Lo so, qualcuno sminuisce continuamente quello che abbiamo fatto, affermando che in fondo sono stati gli Alleati a liberare il Paese.
Secondo queste persone noi potevano starcene tranquillamente seduti sul divano, aspettando la loro avanzata.
Agimmo diversamente.
Insieme a molti altri, decisi anch'io di fare qualcosa.
Tutto cominciò dopo l’8 settembre.
Nelle valli bergamasche si andavano formando i primi gruppi di lotta contro i nazi-fascisti.
Abitavo a Bergamo, quando si presentarono alla mia porta alcuni militari sbandati.
Li accolsi. E li organizzai.
Diventammo la “banda Maresana”. Li guidai per oltre un anno in azioni contro i tedeschi e i fascisti. Finché la rappresaglia nazi-fascista non si scatenò contro la X Brigata Garibaldi, attiva nella val Taleggio, che aveva occupato i paesi della valle.
Dichiarandola «zona libera».
E così i capi delle brigate nere, spaventati, avevano chiesto aiuto ai reparti di Bergamo.
Il 18 giugno del 1944 i miei amici partigiani avevano piazzato mine sotto i ponti di Sedrina, superando i posti di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana.
La reazione non tardò ad arrivare.
Nella mattinata del 27 giugno ottocento fascisti cominciarono a salire verso la valle, impedendo qualsiasi via di fuga ai cento partigiani.
Cominciarono gli scontri, e per i miei compagni le cose si misero male.
Il comandante Rino Locatelli e altri 4 partigiani presero una decisione.
Per rallentare la risalita delle truppe motorizzate da San Giovanni Bianco bisognava far saltare un ponte di pietra.
L’intento era quello di fermare la colonna fascista, dando tempo agli altri di fuggire.
Ma la carica non esplose, e i cinque si ritrovarono sotto le raffiche di mitra.
Tre di loro riuscirono a mettersi in salvo, mentre il comandante Locatelli ed Eugenio Manzoni morirono crivellati dai colpi.
Con il loro sacrificio avevano salvato il resto della brigata.
In quei giorni io non ero più sui monti a lottare con loro.
Ero nel carcere di Sant’Agata.
Con accuse pesanti. Anzi, pesantissime.
Intelligenza col nemico, spionaggio organizzato, costituzione di banda armata, traffico clandestino d’armi, sabotaggio, aiuto ai partigiani.
Mi interrogarono per giorni.
Volevano sapere i nomi dei miei compagni.
«Questi interrogatori avvenivano in una camera con un letto con delle punte di ferro. Quando io dicevo di no, e non volevo parlare, mi davano fior di legnate».
«Dopo mi portavano in una camera imbottita, perché dal di fuori nessuno potesse sentire le grida. Mi toglievano i vestiti e mi picchiavano, con quel “coso” che usano gli spazzacamini per pulire le canne fumarie. Mi buttarono fuori tutti i denti».
«Poi aghi roventi alle gambe. Senza bere, senza mangiare. E mi strapparono i capelli, tentando di farmi parlare con ogni mezzo. Nonostante le torture, non una parola uscì dalla mia bocca».
Dal carcere di Sant’Agata, a causa delle mie condizioni fisiche, qualcuno mi portò all’Ospedale Maggiore di Bergamo, dove rimasi fino al termine della guerra.
A chi oggi mi chiede come ho fatto a resistere, rispondo: «Meglio una donna rovinata, che tanta gente impiccata».
Sì, perché io sono una donna.
Mi chiamo Adriana Locatelli, nome di battaglia Lalla. Sono io ad aver guidato per oltre un anno la Brigata Maresana. Ero stata catturata il 26 febbraio del 1944, per colpa di una spia che mi aveva venduto ai fascisti.
Adriana Locatelli, nome di battaglia Lalla, conosciuta anche come «la monella della banda della Maresana» ci ha lasciato nel giugno del 2007.
Una donna «apparentemente dolcissima, ma anche straordinariamente forte, che ha speso tutta la vita a difesa dei valori in cui credeva».
Quando al termine della guerra il Tribunale alleato le chiese il nome dei suoi traditori e seviziatori, Adriana rispose: «La libertà è raggiunta; ho perdonato tutti come voto di gratitudine al buon Dio che ci ha assistiti; vi prego di desistere da ogni azione, non parlerò».
Il ruolo giocato dalle spie fu determinante.
I maggiori fatti di sangue perpetrati dai nazi-fascisti sono avvenuti grazie a spie senza scrupoli.
Molte anche nella bergamasca.
Tra queste una spia in particolare.
A disposizione dei tedeschi e dei fascisti.
Che provocò…
Arresto di dieci prigionieri a Longuelo internati in Germania.
Arresto, sevizie e condanna a morte di Giuseppe Sporchia. Giustiziato.
Arresto Dott.ssa Lidia Curti. Inviata in Germania.
Arresto Avv. Hans Gutman. Condannato a 14 mesi di carcere.
Arresto capitano Benassi. Morto poi a Dachau.
Arresto di Betty Ambiveri, internata poi in Germania.
Arresto di Conti Giuseppe, internato poi in Germania.
Arresto di Ferrari Antonio, incarcerato per undici mesi.
Arresto di Stefanoni Angelo, incarcerato per tredici mesi.
Arresto di Piccinelli Angiola, internata poi in Germania.
Arresto di Bersaglio Emilia, incarcerata per undici mesi.
Arresto di Mariella Valenti, incarcerata per undici mesi.
Arresto del Dottor Fasoli Enrico e di Locatelli Alessandro.
E poi Mimma Quarti, Pellicioli Giuditta, del Don Agostino e di tutta la famiglia del conte Passi.
E poi l’arresto della protagonista di oggi. Adriana Locatelli.
Che subì violenze in carcere tali da renderla invalida per il resto della vita.

