoso,
io voglio cantar a chi nel cuor ha pietà
e che giammai scorderà.
Read 8 tweets
26 Nov
«La cucina macrobiotica zen».
È questo il libro, o meglio, il ritrovamento di questo libro, che ha scatenato l’inchiesta giudiziaria.
Che ci faceva in giro? Indagando, la magistratura ne ha trovati altri.
Sulle bancarelle, nelle cantine, nell’immondizia. Tutti libri del ‘900.
Tutti col timbro del fondo.
Originali. Preziosi. Rari.
Come un’edizione de «I miserabili», o i disegni di Frank Lloyd Wright.
Pensate che a Porta Portese è stata trovata una copia rara de «La figlia di Iorio» di Gabriele D’Annunzio. L’ambulante l’aveva venduta a venti euro.
Tutti libri che erano in mio possesso e che prima della mia morte avevo donato all’Accademia di San Luca. Migliaia di volumi: cataloghi di mostre, monografie d’arte, opere letterarie, collane, enciclopedie, dizionari, edizioni di pregio.
Tutto raccolto in centinaia di scatoloni.
Read 25 tweets
23 Nov
Non sei obbligato ad ascoltare la storia della mia vita Johannes. So che ti costa fatica e so quello che provi ogni volta che leggi queste storie.
Sai già che la mia è una di quelle che tocca nel profondo.
Se non vuoi ascoltarla ti basta un click.
E io me ne vado.
Vedo che sei ancora qui.
Quindi mi sento autorizzato a raccontare quello che è accaduto in quei giorni.
Di come tutto possa precipitare da un momento all’altro quando meno te lo aspetti.
La mia infanzia? Come quella di tanti altri.
Sono nato a Caposele, in provincia di Avellino al confine con quella di Salerno, il 29 gennaio 1927.
Una splendida terra la mia. E molto generosa.
Tanto da regalare la sua principale ricchezza ai pugliesi. Le sorgenti di Santa Maria della Sanità e del fiume Sele.
Read 25 tweets
22 Nov
“Le dittature, tanto di destra come di sinistra, non mi sono mai andate a genio. Purtroppo ci sono persone a cui piacciono i dittatori”.
Non mi tirai indietro quando fu indetto quel referendum. L’esito era incerto. Io molto conosciuto.
"Rey del metro cuadrado" mi chiamavano.
Era il 1988 e il mio Paese, il Cile, da anni era un paese triste, che non sorrideva più.
Molti sparivano nel nulla. La tortura all’ordine del giorno. Una continua violazione dei diritti umani.
Per quello intervenni in quel referendum, schierandomi pubblicamente per il NO.
La Costituzione entrata in vigore nel 1981 stabiliva che fosse effettuato un referendum al termine del primo mandato presidenziale.
Votare "SI" significava confermare Pinochet, il "No" avrebbe portato a nuove elezioni.
Come potevo tirarmi indietro?
Non lo avevo mai fatto.
Read 17 tweets
20 Nov
Caro Johannes, ho letto che anche da voi ci sono i campi di concentramento.
Ho visto gente sfilare per strada vestita con quelle pettorine a righe che indossavamo noi in quell’inferno.
Avevano in mano anche del filo spinato. Mi dispiace.
Soprattutto per quelle donne.
Sai. Ricordo ancora quando hai “voluto” leggere le nostre storie.
Non ti bastava sapere a grandi linee cosa erano stati quei campi di concentramento per noi donne.
Hai voluto conoscere anche i minimi particolari. Vomitare, fu per te una liberazione. I tuoi lettori sono avvisati
Noi donne non fummo trattate peggio degli uomini come ha scritto qualcuno. Fummo trattate diversamente, quello sì, in quanto donne.
Dalla rasatura delle parti intime a quelle luride baracche. O “gabbie per conigli” come le chiamavamo. Con quelle coperte ricoperte di escrementi.
Read 12 tweets
18 Nov
“Männer zur linken! Frauen nach rechts!”, uomini a sinistra! Donne a destra! E perché mai?
Nevicava quella domenica di gennaio quando il treno merci ci aveva scaricato dopo un viaggio di 36 ore.
659 ebrei olandesi.
Esattamente 240 uomini e bambini e 419 donne e bambine.
Partiti dal campo di transito olandese di Westerbork stipati all’inverosimile.
Un sollievo una volta arrivati, con la possibilità di sgranchirmi le gambe finalmente. E tante domande. Dove sono arrivato? E’ un posto che non ho mai sentito. Lo chiamano Auschwitz.
E poi.
Cosa ci fa quel mucchio di valigie abbandonate nella neve? Dove sono i proprietari?
Sicuramente verranno a riprendersele.
Ho 40 anni, e indosso un soprabito. Sono sporco.
E stanco, dopo tutte quelle ore in quel treno gelido senza cibo, acqua e servizi igienici.
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