Infatti quando abbandonai l’Università andai a Honolulu per giocare a football con la squadra semiprofessionista degli Honolulu Bears.
Fui il primo atleta a qualificarmi in quattro sport (baseball, football, basket e corsa su pista).
Fu lì che incontrai la mia futura moglie, Rachel Islam.
Naturalmente fui assolto da quella “tremenda accusa” perché sugli autobus militari non vigeva l'obbligo di separazione tra neri e bianchi come su quelli civili.
Se volevi giocare nel baseball professionale, ed eri nero, quello solo potevi fare. Dal 1890, per le leggi di Jim Crow, il baseball professionale era “white only”
Rickey Branch, presidente e manager dei Brooklyn Dodgers, al grido di “Il baseball è bianco, gli spettatori sono neri, ma i soldi sono verdi”, mi chiamò per giocare nella sua squadra.
Nel 1946 nella Major League Baseball giocavano 400 atleti, tutti bianchi.
A parte il mio allenatore, Leo Durocher, nessuno mi voleva.
“Ma come, noi bianchi non giochiamo coi neri dal 1890 e questo vuole giocare con noi?"
Non voleva solo doti atletiche, Josh Gibson era più bravo di me.
No, lui voleva un nero capace di resistere alle manifestazioni di razzismo fuori e dentro il campo.
«Sto cercando un giocatore nero con abbastanza coraggio da non reagire» mi disse.
Mi mise alla prova facendomi giocare prima nei Montreal Royals, squadra affiliata ai Dodgers.
“Negro negro negro negro negro” mi urlavano continuamente.
E non era un complimento.
E non è solo per quei numeri che il 42, il suo numero, è l'unico numero ritirato d'ufficio per tutte le squadre di Major League. Tutte.
Ma con una eccezione.