Diario di bordo, 8 marzo 1943.
Siamo appena stati colpiti dalle bombe di profondità lanciate da un aereo americano, un PBY Catilina, e ci stiamo inabissando.
I miei uomini hanno giurato da tempo di seguirmi fino in capo al mondo.
E’ ciò che sta accadendo.
E mi dispiace.
La guerra è qualcosa di crudele, come mai avrei immaginato, dopo quello che successe quel giorno.
Da allora sono cambiato.
Non sono più il comandante di un tempo, cinico e spietato.
Mi chiamo Werner Hartenstein, comandante del sommergibile tedesco U-156.
Mi chiedo se ne sia valsa la pena.
Morire a soli 35 anni, intendo.
Come ho fatto a non capirlo prima.
Perché c’è voluto quel maledetto giorno per farmi capire quanto sia assurda la guerra.
Abbiamo aria a sufficienza per potervi raccontare quel giorno nefasto.
Ritengo però doveroso partire dall’inizio.
Sono nato il 27 febbraio 1908 a Plauen nel Vogtland, nel Regno di Sassonia.
Dopo la laurea avevo fatto domanda di entrare nella marina, ma mi avevano scartato.
Studiai anche giurisprudenza, sempre con quel sogno.
Nel 1928 finalmente accolsero la mia richiesta.
Molti i corsi di formazione.
Quando lui andò al potere, nel 1933, pensò di riarmare la marina tedesca.
Nel 1935 la Reichsmarine venne ribattezzata Kriegsmarine.
Iniziai come ufficiale di guardia sulla torpediniera Greif.
Mi trovavo su una torpediniera anche allo scoppio della guerra.
E feci un ottimo lavoro, tanto da meritarmi la Croce tedesca in oro (Deutsches Kreuz in Gold) il 2 febbraio 1942.
Fu lo stesso Karl Dönitz ad appuntarmela sul petto. Un grandissimo onore.
Per farla breve, in seguito venni assegnato, per meriti, al comando del sommergibile U-156, U-boot Tipo IXC. Ero un giovane capitano di corvetta di 34 anni quando presi quella decisione. Sei mesi fa.
Esattamente alle ore 20 del 12 settembre 1942.
Ricordo che accompagnai quell’ordine con un “Buon appetito, signori inglesi”.
Convinto di aver preso la decisione giusta.
Avevo avvistato quella grande nave inglese mentre avanzava zig-zagando e a luci spente. Era quindi una nave che trasportava truppe. Inglese lo era per certo
Eravamo nei pressi dell’isola di Ascensione, Africa Occidentale.
Ne lanciai due. Di siluri, intendo.
A segno entrambi.
Uno dritto nel centro e uno nella parte posteriore. La nave inglese iniziò a imbarcare acqua e ad affondare. Esultai.
Senza sapere cosa diavolo avevo fatto.
Quella nave era il Laconia e non trasportava militari inglesi. A bordo c’erano, come passeggeri, decine di ufficiali inglesi con mogli e bambini che rientravano da Suez in Gran Bretagna.
E un gruppo di guardie polacche con funzioni di sicurezza.
Circa 900 persone.
Vi giuro che non sapevo che nelle stive c’erano stipati all’inverosimile 1.800 prigionieri.
Non sapevo che erano rinchiusi tra solidi cancelli metallici. Insomma.
Ancora non sapevo di aver affondato, senza saperlo, un transatlantico che trasportava prigionieri di guerra.
Non sapevo nemmeno che il siluro al centro aveva spazzato via la stiva n.4, uccidendo sul colpo 450 di quei prigionieri.
Sentivo le urla di donne e bambini mentre la nave si stava inabissando, ma non le urla dei prigionieri bloccati dai cancelli.
Intrappolati come topi.
Le guardie polacche non volevano aprire i cancelli, ma mentre gli uomini delle prime file venivano schiacciati, i cancelli avevano ceduto. Un fiume di esseri umani si riversò sui ponti. Meglio morire all’aria aperta piuttosto che annegare. Ma niente posto per loro nelle scialuppe
Rudolph Sharp, il comandate del Laconia sapeva che sarebbe affondato con sua la nave. Per questo lanciò, non il classico SOS, ma un SSS. Avvisando che era stato affondato da un sottomarino.
Con le coordinate, per dare una posizione ad altri navi per il recupero dei sopravvissuti
Vidi molti uomini gettarsi in acqua.
Il mare non era mosso, ma avevano un problema ben più grave e pericoloso.
