Giorni fa, alla fine del thread sulla battaglia di Lepanto, Johannes vi ha raccontato che solo uno dei comandanti della flotta turca riuscì a salvarsi. Si chiamava Uluç Alì Pascià, alla nascita Giovanni Dionigi Galeni.
Nato in provincia di Crotone. Calabrese.
Che poi sarei io.
Che ci faceva un calabrese al comando dell'ala sinistra dello schieramento ottomano?
Forse è il caso di raccontarvi la mia storia. Dall’inizio.
Sono nato a Le Castella, una frazione di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.
Johannes ha scritto giusto.
Alla nascita mi chiamavo Giovanni Dionigi Galeni, nato nel 1519 da papà Birno, che mi insegnò a leggere, a scrivere e andar per mare, e mamma Pippa De Cicco, una contadina.
Perché mi chiamavano “rognoso”?
Per via di una tigna sulla testa.
Il mio sogno? Entrare in convento.
E lo avrei fatto. Se non fosse successo quello che è successo.
Avevo diciassette anni quel giorno di aprile del 1536.
Mentre stavo pescando arrivò lui, il corsaro ottomano Khayr al-Dīn Barbarossa.
Dovete sapere che la Calabria a quei tempi era esposta alle razzie della pirateria turca.
Per questo avevamo l’abitudine di costruire i paesi sulle colline.
L’affaccio sul mare ci consentiva di vedere l’avvicinarsi delle vele nemiche, permettendoci così di metterci in salvo
Non tutti. Molti approfittavano proprio del passaggio delle navi corsare per farsi imbarcare.
I baroni e i potenti dell’epoca non garantivano nessun futuro ai giovani calabresi.
Tanto valeva affidarsi a stranieri, anche se con un’altra lingua e un’altra cultura.
Era il 29 aprile quando il Barbarossa assediò il castello. Durò poco, poi iniziò il saccheggio del paese. Barbarossa prese la via del ritorno con un misero bottino, compensato però da un bottino di uomini, donne e bambini.
Tra cui il sottoscritto.
Scalciare come un mulo non servì a niente. Ero un ragazzo di 17 anni e impiegarono poco per piegarmi.
Papà era stato ucciso durante l’assedio e io
non capivo cosa volessero da me.
Ero però convinto che non avrei più rivisto mamma. E la mia terra.
Barbarossa Dīn si diresse verso Costantinopoli con tanti sventurati da vendere nel più ricco mercato di schiavi.
Ci divisero per categoria.
Quella “pregiata”, con schiavi forti e belli.
E quella “meno pregiata”, tignosi e gracili. Tipo me, insomma.
Fu un corsaro chiamato Giafer a comprarmi. Mettendomi subito ai remi. E così per due anni subii maltrattamenti e frustate immerso nella malinconia per la mia terra.
Ero gracilino, ma ebbi la fortuna di dare dei consigli a Giafer.
Che cominciò a tenermi in grande considerazione.
Avevo vent’anni quando Giafer mi tolse dai remi per portarmi a casa sua.
Un bel progresso, via.
Non fosse stato per sua moglie.
Ero cristiano. Lei cercò in tutti i modi di convincermi a diventare musulmano.
Inutilmente.
Lo so, l’abiura aveva anche i suoi vantaggi. Niente più schiavo. Finalmente un uomo libero. Ma mamma era molto religiosa e sarebbe stato un tradimento anche nei suoi confronti.
Continuai a rifiutare.
Finché un giorno…
In casa c’erano altri due schiavi.
Un napoletano e un siciliano. Era un calvario ogni volta. Mi offendevano continuamente, mi sbeffeggiavano, invidiosi per la posizione privilegiata che avevo con i padroni. Sopportai per mesi quella vita d’inferno. Poi reagii.
All’ennesima provocazione colpii il napoletano con un pugno. Cadde, e colpendo uno spigolo morì all’istante. Finii in galera, in attesa della condanna a morte.
Quando la moglie di Giafer venne a trovarmi prospettandomi una via d’uscita.
Abbracciare la religione musulmana.
In quel caso, per aver ucciso un cristiano intendo, non esisteva punizione.
