«Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma mentre io muoio per la Patria…».
Oggi, 29 marzo 1941, ho scritto un ultimo messaggio alla mia famiglia. Ho affidato poi il messaggio al mare dentro una bottiglia.
Povera mamma.
Mi chiamo Francesco. E sto per morire.
Ho solo il tempo di raccontarvi come siamo finiti in questo lembo del Mediterraneo Orientale. Imbarcato sul Fiume, incrociatore pesante della Regia Marina italiana classe Zara.
Lui, quello che ha fatto anche cose buone, era piuttosto contrariato per le continue delusioni e i ripetuti rovesci della nostra marina.
Prima la mazzata nella notte di Taranto dell’11 novembre del 1940. La Cavour quasi colata a picco e la Littorio e la C. Duilio danneggiate.
Poi la beffa del 9 febbraio 1941 con il bombardamento di Genova da parte della marina britannica. Proveniente da Gibilterra era arrivata a bombardare Genova senza esser intercettata.
Poi erano arrivate quelle pressioni dell’alleato tedesco per un nostro impegno nel Mediterraneo.
Sarebbero bastati pochi veloci incrociatori leggeri per assolvere quel compito.
Ma lui, come sempre, voleva fare le cose in grande. E così alle 21,30 di mercoledì 26 marzo 1941 l’ammiraglia Vittorio Veneto, completamente oscurata, lasciò il porto di Napoli.
Al largo, ad attendere la corazzata, quattordici cacciatorpediniere e otto incrociatori.
Tra cui il Fiume, dove ero imbarcato.
Tutti al comando dell’ammiraglio Angelo Iachino. Erano previsti anche 27 caccia della Luftwaffe. Più alcuni aerei italiani per le ricognizioni.
Le cose iniziarono nel peggiore dei modi. L’aviazione tedesca promessa non si fece viva. Di più. Supermarina, l'alto comando navale italiano, comunicò che la prevista ricognizione su Alessandria, dove era ancorata la Mediterranean Fleet, non era possibile causa maltempo.
Comandante in capo della Mediterranean Fleet britannica, forza navale inglese incaricata di controllare il Mediterraneo, era Andrew Browne Cunningham. Suo l’attacco notturno di aerosiluranti alla base navale di Taranto. Suo il bombardamento navale di Genova.
Nessuno dei due contendenti conosceva la forza dell’altro. E il 28 marzo eravamo maledettamente vicini. Fu un attimo per gli incrociatori inglesi trovarsi sotto il tiro dei nostri incrociatori, Trieste, Bolzano e Trento. Gli ordini erano chiari per entrambi gli schieramenti.
Ritirarsi in caso di avvistamento per portare le forze nemiche sotto il tiro delle corazzate. Così fecero gli inglesi. Non noi, che li inseguimmo. Tutto durò poco.
Iachino ordinò di tornare indietro e da inseguitori diventammo inseguiti.
Alle 11 gli inglesi giunsero sotto tiro della Vittorio Veneto nelle acque di Gaudo.
E per i quattro incrociatori inglesi le cose si misero piuttosto male.
Ma Cunningham disponeva di qualcosa che noi non avevamo. Una portaerei.
La Formidable. Con i suoi aerosiluranti.
Sei Albacore arrivarono sul luogo della battaglia alle 11,30. Scambiati per aerei italiani dagli inglesi (con relativo fuoco di sbarramento) e aerei amici dagli italiani essendo simili ai CR 42.
Volando a 9 metri di quota li riconoscemmo, costringendoli ad abbandonare i siluri.
In difficoltà e privi di appoggio aereo Iachino decise di rientrare alla base.
Eravamo più veloci degli inglesi, ma loro avevano sempre gli aerosiluranti. Cunningham non era disposto a mollare la presa. E alle 15,20 fummo attaccasti da tre Albacore, due Swordfish e alcuni caccia.
Il loro obiettivo? La Vittorio Veneto.
