Una più forte integrazione europea per creare opportunità, vincoli e controlli a tutela dei cittadini - arginando lo strapotere di cricche e cordate interne - era il principale motivo di favore con cui gli italiani guardavano alla #UE.
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L’idea che l’Italia sarebbe stata governata un po’ più come Finlandia o Germania e un po’ meno come Botswana o Kazakistan sembrava - strano eh!? - preferibile ad una larga parte dei nostri concittadini, stanchi di ruberie, inefficienza e incapacità.
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Poi, grazie ad una paziente opera di rimbecillimento, è tornato in auge il nazionalismo del “decidiamo noi a casa nostra!”, il cui vero significato è: “le regole europee non le reggiamo; le riforme non le vogliamo fare; gli appalti li vogliamo dare agli amici;
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la concorrenza ci va bene finché si tratta di usarla come slogan ma nella realtà vogliamo corporazioni intoccabili con invalicabili barriere all’ingresso; il debito pubblico ci piace alto e crescente perché del doman ci frega un tubo; l’evasione fiscale è un diritto;
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quindi, cara Europa, se ci lasci vivere gestendo tutto a culo come abbiamo sempre fatto rimarremo amici, ma se fai sul serio e pensi che ci adegueremo a regole, vincoli e trasparenze che sono contro la nostra indole, ti odieremo”.
Per un po’ di anni i campioni di questo
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Per un po’ di anni i campioni di questo
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discorso sono state le destre, sempre più sovraniste e fascistoidi. Poi il virus si è diffuso in tutto il corpo elettorale: dapprima con il populismo venezuelano grillino, ora con l’infezione sempre più inquietante dentro il PD.
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In sintesi, una parte consistente e credo ormai maggioritaria dell’Italia è incline, se non proprio determinata, a diventare una penisola povera e indebitata che vaga per il Mediterraneo piuttosto che adeguarsi per il suo stesso bene a standard più alti.
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