Francesi e belgi fanno a gara per indicarmi come il loro massimo jazzista.
Volete sapere la verità?
Io appartengo all’intera Europa.
E come potrebbe essere diversamente per un “sinti”, membro della popolazione zigana che scorazza libera in Europa da centinaia di anni?
Sì, sono considerato il fondatore del jazz europeo malgrado appartenga ad un popolo perseguitato.
Perseguitato sì, ma libero e orgoglioso.
Quando nacqui, nel 1910, la roulotte dei miei genitori si trovava in Belgio, nel paesino di Liberchies.
Un puro caso.
Ben presto ci spostammo in Francia.
E’ lì che sono cresciuto.
Mia madre era una danzatrice zingara Manouche e mio padre, Jean-Eugène Weiss, suonava, intrecciava panieri e aggiustava strumenti. Anch'io avevo una dote. Ero portato per la musica e suonavo il banjo in modo divino.
Almeno fino a diciotto anni.
Quando la roulotte dove vivevo con mia moglie prese fuoco.
Sapete, cose che capitano a noi “zingari”.
Come può capitare in un incendio di perdere l’uso di due dita della mano sinistra, l’anulare e il mignolo.
Come accadde a me.
Voi vi sareste arresi?
Basta musica e basta suonare strumenti?
Non io.
Certo, il banjo era difficile da suonare senza l’uso di due dita e così ripiegai sulla chitarra.
Avevo più possibilità con quella menomazione.
Dimenticavo.
Mi chiamo Jean Reinhardt, almeno all’anagrafe.
Anche se per tutti diventai presto Django, Django Reinhardt. Avete mai ascoltato jazz?
Rimasi sbalordito quando, all’inizio degli anni Trenta, ascoltai i primi dischi che arrivavano da oltre Atlantico
Sapete cosa pensa la gente di noi sinti, vero?
Beh, anche la critica fece lo stesso con la mia musica. Dicevano che il jazz era roba da americani. Che lo avevano inventato loro. Io invece ero europeo. E pure sinti. Dissero della mia musica che era “un incidente". Pure pittoresco
Però alla fine di quegli anni tutti i grandi solisti americani mi chiesero non solo di suonare con loro, ma anche di incidere dischi.
Che avevo fatto di così straordinario?
Avevo fuso il jazz, l’idea afroamericana dell’improvvisazione, con la musica gitana.
A metà degli anni trenta, insieme al grande violinista Stéphane Grappellì (in realtà si chiamava Stefano Grappelli di origini italiane), formammo un quintetto di soli strumenti a corda.
Le Quintette du Hot Club de France.
Diventammo famosi in tutto il mondo.
Eravamo il primo più importante gruppo jazz non americano.
Eravamo a Londra allo scoppio della seconda guerra mondiale. Incurante delle persecuzioni razziali nei confronti dei sinti, io tornai a Parigi.
Mi salvò l’amore segreto di qualche gerarca nazista per il jazz (proibito).
Chi mi ha conosciuto mi ha definito arrogante, diffidente, ombroso, un disadattato.
Capita a noi gitani di essere definiti in questo modo.
Stupido sicuramente, perché, vista l’ostilità verso i medici (avevo paura delle iniezioni) non mi curai per quei continui mal di testa.
Mi è costata la vita quella mia fissa.
Infatti sono morto per un’emorragia cerebrale a soli quarantatré anni.
Ma dopo l’incendio i medici volevano amputarmi al mano per paura della cancrena. E io mi ero rifiutato.
Comunque, una cosa vi voglio dire.
Niente può farvi abbandonare un sogno.
Volevo suonare, anche senza due dita, unite e semi-atrofizzate.
Impiegai anni per portare sopra la tastiera anulare e mignolo, per integrare le parti ritmiche sulle prime due corde.
Il mio stile oggi è acclamato dai musicisti di tutti i generi come geniale ed innovativo.
Ma volete sapere una cosa?
Mai saputo, né leggere né scrivere uno spartito.
Ed ero completamente analfabeta. Per firmare autografi chiesi a Grappelli di insegnarmi a scrivere il mio nome.
Un giorno sentii in albergo i miei amici de “Le Quintette du Hot Club de France” discutere di scale musicali.
Mi chiesero un parere.
Risposi: "Scusate, cos’è una scala?”
Io, uno dei massimi chitarristi della storia del jazz.
Niente male per uno "zingaro", vero?
