Da gennaio a luglio di quest’anno, siamo nel 1572, mi daranno come ricompensa una “pensione” di due ducati al mese.
Il minimo dopo quello che ho fatto.
E soprattutto dopo quello che ho subito. Quando è successo? Pochi mesi fa. Una domenica. Esattamente il 7 ottobre 1571
Che successe quel giorno?
Dovreste saperlo. E’ su tutti i libri di storia.
Lo so, la storia è una materia da sempre mal digerita persino sui banchi di scuola. Tranquilli. Vi racconterò qualcosa io.
Lunghezza del thread permettendo.
Ricordo che quel giorno una lieve brezza increspava il mare.
E la più imponente flotta di galee che la cristianità fosse mai riuscita a mettere insieme, per combattere i turchi, avanzava controvento nel mar Ionio.
Era stato Papa Pio V a promuovere la coalizione cristiana, la Lega Santa.
Con i veneziani, c’erano le galee dei Viceregni di Napoli e Sicilia, dei Cavalieri di Malta, dei pontifici, dei genovesi, il Ducato di Savoia, d’Urbino, di Ferrara, di Mantova e del Granducato di Toscana.
Avevo 24 anni ed ero imbarcato sulla galea Marquesa. La coalizione era comandata dal giovane (24 anni) Don Juan de Austria (Don Giovanni d'Austria). Suo il centro della flotta (62 galee).
Il corno sinistro (53 galee) era comandato dall’ammiraglio veneziano Agostino Barbarigo.
Il corno destro (53 galee) comandato da Gianandrea Doria.
Era stato però il vecchio (75 anni) veneziano Sebastiano Venier a rompere gli indugi la notte precedente. A sollecitare, con il pontificio Marcantonio Colonna, un intervento contro i turchi. Si doveva partire. Alla svelta
Don Giovanni d'Austria aveva acconsentito. Avevamo fatto rotta verso il Golfo di Patrasso dove nella riva settentrionale si apre il piccolo golfo di Lepanto.
Fu lì che l’avvistammo.
La flotta turca del sultano Müezzinzade Alì Pascià, intendo. Era imponente.
280 legni e 750 cannoni contro le nostre 204 galee. Ma avevamo ben 1800 cannoni.
I turchi erano più numerosi come uomini, ma noi compensavamo con gli uomini ai remi. Loro avevano schiavi cristiani e no.
Noi gente pagata che ci poteva dare una mano durante lo scontro.
Che iniziò quando sulla Reale di Don Giovanni d’Austria venne issato uno stendardo verde. Seguito da un colpo a salve.
Prendere posizione fu complicato per tutti. Alcuni sbandamenti costrinsero Don Giovanni a lasciarsi andare a qualche “santa” imprecazione.
Don Giovanni si fece portare sotto la galea del veneziano Sebastiano Venier.
“Che si combatta” gli disse.
“E’ necessità e non si può far di manco” rispose il Venier.
Mentre le nostre 6 galeazze, al comando di Francesco Duodo, venivano trainate per il poco vento in posizione.
Già, la galeazza veneta, una vera fortezza galleggiante “inventata” dal senatore Giovanni Andrea Badoaro, aveva quel piccolo difetto. Era poco manovrabile in assenza di vento.
Nel caso doveva essere rimorchiata.
E così avevamo fatto.
Vidi che le galee turche erano simili alle nostre. Avevano solo il ponte più alto.
Un vantaggio quando sparavano da lontano. Una maggiore gittata a distanza.
Uno svantaggio se vicine alle nostre navi. Eventuali cannonate sarebbe passate alte, sulle nostre teste.
Tutto era pronto. Ricordate le 6 nostre galeazze trainate per mancanza di vento? Quel vento aveva spirato tutta la notte a favore delle vele turche. Poi si era calmato. Avevamo visto le loro vele afflosciarsi, venendo così a mancare un elemento a loro favore. E che elemento.
