"Che Dio ti protegga", disse papà mentre scappavo dal quel vagone.
Mi aveva implorato di mettermi in salvo, lui troppo stanco e stremato per potermi seguire.
Il mio tentativo di fuga però era fallito ed ero finito a Mauthausen, prima di essere liberato.
Sto tornando a casa.
Mi chiamo Fritz Kleinmann e sette anni fa, quando tutto era cominciato, di anni ne avevo quindici. Vivevamo a Vienna.
Io, papà Gustav maestro tappezziere, mamma Tini, il mio fratellino Kurt e le mie sorelle Edith e Herta.
Felici, quando nel 1938…
Tutto cambiò per noi ebrei.
Con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e a causa delle famigerate leggi di Norimberga, venimmo privati della cittadinanza.
Fui espulso dalla scuola e il mio sogno di diventare tappezziere come mio padre svanì.
Sequestrarono e chiusero anche il negozio di papà. Riuscivamo in qualche modo a tirare avanti con piccoli lavoretti, quando il governo inglese decise di rilasciare qualche visto a noi ebrei.
Papà costrinse Edith a presentare la domanda.
Nel gennaio del 1939 riuscì a partire.
Avevamo dei buoni rapporti con tutti nel palazzo dove abitavamo, e fummo molto sorpresi quella domenica di settembre del 1939 quando i vicini presero me è papà e ci consegnarono alla Gestapo.
Finimmo insieme su un vagone merci e deportati nel campo di Buchenwald, in Germania.
Papà, rischiando la vita, aveva nascosto un bloc-notes e una matita.
Arrivati al campo cominciò a scrivere.
“Arrivato a Buchenwald il 2 ottobre 1939 dopo un viaggio di due giorni in treno”.
Mi disse che voleva lasciare una testimonianza.
Nel caso non fossimo sopravvissuti.
La sua paura era giustificata.
Lo capimmo al primo appello quando Karl Otto Koch, il comandante del lager, ci urlò: «ora voi maiali ebrei siete qui dentro. Una volta entrati in questo campo, non potete più uscire. Ricordatelo, non ne uscirete vivi».
Servirebbero pagine e pagine per descrivere quello che subimmo nei primi tre anni.
Ci picchiarono e, ridotti alla fame, ci costrinsero ai lavori forzati per costruire il campo stesso in cui eravamo prigionieri.
Eravamo solo numeri per loro.
Io, il 7290, papà il numero 7291.
Per tre anni, quando nell’ottobre del 1942 venni chiamato nell’ufficio del mio kapò.
“Ho la lista degli ebrei da trasferire a Auschwitz, mi disse. Nella lista c’è anche tuo padre”.
Sapevo esattamente quello che significava.
Lo sapevamo tutti.
Delle camere a gas, intendo.
Ma presi la decisione. “Voglio andare con lui” gli dissi. E insistetti anche quando disse che era un suicidio. Non volevo lasciare solo mio padre, volevo stare con lui.
Noi due insieme, come lo eravamo stati negli ultimi tre anni.
“In fondo un uomo può morire una sola volta”.
Mi accontentarono. E così finimmo a Monowitz, una sezione di Auschwitz. Altri 3 anni di lavori forzati e di torture che papà riportava ogni giorno sul suo diario. Dove raccontò del filo elettrificato, dei cani da guardia, e di quei camini che soffiavano fuori un fumo nauseabondo.
Camini che evitammo, perché arrivò il 17 gennaio 1945, quando giunse l’ordine di evacuare il campo.
I sovietici si stavano avvicinando. Ci mettemmo in marcia. 35.000 uomini e donne su strade innevate. Dopo 40 Km arrivammo allo scalo merci di Gleiwitz. E ci caricarono sui vagoni.
Destinazione Mauthausen. Senza scampo.
Ma si trovava nella mia Austria.
Per quello preparai la fuga. Come è andata lo sapete. Liberato, sono arrivato a casa. Ora occupata da altri.
La custode mi ha appena detto che mamma Tini e mia sorella Herta sono morte nel campo di Minsk.
Quello che Fritz non sa ancora è che anche suo padre era giunto a Mauthausen. Non lo aveva mai incontrato e fu una gioia immensa poterlo riabbracciare quando anche lui tornò a casa qualche mese dopo.
Padre e figlio di nuovo insieme.
Un legame più forte della macchina dell’odio.
Forse vi state chiedendo del fratellino Kurt.
Si salvò.
Mamma Tini, grazie a un amico, era riuscita ad avere un permesso per farlo uscire dall’Austria.
Riuscirà ad arrivare negli Stati Uniti, e poi adottato da una famiglia americana.
Gustav Kleinmann è morto nel 1976, all'età di 84 anni.
Suo figlio, Fritz ha trovato la forza di tornare a visitare il campo di concentramento di Auschwitz solo nel 1980.
E’ morto nel 2009 all'età di 85 anni.
Fritz, “Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz “.
“Quando il sangue ebreo gocciola dal coltello, noi cantiamo e ridiamo” cantavano i nazisti.
Finché avrò fiato continuerò a raccontare le storie di uomini e donne che sono sopravvissuti ai campi di concentramento.
Il loro passato non sia mai il futuro di qualcuno.
Mai più.
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Durante il Fascismo la fotografia è stata un importante veicolo propagandistico della dittatura.