Che riuscì ad evitare due siluri. Non il terzo. 4.000 tonnellate d‘acqua irruppero attraverso lo squarcio. Macchine ferme e timone bloccato. Alle 16,45 riuscì a riprendere la rotta. Con velocità ridotta a 15 nodi.
Fu allora che Iachino ci chiese di proteggere l’ammiraglia. A qualunque costo. La Vittorio Veneto in mezzo e noi in formazione su cinque file. Noi del Fiume eravamo alla sua destra con lo Zara e il Pola.
Pensavamo di essere al sicuro. Non era così.
Gli inglesi erano molto vicini. Alle 19,30 arrivarono altri aerei inglesi. E alle 20,11 la notizia. Il Pola colpito da un siluro.
E immobile. Con gli inglesi che si stavano avvicinando, il Fiume (dove ero io), lo Zara, e 4 cacciatorpedinieri furono autorizzati a tornare indietro
L’intento era quello di soccorrere il Pola, ignorando quanto fossero vicini gli inglesi.
Era notte, e come prevedeva la nostra tattica di navigazione non avevamo nemmeno i cannoni in posizione di sparo.
Finimmo in una trappola.
Nelle acque di Capo Matapan.
In pochi secondi proiettili da circa una tonnellata si abbatterono sulla Zara.
E poi sul Fiume, la mia nave. Feci appena in tempo a scrivere quel messaggio affidandolo al mare. Anche l’Alfieri andò a fondo. E poi il Carducci. Erano le 2,40 del 29 marzo.
Alle 3,40 il Jervis inglese affiancò il Pola per prendere a bordo l’equipaggio italiano prima di affondare la nave. Trovarono molti marinai italiani mezzi nudi perché, pensando di affondare, si erano calati in acqua.
Salvo poi risalire sulla nave.
A terra molte bottiglie vuote.
Mentre la nostra flotta tornava verso la base, la flotta inglese iniziò le operazioni di salvataggio.
Erano le otto di mattina quando, dopo aver tratto in salvo 905 naufraghi italiani, gli inglesi furono costretti ad interrompere le operazioni per l’arrivo di aerei tedeschi.
«Questa la posizione. Inviate una nave ospedale» fu il messaggio inviato da Cunningham al Capo di S. M. della Marina italiana. Nel mare almeno tremila salvagenti rossi. Molti sorreggevano solo cadaveri. All’arrivo della nave ospedale Gradisca solo 150 marinai erano ancora in vita
La regia Marina italiana non era in grado di affrontare le altre marine del mondo.
Nessuna visione strategica. Niente strumenti indispensabili come il radar per combattere di notte. Niente portaerei, la cui costruzione era stata osteggiata dai vertici militari.
Ricordate Francesco e il suo messaggio alla famiglia affidato al mare dentro una bottiglia? Quella bottiglia fu ritrovata Il 10 agosto 1952, su una spiaggia nei pressi di Cagliari.
Al suo interno il messaggio scritto su un pezzo di tela, copertura di una mitragliatrice.
Questo il messaggio completo.
«R. Nave Fiume – Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti 1, Salerno. Grazie signori – Italia!»
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Grazie a Gabriella Greison per la prefazione. @GREISON_ANATOMY
Fisica, scrittrice, autrice e performer teatrale. Definita “la donna della fisica divulgativa italiana” e anche “la rockstar della fisica”.
Era il 1989. Porthos si chiamava. Il prima cane arrivato in famiglia. Si era ammalato subito e di quel periodo ricordo le flebo accanto al camino e le lacrime di mamma.
Per lui nessuna speranza. Non si arrese.
E’ vissuto con noi dodici anni, con mezzo rene funzionante.
Fu per merito suo. Il desiderio di entrare nel mondo dei cani abbandonati e maltrattati, intendo.
“Mi resi conto che passare del tempo con loro, o sottrarne qualcuno a una vita di sofferenze, mi rendeva straordinariamente felice”.
