Lui era il primo della classe, giusto così.
Giusto che la gente abbia pianto mio figlio solo per un giorno. E poi dimenticato.
Ma anche mio figlio aveva rincorso quel sogno, esattamente come lui.
Ed era riuscito a realizzarlo.
Anche se solo a trentaquattro anni.
Mi chiamo Rudolf e lui era mio figlio.
Quello dimenticato, intendo.
Mio figlio era nato a Salisburgo il 4 luglio 1960.
Già da piccolo ci diceva che da grande voleva fare il pilota di Formula 1.
Gli passerà, ripetevo a mia moglie cercando di tranquillizzarla.
A Roland non gli passò. Per niente.
Cominciò a costruire macchinine di legno, quelle a spinta. Era un bravo ragazzo.
Con quella grande passione. Ma noi avevamo pochi soldi e lui per guadagnare qualcosa aveva cominciato a lavorare in una panetteria.
Crescendo non ebbe nessun problema a prendere una laurea in ingegneria.
Sognando sempre di poter diventare un giorno un pilota di Formula 1.
Quel sogno non l’abbandonava mai.
Lui col suo sogno, io con la speranza che gli sarebbe passata
Una speranza vana.
E così i suoi primi passi con le auto da corsa. Fino ad arrivare a fare qualche gara in Germania nelle categorie minori.
Con qualche vittoria. Come nel 1983 in formula Ford sul circuito del Nürburgring. E poi, due anni dopo, a Brands Hatch.
Era riuscito a laurearsi vice campione di Formula 3, sapete? Ma lui sognava in grande. Voleva arrivare in Formula 1, ma non avevamo i soldi necessari.
Poi un giorno prese quella decisione.
Quando un suo amico pilota gli disse: “Hai stoffa, secondo me potresti arrivare in alto”.
Così aveva messo nel cassetto la sua laurea in ingegneria ed era partito.
In giro per il mondo. Facendo il meccanico. Lavorava anche di notte e quando aveva conosciuto quella ragazza le aveva promesso di sposarla solo quando fosse diventato un campione.
Lui ci aveva provato. Riuscendo a correre per ben cinque volte la 24 Ore di Le Mans.
Il miglior risultato? Un misero quinto posto. Che lo costrinse a cercare fortuna nel paese del Sol Levante.
E con le prime vittorie, i primi soldi.
Ma il tempo passava e il sogno della Formula 1 sempre più lontano.
Sì, la Jordan gli aveva offerto un contratto, ma servivano troppi soldi, che mio figlio non aveva.
Ricordo che stava per arrendersi, quando…
Fu la sua manager Barbara F. Belhau a trovare l’aiuto economico necessario.
Anche se solo per correre cinque gare in Formula 1.
Fu la Simtek, alla sua prima esperienza in Formula 1, a offrigli quel sedile.
Dovevate vedere quanto era felice
Anche se un po’ gli pesava di avere già 34 anni. Per questo spesso diceva. mentendo, di essere nato nel 1962.
Finalmente la prima gara. A Interlagos in Brasile. La macchina non era un granché e lui non riuscì a qualificarsi per la gara.
Andò meglio la gara successiva in Giappone. La qualificazione e poi la gara, con l’arrivo in undicesima posizione. Ultimo, ma strafelice, dopo aver visto il suo nome in tutte quelle statistiche.
Lui felice e mia moglie, sua madre, sempre più preoccupata.
“Mamma stai tranquilla, queste sono le auto più sicure che ci siano, in Giappone era molto più pericoloso” disse a mia moglie all’arrivo a Imola per correre il suo terzo gran Premio. Una settimana prima si era comprato finalmente un’auto nuova.
E' successo tutto quel giorno, sabato 30 aprile 1994, a Imola, durante le qualifiche del Gran Premio di San Marino. Non ho mai accusato nessuno per la morte di mio figlio.
La Simtek era una macchina fragile, è vero, ma lui stava facendo quello che più lo rendeva più felice.
Alle 13,16, la Simtek numero 32 di Roland Ratzenberge uscì di pista e si schiantò a 314 km/h contro il muro esterno della curva intitolata a Gilles Villeneuve provocandogli una frattura della base cranica. E poi la morte. Sette minuti dopo l'arrivo al pronto soccorso
“Quando ho visto la piega della sua testa, ho capito che era tutto finito. Ero alla tv e dovevo cercare il modo di dirlo a mia moglie che era in cucina”.
(Rudolf Ratzenberger, papà di Roland Ratzenberger. Suo figlio aveva realizzato il suo sogno. Ma era durato solo 37 giorni)
Meno di ventiquattr’ore dopo un altro pilota perderà la vita su quella stessa pista.
Lui, Ayrton Senna, il primo della classe.