Andiamo veloci.
Quando le navi turche entrarono nel raggio d’azione, le nostre galeazze, posizionate davanti al resto della flotta, aprirono il fuoco.
E l’effetto sugli ottomani fu devastante.
Su ordine di Alì Pascià le galee turche continuarono ad avanzare, passando ai lati delle galeazze. Ma erano sprovviste di artiglierie laterali e per noi fu cosa facile mandarne a fondo alcune.
Con i loro uomini incatenati ai remi.
Alì Pascià vide subito al centro la “Reale” di Don Giovanni d’Austria. Ai lati le altre due capitane. La pontificia di Marco Antonio Colonna e a destra la veneziana di Sebastiano Venier.
Don Giovanni fece togliere lo sperone per facilitare l’arrembaggio.
Poi tentò di investire la galea di Alì Pascià. Quando le artiglierie iniziarono a sparare contemporaneamente, ci fu il cozzo.
Vennero lanciati i grappini d’arrembaggio per tenere unite le navi.
400 giannizzeri piombarono sulla prua della “Reale” di Spagna”.
Ma vennero respinti dagli archibugi dei sardi. Marco Antonio Colonna non poteva andare in aiuto perché arrembata dalla galea di Pertew. Verso la “Reale” si diresse allora Sebastiano Venier. Che venne immobilizzato da una piccola nave disarmata che si mise tra lui e la “Reale”.
Riuscì a liberarsi. Investendo la “Reale” turca. Ormai era battaglia vera.
Le frecce turche arrivavano a ondate.
I colpi dei nostri archibugi andavano continuamente a segno. E quando era possibile i cannoni (caricati con pezzi di piombo, rottami e catene) facevano il resto.
Non ho lo spazio per descriverw altro.
Vi dico solo che circa cinque ore dopo tutto era finito. La nostra coalizione aveva vinto.
Nella coalizione cristiana avevano combattuto il cavaliere spagnolo con il nobile italiano.
E poi il marinaio...
Con il soldato di terraferma. Il galeotto e l’ufficiale, il frate e l’avventuriero. Tutti uniti. Perché un nemico così potente, una battaglia così importante, si può vincere solo tutti insieme. Senza divisioni.
Non esiste alternativa. Dovreste saperlo.
Io ero imbarcato in una galea della riserva. Vidi morire il mio comandante, ma non mi tirai indietro. Due archibugiate mi ferirono al petto e una nella mano sinistra. Che rimase offesa (lo sarà per tutta la vita).
Per questo mi hanno dato come ricompensa una piccola pensione.
Immagino vogliate sapere il mio nome.
E’ presto detto. Mi chiamo Miguel de Cervantes Saavedra, noto in Spagna come “el manco di Lepanto”.
Sì, proprio quel Cervantes, che nel 1605, all’età di 57 anni, pubblicherà il romanzo “Don Chisciotte della Mancia”.
Un’ultima cosa. L’unico comandante della flotta turca che riuscì a salvarsi si chiamava Uluç Alì Pascià. Alla nascita Giovanni (o Luca) Dionigi Galeni. Nato in provincia di Crotone. Calabrese, insomma. Faceva il pescatore quando nell’aprile 1536…
Vabbè, questa è un’altra storia
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Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro. Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi. E non sono le uniche stranezze. Colleziono libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno. Finché sono sveglio non hanno niente da temere. Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono? Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone di 102 mm.
Il 4 agosto 1578 per il Portogallo fu un giorno infausto.
Per il più grave lutto della sua storia.
Il giorno in cui lui era morto, intendo.
O meglio. Scomparso. Lui, Don Sebastiano I, 24 anni, fior fiore della nobiltà lusitana.
Sedicesimo re del Portogallo e dell'Algarve.
Sicuramente morto nella battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, contro l’esercito islamico del sultano Abd al-Malik.
