Sarà pure una leggenda, ma non mai ho fatto niente per smentire una così bella storia. “Diavolo rosso” mi chiamavano.
E proprio quella leggenda racconta che l’appellativo mi venne rifilato da un parroco.
Quando finii nel bel mezzo di una processione creando il panico.
“Chiellì a l’è al diaul!” "Quello lì é il Diavolo!" aveva urlato il prete quando mi aveva visto in sella alla mia bicicletta da corsa con una maglia rossa, tipo camicia garibaldina.
Il mio motto di allora?
Fare ciò che per gli altri era impossibile.
Mi chiamo Giovanni e sono nato ad Asti (Trincere) il 4 giugno 1885. Papà faceva l’oste. Da ragazzo ero abbastanza irrequieto, ma amavo una cosa sola, correre in bicicletta.
Riuscii a comprarne una lavorando in una bottega di armaiolo meccanico.
Trenta lire mi costò quella bicicletta.
Cominciai così a pedalare per chilometri. Anche sessanta, senza mai stancarmi.
Fu durante quei giri che incontrai quei ciclisti con un numero sulla schiena.
Fermi ad aspettare.
“Cosa state facendo?”, avevo chiesto. “E’ la corsa Torino-Rivoli e ritorno” .
L’iscrizione era cara, una lira, ma alla fine pagai. Col mio bel numero sulla schiena presi il via. Non feci nessuna fatica a stare con i primi.
Loro tutti giovanotti, io quindicenne.
Arrivai terzo.
Misi la medaglietta in un pezzo di carta e andai a casa.
“Mangiapane a tradimento”, sbraitò mio padre. Solo per aver corso in bicicletta.
Quando arrivai secondo nelle due gare successive mi guardai bene dal riferirgli la cosa.
Comprai pane e salame con i soldi ricavati dalla vendita delle medagliette.
Poi ad agosto la corsa Asti-Moncalieri e ritorno. Per 95 chilometri.
Che vinsi, naturalmente.
Dissi a mio padre di quella vittoria.
Ancora oggi non capisco perché mi cacciò di casa.
Arrivai a Milano con un fagottino con le mie cose e la mia inseparabile bicicletta mettendomi a fare il panettiere.
Continuando a correre. E a vincere. Malgrado tutto. Sì. perché ai miei tempi correre era un supplizio. Non solo per la bicicletta.
Era un attimo cadere. Per questo preferivo arrivare da solo al traguardo.
Come nella Coppa del Re per dilettanti vinta per due anni consecutivi. E poi la Milano-Genova del 1903. Avevo 18 anni.
E la settimana dopo la Milano-Torino.
Arrivai troppo presto al traguardo.
Non c’era nessuno ad aspettarmi.
Non avevano ancora montato nemmeno lo striscione dell'arrivo. Mi riparai dentro un’osteria. Fu una fortuna trovare un testimone da portare davanti alla giuria per confermare che io ero arrivato primo.
E da un bel pezzo.
Nel 1904 provai a correre la seconda edizione del Tour de France. Provai.
Perché senza automobile al seguito dei fanatici mi bastonarono rompendomi la bicicletta.
Per non parlare dei corridori francesi che mi sorpassavano seduti in automobile.
Uno vero scandalo.
Tornai in Italia continuando a vincere.
Poi arrivò il primo Giro di Lombardia del 1905. Una corsa di 230,5 km. Fuggii dopo una trentina di chilometri. Quando arrivai, naturalmente primo, si dovette aspettare oltre quaranta minuti per vedere arrivare il secondo. Ero un fulmine.
Nel 1907 vinsi tutte le gare. Quasi tutte. Quell’anno si erano inventati una corsa da Milano a Sanremo. Eravamo in 33 alla partenza nei pressi dell’osteria della Conca Fallata, lungo il Naviglio Pavese.
Non c’è molto da raccontare.
Le corse era battaglie a quei tempi.
Rimanemmo in tre alla fine. Io, il mio compagno di squadra Petit Breton e un altro francese, tale Garrigou della Peugeut.
Lui era troppo forte in volata.
Mi accordai con il mio compagno di squadra per dividere il premio.
E spinsi Garrigou nel fossato.
Mi classificarono terzo.
Io volevo sempre vincere. “Con le bone o con le cattive”.
E il Giro di Lombardia del 1907 fu un’occasione ghiotta. C’erano tutti i migliori francesi. E tutti i migliori al mondo. Un solo italiano poteva battere quegli stranieri scesi nelle nostre strade come terra di conquista.
Io, Giovanni Gerbi, di Asti. Vinsi naturalmente. Ventidue anni, e una forza da leone.
Non credete a tutte le sciocchezze che hanno scritto su quella corsa. Dopo avermi retrocesso all’ultimo posto mi squalificarono per due anni. Pena poi ridotta a sei mesi. Un’ingiustizia.