Il primo e l’ultimo. Insieme.
La stessa età, lo stesso sogno. Uniti.
Con una cosa in comune.
La stessa immensa passione.
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Oggi è il 31 maggio 1975.
Sono in albergo e mi sto preparando per una tappa del Giro molto importante per la mia squadra, la Jollj Ceramica.
Oggi c'è la Cronoscalata del Ciocco con Battaglin, il mio capitano, in maglia rosa.
Io sono solo un suo gregario.
Quello di fare il gregario non era il sogno della mia vita.
Non lo é mai stato, fin dall’inizio, a dodici anni, quando per caso salii su una bicicletta da corsa. Troppo grande per un bambino dalle gambe come grissini.
E così un vigile mi aveva fermato ad un incrocio.
Imbranato, non ero riuscito a sganciare i pedali. Finire lungo disteso fu un attimo. Sono nato a San Vigilio di Concesio (BS) il 13 gennaio del 1949, ultimo di otto figli.
Perché Fausto? Il fratello di mio padre si chiamava Faustino. Inoltre papà era tifoso di Coppi.
“Ma sì, liberiamo il popolo romano da una preoccupazione incessante, visto che gli sembra troppo lungo aspettare la morte d’un vecchio”. Tra poco il veleno che ho nell’anello porrà fine alla mia vita. In fondo sono vissuto sessantaquattro anni. Non pochi.
Ma con un rimpianto.
Lo avevo detto al mio grande nemico durante quell’incontro a Rodi. L’incontro tra due veterani. Stavamo discutendo della nostra vita e delle nostre battaglie quando lui mi chiese quali fossero per me i tre migliori condottieri di tutti i tempi.
Risposi che al primo posto avrei Alessandro di Macedonia. Poi Pirro, il re dell’Epiro, e poi… me stesso. Lui aveva sgranato gli occhi esclamando: ”Tu al terzo posto? Ma allora? Se tu mi avessi vinto?”
“Beh in quel caso mi sarei messo al primo posto”.
Da gennaio a luglio di quest’anno, siamo nel 1572, mi daranno come ricompensa una “pensione” di due ducati al mese.
Il minimo dopo quello che ho fatto.
E soprattutto dopo quello che ho subito. Quando è successo? Pochi mesi fa. Una domenica. Esattamente il 7 ottobre 1571
Che successe quel giorno?
Dovreste saperlo. E’ su tutti i libri di storia.
Lo so, la storia è una materia da sempre mal digerita persino sui banchi di scuola. Tranquilli. Vi racconterò qualcosa io.
Lunghezza del thread permettendo.
Ricordo che quel giorno una lieve brezza increspava il mare.
E la più imponente flotta di galee che la cristianità fosse mai riuscita a mettere insieme, per combattere i turchi, avanzava controvento nel mar Ionio.
Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro. Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi. E non sono le uniche stranezze. Colleziono libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno. Finché sono sveglio non hanno niente da temere. Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono? Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone di 102 mm.
Il 4 agosto 1578 per il Portogallo fu un giorno infausto.
Per il più grave lutto della sua storia.
Il giorno in cui lui era morto, intendo.
O meglio. Scomparso. Lui, Don Sebastiano I, 24 anni, fior fiore della nobiltà lusitana.
Sedicesimo re del Portogallo e dell'Algarve.
Sicuramente morto nella battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, contro l’esercito islamico del sultano Abd al-Malik.
Come poteva pensare di battere i 50.000 cavalieri del sultano con i suoi 20.000 uomini. Era stata una carneficina.
Il suo corpo? Mai ritrovato.
Dopo la sua morte era salito al trono il suo prozio, il cardinale Enrico.
Ma Sebastiano era troppo amato dal suo popolo.
Era nato così un movimento chiamato “sebastianismo “, che sperava nel ritorno del re scomparso.
Per riportare il Paese al suo antico splendore.
Siamo prossimi alla partenza del TT, il Tourist Trophy. Nessun straniero ha mai vinto, solo vittorie di motociclisti del Regno Unito.
Anche se la Guzzi, la mia moto, questa corsa l’ha già vinta due anni fa, nel 1935.
In due categorie. Ma non con un pilota italiano.
A vincere nella 250 e nella classe 500 su Guzzi era stato il pilota irlandese Stanley Woods. Correvo anch’io sulla stessa moto quell’anno, il 1935, ed ero anche favorito dopo aver stabilito nelle prove un incredibile 30’10” sul giro. Un vero record.
Ero per gli inglesi “The Black Devil” per il colore della mia tuta e per gli americani il “corridore atomico”.
Ci tenevo a vincere. Invece con la mia Guzzi 250 era finito in un banco di nebbia, un corvo in mezzo alla strada e relativa caduta.
Con due vertebre rotte.