La faceva facile lei. Al momento dell’uccisione ero ancora cristiano. Resistetti. Per poco.
Ero giovane, e poi l’uccisione non era voluta.
E fu così che mi convertii all’Islam.
Un rinnegato, insomma.
Con un vantaggio immediato. Il turbante riusciva a coprire la mia tigna sulla testa.
La moglie di Giafer vinse su tutti i fronti visto che sposai anche sua figlia, Bracaduna.
Entrai così nel giro delle famiglie più in vista, riuscendo a ottenere la benevolenza del sultano Solimano. Ritrovarmi, nel 1554, al comando di due fuste fu un attimo. Incrociare una galea cristiana a due passi dalla Sardegna e catturare il mio primo bottino fu qualcosa di magico
Molte le incursioni sulle coste italiane, soprattutto nel Regno di Napoli.
Avrei voluto staccare la Calabria dai regni spagnoli per unirla ai domini turchi. Il sogno di un corsaro.
Ma anche un gentiluomo.
Emanuele Filiberto di Savoia era fermo nella rada di Villafranca.
Si prese un bello spavento quando mi vide arrivare. Si calmò quando gli chiesi solo di conoscere Margherita, sua moglie e sorella di Enrico II, re di Francia. Accettò. Rimasi deluso. (Anche perché gli presentarono una dama di compagnia spacciandola per Margherita. Muti. )
E così arrivò il 1571. E la battaglia di Lepanto. Considerato il miglior ammiraglio della flotta ottomana mi avevano affidato l’ala sinistra dello schieramento. Sapete com’è andata. Quello che forse non sapete, è che riportai in salvo una trentina di navi turche.
Non solo. Portai come trofeo la Capitana dei cavalieri di Malta. Venni trattato con tutti gli onori dal Sultano Selim II.
Per i miei meriti mi nominò ammiraglio della flotta turca.
Con l’incarico di ricostruirla. Ci riuscii. Continuando ad essere il terrore dei mari.
L’unico rimpianto? Mia madre. Non mi perdonò mai di aver rinnegato quel Dio che lei tanto amava.
Quando andai a trovarla, 26 anni dopo il rapimento, ricco e famoso, mi cacciò, con tutti i doni che le avevo portato.
(Non credete a questa storia. È una leggenda)
Sono morto nel 1587.
Abitavo in un palazzo sulla collina di Top-Hana. Lasciai tutto ai miei servitori che vivevano nel villaggio che avevo costruito, chiamato «Nova Calavria».
Ora conoscete la mia storia. La storia di Uluç Alì Pascià. O se preferite, di Uluosch-Alì, o Usciolì, o Ouloudi, o Aluccialì, o Locchialì, o Uluzzalì. Sì perché mi hanno chiamato in tutti i modi.
Quale preferisco? Chiamatemi Occhialì.
Se volete approfondire la storia di Occhialì, il calabrese, vi consiglio il libro di Enzo Ciconte. “Il grande ammiraglio. Storie e leggende del calabrese Occhialì, cristiano e rinnegato che divenne re”.
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Dottoressa in Medicina e Chirurgia con la votazione di 110 e lode accademica. WOW. Sono felicissima. Me lo sono meritato, dai.
Il percorso è stato difficile, ma quella sfilza di trenta e lode alla fine mi hanno fatta sentire orgogliosa di me stessa.
Ci sono tutti i miei cari nell'aula magna del rettorato dell'università di Messina.
Papà Enzo, mamma Cinzia, mia sorella Danila e i miei fratelli, Carmelo e Giuseppe, il piccolino, di sei anni.
E naturalmente la mia grandissima amica e collega Vittoria.
Ho sognato questo giorno fin da bambina.
Da piccola volevo diventare ginecologa, sapete? Dopo il liceo scientifico ad Agrigento avevo tentato per due anni i test per entrare a Medicina. Inutilmente. Ma io ero testarda.
E al terzo tentativo c’ero riuscita.
Lui era il primo della classe, giusto così.
Giusto che la gente abbia pianto mio figlio solo per un giorno. E poi dimenticato.
Ma anche mio figlio aveva rincorso quel sogno, esattamente come lui.
Ed era riuscito a realizzarlo.