Ho dedicato la mia vita alla cura del cervello.
E per un paradossale scherzo del destino ho chiuso la mia vita il 3 marzo 2018 muovendomi a fatica, rallentato da tempo dal Morbo di Parkinson.
Orgoglioso del premio conferitomi dall’Accademia americana di neurologia.
In verità non ho mai smesso di “correre”, portando i miei quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra.
Perché correre mi era servito a cambiare un’epoca.
A dimostrare al mondo che “il cervello, se si mette correre, è imbattibile”.
Sono nato ad Harrow, in Inghilterra.
Dopo la scuola elementare ho continuato la mia formazione alla City of Bath Boys School e alla University College School di Londra.
La mia era una famiglia di lavoratori e io volevo studiare medicina.
Impossibile, visti i costi.
Oggi, 3 gennaio 1942, si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti e sono stati assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
E' l'8 novembre 1942.
L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
Cinque giorni dopo, l’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal.
E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Durante il Fascismo la fotografia è stata un importante veicolo propagandistico della dittatura.
L’immagine del Duce era ovunque.
Nelle città e nelle campagne, funzionando come un messaggio pubblicitario.
Nel 1924 venne creato l’Istituto Luce.
Un’organizzazione pubblica di informazione e propaganda attraverso le immagini.
Malgrado l’Istituto avesse a disposizione un numero vastissimo di foto, solo alcuni tipi di fotografie venivano pubblicate.
Quelle che servivano alla causa.
Le fotografe dovevano rispettare alcune regole.
Il Duce doveva presentarsi come figura carismatica, un modello che tutti gli italiani dovevano imitare. Inquadrato sempre dal basso.
Lo sguardo pensieroso, ma acuto e profondo.
Il suo corpo apparire virile.
"Che Dio ti protegga", disse papà mentre scappavo dal quel vagone.
Mi aveva implorato di mettermi in salvo, lui troppo stanco e stremato per potermi seguire.
Il mio tentativo di fuga però era fallito ed ero finito a Mauthausen, prima di essere liberato.
Sto tornando a casa.
Mi chiamo Fritz Kleinmann e sette anni fa, quando tutto era cominciato, di anni ne avevo quindici. Vivevamo a Vienna.
Io, papà Gustav maestro tappezziere, mamma Tini, il mio fratellino Kurt e le mie sorelle Edith e Herta.
Felici, quando nel 1938…
Tutto cambiò per noi ebrei.
Con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e a causa delle famigerate leggi di Norimberga, venimmo privati della cittadinanza.
Fui espulso dalla scuola e il mio sogno di diventare tappezziere come mio padre svanì.
Ricordo che era l’inizio di marzo del 1942.
Fu passeggiando per il paese che vedemmo quel manifesto incollato sui muri delle case.
Invitava, o meglio, ordinava a tutte le ragazze di andare a scuola il 20 marzo per un lavoro. Già, eravamo ebrei e a scuola mica ci potevamo andare
Tutto era cominciato anni prima, quando i tedeschi avevano annesso il nostro Paese, la Slovacchia.
Fu in quel momento che avevano cominciato a perseguitare noi ebrei.
Niente scuola e istruzione sopra i 14 anni.
Pensate.
Ci impedivano persino di avere dei gatti in casa.
Avevo 17 anni quando lessi quel manifesto.
Parlava di ragazze dai 16 ai 36 anni, nubili.
Ricordo che mamma Henna non voleva perdere me e mia sorella Lea di 19 anni per un non meglio identificato “contratto per tre mesi in una fabbrica per produrre stivali per le truppe”.
Definirmi una copia è mancarmi di rispetto.
Io sono unica.
E oltretutto più umana, più bella, più hermosa insomma.
Giudicherete voi.
Comunque è stato appurato che siamo nate più o meno nello stesso periodo.
Sì, quasi gemelle.
Quasi gemelle, ma non proprio uguali.
Lei è un centimetro in più in altezza e quattro centimetri in meno in larghezza.
Forse per il fatto che abbiamo due padri diversi.
Il mio molto più giovane.
Probabilmente un allievo dell’altro, il suo maestro.
Siamo nate entrambe tra il 1503 e il 1504 a Firenze.
Lei più sfumata.
Io più semplice, più compatta.
Come detto, da padri diversi.
Forse sotto la supervisione del maestro.
Quel che è certo è che i miei colori sono più nitidi.