L’immagine del Duce era ovunque.
Nelle città e nelle campagne, funzionando come un messaggio pubblicitario.
Nel 1924 venne creato l’Istituto Luce.
Un’organizzazione pubblica di informazione e propaganda attraverso le immagini.
Malgrado l’Istituto avesse a disposizione un numero vastissimo di foto, solo alcuni tipi di fotografie venivano pubblicate.
Quelle che servivano alla causa.
Le fotografe dovevano rispettare alcune regole.
Il Duce doveva presentarsi come figura carismatica, un modello che tutti gli italiani dovevano imitare. Inquadrato sempre dal basso.
Lo sguardo pensieroso, ma acuto e profondo.
Il suo corpo apparire virile.
Ricordo che era l’inizio di marzo del 1942.
Fu passeggiando per il paese che vedemmo quel manifesto incollato sui muri delle case.
Invitava, o meglio, ordinava a tutte le ragazze di andare a scuola il 20 marzo per un lavoro. Già, eravamo ebrei e a scuola mica ci potevamo andare
Tutto era cominciato anni prima, quando i tedeschi avevano annesso il nostro Paese, la Slovacchia.
Fu in quel momento che avevano cominciato a perseguitare noi ebrei.
Niente scuola e istruzione sopra i 14 anni.
Pensate.
Ci impedivano persino di avere dei gatti in casa.
Avevo 17 anni quando lessi quel manifesto.
Parlava di ragazze dai 16 ai 36 anni, nubili.
Ricordo che mamma Henna non voleva perdere me e mia sorella Lea di 19 anni per un non meglio identificato “contratto per tre mesi in una fabbrica per produrre stivali per le truppe”.
Definirmi una copia è mancarmi di rispetto.
Io sono unica.
E oltretutto più umana, più bella, più hermosa insomma.
Giudicherete voi.
Comunque è stato appurato che siamo nate più o meno nello stesso periodo.
Sì, quasi gemelle.
Quasi gemelle, ma non proprio uguali.
Lei è un centimetro in più in altezza e quattro centimetri in meno in larghezza.
Forse per il fatto che abbiamo due padri diversi.
Il mio molto più giovane.
Probabilmente un allievo dell’altro, il suo maestro.
Siamo nate entrambe tra il 1503 e il 1504 a Firenze.
Lei più sfumata.
Io più semplice, più compatta.
Come detto, da padri diversi.
Forse sotto la supervisione del maestro.
Quel che è certo è che i miei colori sono più nitidi.
Me lo ricordo bene quel 5 maggio 1938.
Era una bella giornata di sole.
Ai lati di Via Caracciolo, sul lungomare, c’era un sacco di gente in attesa del suo passaggio.
Ad un tratto l’auto scoperta avanzò tra le due ali di folla e lui, il Fuhrer, si alzò in piedi.
Ricordo ancor meglio la voce di uno sconosciuto che ruppe il silenzio della cerimonia, quando Hitler tese il braccio nel classico saluto nazista.
“Sta verenn’ si for’ chiove” (sta controllando se fuori piove)”.
E la gente scoppiò in una fragorosa risata.
Perché noi napoletani, in quanto a ironia e capacità di non prenderci troppo sul serio, non ci batte nessuno. Non solo.
Ditemi voi dove Mussolini, definito ‘nu pagliaccio“ dal Vate, poteva farsi fotografare con una rosa in bocca, se non davanti al mare di Napoli.
Gli amanti del calcio, e non solo, hanno visto Cristiano Ronaldo segnare ieri la rete numero 807 superando un record che un calciatore deteneva, per gli elenchi Fifa, da tanto, tantissimo tempo.
Come lo so?
Mettetevi comodi, perché sarà una lunga storia.
La mia storia.
Si racconta che quell’anno fossero tutti nella mia città. A Vienna nel 1913, intendo.
Tito, Hitler, Stalin, Freud e Trockij.
CI arrivai anch’io quell’anno.
Il 25 settembre per la precisione.
Facendo la felicità di mamma Ludmila e di papà Frantisek.
I casi della vita.
Papà era tornato dalla Prima Guerra Mondiale sano e salvo.
Giocava nell’Herta Vienna quando subì un colpo ai reni durante uno scontro di gioco.
Rifiutò di farsi operare.
Lui aveva 30 anni quando morì. Io solo otto.
Un po’ di nervosismo mi è passato.
Ieri sera ero a una cena d’addio, all’Hotel Aviz a Lisbona organizzata da un amico, il capitano Tavares de Almeida.
E una veggente non viene a parlarmi di una sciagura imminente?
Cavolo, lo sanno tutti che noi attori siamo superstiziosi.
Però mi è passata. Siamo in volo.
Sono le ore 12.00 del primo giugno 1943 e stiamo per sorvolare il Golfo di Biscaglia.
Sono partito questa mattina dall’aeroporto di Portela con un bimotore di linea Douglas DC-3.
Denominato Ibis.
E sono diretto a Londra.
Con me ci sono i sue piloti, il radiotelegrafista, la hostess e oltre a me, altri 12 passeggeri.
Tra questi il mio impresario Alfred Chenhalis. Un bel tipo. Avendo una straordinaria somiglianza con Churchill, lo imita in tutto. Nei modi, nella camminata con un sigaro in bocca.