E così avevo cominciato a dedicare i miei sabati ai cani rinchiusi nel rifugio di Pieve Fissiraga, nei pressi di Lodi. E al lunedì raccontavo tutto ai miei colleghi d’ufficio.
Già. L’ufficio della Saatchi & Saatchi.
Una tra le più importanti agenzie pubblicitarie.
Non potevo mancare. Come al funerale di tuo marito. Sapevi che solo le formiche e gli uomini seppelliscono i loro morti? Non ho nemmeno ascoltato le parole di conforto. In fondo non era solo il tuo funerale.
Era anche il mio. Ricordando la prima volta che ti avevo incontrata.
Ero rimasto incantato davanti a quel manifesto che reclamizzava la tua tournée.
Eri proprio tu. Ed era prevista una tappa anche ad Amburgo, la mia città. Finalmente avrei potuto ascoltarti. Ascoltare Clara. L’idolo della mia giovinezza. La pianista più ammirata in Europa.
Ed ero presente in quella sala gremita.
Ti confesso che non ricordo nemmeno quello hai suonato. Ero come in estasi. Le tue mani su quella tastiera del pianoforte creavano una musica celestiale. Non mi conoscevi ancora, ma immaginai tu stessi suonando per me.
“S'ode a destra uno squillo di tromba. A sinistra risponde uno squillo”.
E’ così che il Manzoni descrive l’inizio della battaglia di Maclodio nel secondo atto de “Il Conte di Carmagnola”.
Questi versi li conoscete bene, lo so.
Ma quanti di voi conoscono nei particolari la battaglia di Maclodio, una delle più importanti vittorie di terra della Serenissima?
Tranquilli, siete perdonati. Sui libri di storia la battaglia non è descritta nei particolari.
Con la precisione necessaria.
Eppure qualcuno l’ha descritta esattamente, per averla vissuta.
In una lettera del gennaio del 1428 che potete trovare nell’archivio comunale di Vicenza (non so ora, ma nel 1981 era ancora lì).
Una lettera indirizzata all’amico e maestro Guarino Veronese.
Oggi è il 16 marzo 2005. E sono stanca.
Ho nausea, vomito e diverse linee di febbre. Speriamo bene. E’ tutto il giorno che penso a lui, al dottor Matthew Lukwiya.
Non sono certo alla sua altezza.
Io sono solo pediatra presso l'ospedale di Uíge in Angola.
Invece nel 2000 il dottor Lukwiya era Dirigente Sanitario all’ Hospital Lacor, in Uganda. Quando la gente cominciò a morire per gravi emorragie interne, di una malattia misteriosa. E non era certo una bella cosa quell’usanza di lavare i morti.Contribuiva a diffondere la malattia
Fu lui a riconoscere la gravità della situazione e la facilità di trasmissione del virus.
Fu lui a ignorare le pratiche burocratiche e a far analizzare subito il sangue infetto.
Ebola, fu il risultato. E il suo impegno a isolare l’ospedale. A proteggere il personale medico.
Dicevano che ero troppo rumoroso e per un certo periodo nessun locale accettò gruppi con me alla batteria. Rumoroso lo ero, ma che volete, era normale per uno che a cinque anni batteva su lattine di caffè.
Non avevo mai preso lezioni, solo qualche consiglio da altri batteristi.
Quando la mia Pat rimase incinta del piccolo Jason ero andato a vivere con lei in una roulotte. Le avevo promesso di trovarmi un lavoro serio, ma io avevo un solo amore, le percussioni. I
Io, John Bonham, cercavo la mia idea di sound. E nessuno avrebbe potuto fermarmi.
Poi ero arrivato nel gruppo giusto e il primo grande successo, nel 1968.
Eravamo straordinari, tanto da registrare in sole trenta ore il nostro primo album.
Quella copertina, il disastro del LZ 129 Hindenburg, uno Zeppelin tedesco, fu in fondo lo specchio della mia vita.