Le acque erano infatti infestate di pescecani.
Avevo lanciato i siluri stando in superficie per quello vidi immediatamente tutti quegli uomini gettarsi in mare.
Senza esitare lanciai i canotti di salvataggio.
“Aiuto! Aiuto!” urlarono i primi naufraghi presi a bordo. Italiani? Ma che ci fanno gli italiani su una nave inglese?
Le notizie del comando tedesco mi confermarono che il Laconia trasporta 1.800 prigionieri italiani. Alleati.
Solo allora compresi cosa avevo fatto. Diedi ordine di ripescare tutti gli uomini in mare.
Ma erano tutti feriti. Ai polpacci, ai talloni, alle natiche. Per quei maledetti pescecani.
E poi tutte quelle scialuppe con donne e bambini. Erano inglesi, ma non potevo lasciarli morire
Però dovevo anche pensare ai miei uomini.
Il Laconia aveva dato la sua posizione e potevano giungere altre navi inglesi.
Chiamai il Quartier Generale della Marina tedesca a Parigi per parlare con il vice ammiraglio Karl Donitz.
A lui chiesi istruzioni su come muovermi.
Mi sarei aspettato un “Li lasci al loro destino”.
Ma lui era prima di tutto un “marinaio” e non poteva lasciar morire in mare dei naufraghi.
Forse perché erano anche soldati di un Paese alleato? Forse.
Mi ordinò di rimanere sul posto e salvare il maggior numero di persone.
Non potevo certo imbarcare da solo centinaia di persone, per quello Donitz ordinò ad altri tre altri sottomarini di raggiungermi sul posto.
Si trattava dell’U-507 con al comando Harro Schacht, l’U-506 comandato da Erich Wundermann e l’U- 459 comandato da Georg von Wilamowitz.
Ma non sarebbe bastato a salvare tutti. Fu allora che feci quella proposta a Donitz. Gli chiesi di inoltrare una richiesta piuttosto inusuale, giustificata dalla drammaticità del momento. Ci potevano essere altre navi nelle vicinanze. Anche nemiche, che avrebbero potuto aiutarci.
Per quello gli chiesi di proporre “la neutralizzazione diplomatica del luogo dell’inabissamento”. Una sorta di “tregua” eccezionale per salvare tutti insieme, amici e nemici, il maggior numero di naufraghi.Purtroppo Donitz rifiutò. Aveva paura di un rifiuto da parte degli inglesi
Ma qualcosa fece lo stesso.
Contattò la Regia Marina Italiana dislocata a Bordeaux. Che attivò il sommergibile “Comandante Cappellini” con al comando il tenente di vascello Marco Revedin.
E poi il governo di Vicky.
Da Dakar partirono tre navi da guerra francesi per aiutarci.
Erano il Dumont d’Urville, l’Annamite e il Gloire. Finalmente il 15 settembre arrivarono a darmi una mano i tre U-Boot tedeschi e il Comandante Cappellini.
Potevamo ora procedere al meglio per mettere in salvo tutte quelle persone.
Finalmente.
Tirai un sospiro di sollievo.
Io, Werner Hartenstein, comandante del sommergibile U-156, pensai di aver fatto tutto il possibile per conciliare le esigenze della guerra con l’umanità richiesta dalle regole del mare. Non sapevo ancora quello che stava per accadere. Ma quel rumore era inconfondibile.
A domani.

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Mar 25
Ieri (leggete qui bit.ly/3qVzR95) vi ho raccontato dell’affondamento del transatlantico Laconia e del disperato tentativo di salvare tutte quelle persone disperate.
Sì, sono stato io ad affondarlo. Mi chiamo Werner Hartenstein, comandante del sommergibile tedesco U-156.
Ricordo che tirai un sospiro di sollievo. Certo, avevo affondato un transatlantico che trasportava prigionieri italiani, nostri Alleati, ma avevo fatto tutto il possibile per rimediare.
Il sollievo durò poco.
Perché, come vi ho raccontato, quel rumore era inconfondibile. Image
Il rumore di un bombardiere americano B-24 del tipo Libertador. Aveva ascoltato i messaggi radio che avevo inviato. Non sapevo che intenzione avesse. Sapeva che era in corso un’operazione di salvataggio? Avevo poco tempo. Feci stendere sul cannone del sommergibile una bandiera. Image
Read 21 tweets
Mar 23
Ho dedicato la mia vita alla cura del cervello.