Come poteva pensare di battere i 50.000 cavalieri del sultano con i suoi 20.000 uomini. Era stata una carneficina.
Il suo corpo? Mai ritrovato.
Dopo la sua morte era salito al trono il suo prozio, il cardinale Enrico.
Ma Sebastiano era troppo amato dal suo popolo.
Era nato così un movimento chiamato “sebastianismo “, che sperava nel ritorno del re scomparso.
Per riportare il Paese al suo antico splendore.
Siamo prossimi alla partenza del TT, il Tourist Trophy. Nessun straniero ha mai vinto, solo vittorie di motociclisti del Regno Unito.
Anche se la Guzzi, la mia moto, questa corsa l’ha già vinta due anni fa, nel 1935.
In due categorie. Ma non con un pilota italiano.
A vincere nella 250 e nella classe 500 su Guzzi era stato il pilota irlandese Stanley Woods. Correvo anch’io sulla stessa moto quell’anno, il 1935, ed ero anche favorito dopo aver stabilito nelle prove un incredibile 30’10” sul giro. Un vero record.
Ero per gli inglesi “The Black Devil” per il colore della mia tuta e per gli americani il “corridore atomico”.
Ci tenevo a vincere. Invece con la mia Guzzi 250 era finito in un banco di nebbia, un corvo in mezzo alla strada e relativa caduta.
Con due vertebre rotte.
Era stato il mio comandante, il capitano di corvetta Costantino Borsini, a dirmi di scendere nella zattera. Tanto ormai la nave era perduta.
Io avevo obbedito, avendo avuto assicurazioni dallo stesso comandante che mi avrebbe seguito.
Appena i marinai si fossero messi in salvo.
Era bella la mia nave. La Francesco Nullo, cacciatorpediniere della Regia Marina italiana. Bella e veloce. La più veloce della classe Sauro. Riusciva a raggiungere la velocità di 37,4 nodi. In attesa del comandante vi racconto come sono finito in questo angolo del Mar Rosso.
Mi chiamo Vincenzo Ciaravolo e sono nato a Torre del Greco il 21 novembre 1919.
Visto che oggi è il 21 ottobre 1940, fate voi i conti.
Non sono un semplice marinaio, ma attendente del capitano Borsini.
Sono stanco di arrivare secondo, ma cosa posso fare per cambiare le cose?
Ho tutto per vincere, esperienza e competenza. Non come quei tre.
Per la Targa Florio di quest'anno, il 1923, ci hanno affidato quattro Alfa Romeo “RL”.
Una a me, una ad Antonio Ascari (che tenero il suo piccolo Alberto), una all’amico Enzo Ferrari e una a Giulio Masetti.
La Targa Florio è una delle gare più prestigiose al mondo e l’Alfa Romeo ha bisogno un risultato importante.
Che posso fare per vincere?
Trovato.
Come dite? Ho studiato il tracciato in ogni minimo dettaglio? Analizzato i miei avversari e i loro punti deboli? Niente di tutto ciò.
Ho fatto qualcosa che, ne sono certo, mi porterà alla vittoria.
Strano che nessuno ci abbia mai pensato prima.
Definirmi una copia è mancarmi di rispetto.
Io sono unica. E oltretutto più umana, più bella, più hermosa insomma. Giudicherete voi. Comunque è stato appurato che siamo nate più o meno nello stesso periodo.
Sì, quasi gemelle.
Quasi gemelle, ma non proprio uguali uguali. Lei è un centimetro in più in altezza e quattro centimetri in meno in larghezza.
Forse per il fatto che abbiamo due padri diversi. Il mio molto più giovane.
Probabilmente un allievo dell’altro, il suo maestro.
Siamo nate entrambe tra il 1503 e il 1504 a Firenze. Lei più sfumata.
Io più semplice, più compatta.
Come detto, da padri diversi. Forse sotto la supervisione del maestro.
Fatto sta che i miei colori sono più nitidi.