Anche se solo a trentaquattro anni.
Mi chiamo Rudolf e lui era mio figlio.
Quello dimenticato, intendo.
Mio figlio era nato a Salisburgo il 4 luglio 1960.
Già da piccolo ci diceva che da grande voleva fare il pilota di Formula 1.
Gli passerà, ripetevo a mia moglie cercando di tranquillizzarla.
A Roland non gli passò. Per niente.
Cominciò a costruire macchinine di legno, quelle a spinta. Era un bravo ragazzo.
Con quella grande passione. Ma noi avevamo pochi soldi e lui per guadagnare qualcosa aveva cominciato a lavorare in una panetteria.
Oggi è il 31 maggio 1975.
Sono in albergo e mi sto preparando per una tappa del Giro molto importante per la mia squadra, la Jollj Ceramica.
Oggi c'è la Cronoscalata del Ciocco con Battaglin, il mio capitano, in maglia rosa.
Io sono solo un suo gregario.
Quello di fare il gregario non era il sogno della mia vita.
Non lo é mai stato, fin dall’inizio, a dodici anni, quando per caso salii su una bicicletta da corsa. Troppo grande per un bambino dalle gambe come grissini.
E così un vigile mi aveva fermato ad un incrocio.
Imbranato, non ero riuscito a sganciare i pedali. Finire lungo disteso fu un attimo. Sono nato a San Vigilio di Concesio (BS) il 13 gennaio del 1949, ultimo di otto figli.
Perché Fausto? Il fratello di mio padre si chiamava Faustino. Inoltre papà era tifoso di Coppi.
“Ma sì, liberiamo il popolo romano da una preoccupazione incessante, visto che gli sembra troppo lungo aspettare la morte d’un vecchio”. Tra poco il veleno che ho nell’anello porrà fine alla mia vita. In fondo sono vissuto sessantaquattro anni. Non pochi.
Ma con un rimpianto.
Lo avevo detto al mio grande nemico durante quell’incontro a Rodi. L’incontro tra due veterani. Stavamo discutendo della nostra vita e delle nostre battaglie quando lui mi chiese quali fossero per me i tre migliori condottieri di tutti i tempi.
Risposi che al primo posto avrei Alessandro di Macedonia. Poi Pirro, il re dell’Epiro, e poi… me stesso. Lui aveva sgranato gli occhi esclamando: ”Tu al terzo posto? Ma allora? Se tu mi avessi vinto?”
“Beh in quel caso mi sarei messo al primo posto”.
Da gennaio a luglio di quest’anno, siamo nel 1572, mi daranno come ricompensa una “pensione” di due ducati al mese.
Il minimo dopo quello che ho fatto.
E soprattutto dopo quello che ho subito. Quando è successo? Pochi mesi fa. Una domenica. Esattamente il 7 ottobre 1571
Che successe quel giorno?
Dovreste saperlo. E’ su tutti i libri di storia.
Lo so, la storia è una materia da sempre mal digerita persino sui banchi di scuola. Tranquilli. Vi racconterò qualcosa io.
Lunghezza del thread permettendo.
Ricordo che quel giorno una lieve brezza increspava il mare.
E la più imponente flotta di galee che la cristianità fosse mai riuscita a mettere insieme, per combattere i turchi, avanzava controvento nel mar Ionio.
Non hanno tutti i torti a chiamarmi “Mago Bakù”, il fachiro. Mangio pochissimo, dormo quasi niente, giro sempre seminudo e a piedi scalzi. E non sono le uniche stranezze. Colleziono libri antichi, amo la psicologia, la magia, l’ipnosi e le teorie di Freud.
I miei uomini lo sanno. Finché sono sveglio non hanno niente da temere. Per questo, come vi ho detto, dormo pochissimo.
Chi sono? Sono il comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina Italiana.
E oggi, 16 ottobre 1940, ho un problema.
Ieri alle 23.15 abbiamo incrociato a 800 miglia ad ovest di Casablanca il piroscafo Kabalo da 7.500 tonnellate, battente bandiera belga.
Lo so, non siamo in guerra con il Belgio, ma sappiamo che è stato noleggiato dalla marina inglese e armato con un cannone di 102 mm.