E per un paradossale scherzo del destino ho chiuso la mia vita il 3 marzo 2018 muovendomi a fatica, rallentato da tempo dal Morbo di Parkinson.
Orgoglioso del premio conferitomi dall’Accademia americana di neurologia.
In verità non ho mai smesso di “correre”, portando i miei quattro figli ogni mattina a fare jogging al Kensington Gardens di Londra.
Perché correre mi era servito a cambiare un’epoca.
A dimostrare al mondo che “il cervello, se si mette correre, è imbattibile”.
Sono nato ad Harrow, in Inghilterra.
Dopo la scuola elementare ho continuato la mia formazione alla City of Bath Boys School e alla University College School di Londra.
La mia era una famiglia di lavoratori e io volevo studiare medicina.
Impossibile, visti i costi.
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Mar 22
Oggi, 3 gennaio 1942, si sono arruolati nella Marina degli Stati Uniti e sono stati assegnati all'incrociatore leggero USS Juneau (CL-52).
Sono George, Frank, Joe, Matt e Al.
Hanno tra i 20 e i 27 anni.
Sono cinque fratelli.
I cinque fratelli Sullivan.
E' l'8 novembre 1942.
L’incrociatore USS Juneau (CL-52), con a bordo i cinque fratelli Sullivan, è assegnato alla Task Force 69 (TF 69) come scorta antiaerea della portaerei USS Enterprise.
Sono salpati dalla Nuova Caledonia con un convoglio diretto a Guadalcanal.
Cinque giorni dopo, l’incrociatore USS Juneau è coinvolto nella prima battaglia navale di Guadalcanal.
E' incaricato di fermare una squadra giapponese diretta a bombardare l'aeroporto di Henderson Field a Guadalcanal.
Un siluro giapponese lo colpisce sul lato sinistro
Read 11 tweets
Mar 21
Francesi e belgi fanno a gara per indicarmi come il loro massimo jazzista.
Volete sapere la verità?
Io appartengo all’intera Europa.
E come potrebbe essere diversamente per un “sinti”, membro della popolazione zigana che scorazza libera in Europa da centinaia di anni?
Sì, sono considerato il fondatore del jazz europeo malgrado appartenga ad un popolo perseguitato.
Perseguitato sì, ma libero e orgoglioso.
Quando nacqui, nel 1910, la roulotte dei miei genitori si trovava in Belgio, nel paesino di Liberchies.
Un puro caso.
Ben presto ci spostammo in Francia.
E’ lì che sono cresciuto.
Mia madre era una danzatrice zingara Manouche e mio padre, Jean-Eugène Weiss, suonava, intrecciava panieri e aggiustava strumenti. Anch'io avevo una dote. Ero portato per la musica e suonavo il banjo in modo divino.
Read 16 tweets
Mar 20
Durante il Fascismo la fotografia è stata un importante veicolo propagandistico della dittatura.
L’immagine del Duce era ovunque.
Nelle città e nelle campagne, funzionando come un messaggio pubblicitario.
Nel 1924 venne creato l’Istituto Luce.
Un’organizzazione pubblica di informazione e propaganda attraverso le immagini.
Malgrado l’Istituto avesse a disposizione un numero vastissimo di foto, solo alcuni tipi di fotografie venivano pubblicate.
Quelle che servivano alla causa.
Le fotografe dovevano rispettare alcune regole.
Il Duce doveva presentarsi come figura carismatica, un modello che tutti gli italiani dovevano imitare. Inquadrato sempre dal basso.
Lo sguardo pensieroso, ma acuto e profondo.
Il suo corpo apparire virile.
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Mar 19
"Che Dio ti protegga", disse papà mentre scappavo dal quel vagone.
Mi aveva implorato di mettermi in salvo, lui troppo stanco e stremato per potermi seguire.
Il mio tentativo di fuga però era fallito ed ero finito a Mauthausen, prima di essere liberato.
Sto tornando a casa.
Mi chiamo Fritz Kleinmann e sette anni fa, quando tutto era cominciato, di anni ne avevo quindici. Vivevamo a Vienna.
Io, papà Gustav maestro tappezziere, mamma Tini, il mio fratellino Kurt e le mie sorelle Edith e Herta.
Felici, quando nel 1938…
Tutto cambiò per noi ebrei.
Con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e a causa delle famigerate leggi di Norimberga, venimmo privati della cittadinanza.
Fui espulso dalla scuola e il mio sogno di diventare tappezziere come mio padre svanì.
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