Il nome della spia? Clelia B.
La delatrice fu condannata il 2 marzo 1946 a trent’anni di reclusione.
“Per aver tenuto corrispondenza e intelligenza col nemico, allo scopo di favorirne le operazioni politico-militari, nuocendo nel contempo al movimento insurrezionale”. La Corte non ebbe dubbi sulla sentenza.
La spia era al servizio dei tedeschi. Stipendiata. “Consapevole di quello che stava facendo. In considerazione del sesso e dell’età dell’imputata vengono concesse le circostanze attenuanti. Determina la pena in anni 30 di reclusione”.

Sentenza poi annullata dall’amnistia 1946
I tribunali furono molto più indulgenti, a parità di reato, verso le delatrici.
Gli avvocati e spesso le imputate stesse fondarono la difesa sulla loro incapacità di giudicare cosa fosse il bene e cosa il male.
Puntando spesso sull’infermità mentale.

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19 Dec
Dicembre 1945. Enrico Mattei. Image
Fine anni Settanta. Renato Canosa Image
Guido Neppi, curatore di uno studio sulle sentenze delle Cas. Image
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18 Dec
Negli ultimi otto thread vi ho raccontato storie della Resistenza bergamasca.
Dai tredici martiri di Lovere alla strage di Petosino.
Da Giorgio Paglia ad Angelo Gotti, dall’eccidio di Cornalba alla strage di Nese per concludere con Bepi Signorelli e Adriana Locatelli. Image
Tutte queste storie hanno un comune denominatore.
Lo scontro con la famigerata 612° Compagnia OP (Ordine pubblico) comandata dal capitano Aldo Resmini.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare, ma giusto rimarcare alcune cose.
La Corte d’Assise straordinaria di Bergamo definì la 612° Compagnia OP “Famigerata abominevole banda Resmini”
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15 Dec
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Ricordati con i nomi di Angelo, Carlo e Michele.
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Ma come erano giunti sui monti della bergamasca?
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13 Dec
Mi chiamavano “il tessitore”, ma sono sempre stato per tutti solo il “Bepi”.Per il mio carattere, per quello che ho passato e per come è finita, la voglia di raccontarvi la mia storia è poca, anzi pochissima. Ma per Johannes deve essere raccontata. Dice che la gente deve sapere.
Mi chiamo Giuseppe Signorelli e sono nato a Bergamo il 18 settembre 1907.
Come molti ragazzi ho frequentato le scuole professionali indirizzo meccanico, riuscendo ad entrare, ancora giovane, alla Dalmine.
Con una mansione che mi aiutò moltissimo, quando venne il momento.
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Come accadde a molti, io non aspettai l’8 settembre. Iniziai ancora prima della guerra.
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10 Dec
Prenderà la denominazione di 612° Compagnia OP (Ordine Pubblico). Sotto i suoi ordini.
Perché, si diceva, lui gli uomini li sapeva comandare “in modo adeguato”.
Che solo a sentire la parola “adeguato” ai bergamaschi faceva venire i brividi.
Come nel gennaio 1944 quando aveva effettuato un rastrellamento al Roccolo "Gasparotto al Colle di Zambla per cercare i responsabili dell’uccisione a Bergamo di Giovanni Favettini, commissario prefettizio di Scanzorosciate.
Un attacco ai partigiani di Dante Paci e Aldo Battagion concluso con l’arresto di tutti i partigiani e l’uccisione di Valdo Eleuterio, 17 anni.
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Senza ottenere nessuna informazione.
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9 Dec
Mi chiamo Maria Cefis, ma la storia che sto per raccontare non è la mia storia.
E’ la storia di un ragazzo di ventidue anni, Angelo, ucciso il 23 novembre 1944 in Valle Imagna.
Perché tengo tanto a lui?
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