Ne hanno scritte di bugie su quella corsa. Secondo la giuria avevo ordinato di chiudere un passaggio a livello all’arrivo dei francesi. Poi che mi ero fatto trainare. Poi che avevo ordinato al mio gregario Chiodi, di spargere “chiodi” lungo il percorso. Tutto assurdo.
Assurdo, ma mi privarono di una vittoria ultra meritata. La giuria voleva farsi bella con i francesi.
Peccato che quando correvo in Francia le aggressioni, le manifestazioni, la semina di chiodi, persino gli spari, erano all’ordine del giorno pur di farmi perdere.
Per quello mi presentati negli uffici della Gazzetta dello Sport versando 5.000 lire. Volevo sfidare i francesi in quella stessa settimana, sulle stesse strade, a cronometro. Non se ne fece niente, perché i francesi scapparono a casa loro, in Francia. Fifoni.
Dopo sei mesi mi iscrissi alla Corsa Nazionale di 390 km.
I milanesi fecero il tifo per Ganna e Galetti. Contro di me. Ma vinsi lo stesso.
Una bosinada la chiamarono i cantastorie.
“Gana e Galeti hinn di brav curidurm ma se veden el Gerbi ghe ven el rafredur”.
Fu il mio modo di allenarmi a stroncarmi la carriera. Sempre esagerato. Per i 100 km al giorno, ma anche perché prima di ogni gara, nei giorni precedenti, correvo il percorso almeno 10 volte. (Percorse, nei giorni precedenti, 27 volte il Giro di Lombardia del 1905. Prima del via)
Mettere due mattoni sulla bicicletta durante gli allenamenti non fu nemmeno quella una bella idea. Esaurita la forza fisica mi rimase solo la classe a permettermi ancora qualche bella gara.
Come l’ultima impresa a Cascine di Firenze.
Stabilii il record mondiale delle 6 ore percorrendo 208 km e 161 metri. Media oraria 34 km e 696 metri. L’ennesimo limite mai raggiunto da altri. In fondo il mio motto era “Fare ciò che per gli altri è impossibile”.
Mi sono ritirato nel 1920.
Giovanni Gerbi tornò a correre nel 1926 al Giro d’Italia. Nel 1932, a 46 anni partecipò alla Milano–Sanremo. E a quasi 47 anni si iscrisse di nuovo al Giro d’Italia. Il ciclista più anziano di sempre.
L’ultima corsa vinta a 56 anni (per veterani).
E’ morto il 7 maggio 1954.
Vi ho detto che il "diavolo rosso" si iscrisse al Giro d’Italia a 47 anni. Finì presto fuori tempo massimo.
Lui proseguì da solo tutte le tappe.
Fino all'ultima.
Non c'era nessuno ad aspettarlo all'arrivo.
Solo sua moglie Giuseppina.
Con un mazzo di rose.
Rosse naturalmente.
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Aprile 1911.
Settimana scorsa ho mandato in stampa il mio libro. Per evitare una censura da parte delle autorità, dato il contenuto altamente accusatorio nei confronti del Governo italiano, ho cercato di darne ampia diffusione.
Il prefetto voleva impedirmelo.
“In riferimento alla legge 28 giugno 1906 n° 278 non è possibile impedire la diffusione del libro” gli aveva scritto il Procur. Generale. Meno male.
Ho inviato due copie anche al Re e Regina. So che il prefetto va in giro a dire che l’autore di quel “lurido libello” deve pagare.
28 maggio 1911. Ho ricevuto indietro le copie che avevo inviato al Re Vittorio Emanuele e alla Regina Elena. “Il Re vi ringrazia per il pensiero che avete avuto nell’inviare questa vostra opera, ma a Sua Maestà non interessa”. Speravo molto in loro. Di ottenere almeno giustizia.
Giorni fa, alla fine del thread sulla battaglia di Lepanto, Johannes vi ha raccontato che solo uno dei comandanti della flotta turca riuscì a salvarsi. Si chiamava Uluç Alì Pascià, alla nascita Giovanni Dionigi Galeni.
Nato in provincia di Crotone. Calabrese.
Che poi sarei io.
Che ci faceva un calabrese al comando dell'ala sinistra dello schieramento ottomano?
Forse è il caso di raccontarvi la mia storia. Dall’inizio.
Sono nato a Le Castella, una frazione di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.
Johannes ha scritto giusto.
Alla nascita mi chiamavo Giovanni Dionigi Galeni, nato nel 1519 da papà Birno, che mi insegnò a leggere, a scrivere e andar per mare, e mamma Pippa De Cicco, una contadina.
Perché mi chiamavano “rognoso”?
Per via di una tigna sulla testa.
Dottoressa in Medicina e Chirurgia con la votazione di 110 e lode accademica. WOW. Sono felicissima. Me lo sono meritato, dai.
Il percorso è stato difficile, ma quella sfilza di trenta e lode alla fine mi hanno fatta sentire orgogliosa di me stessa.
Ci sono tutti i miei cari nell'aula magna del rettorato dell'università di Messina.
Papà Enzo, mamma Cinzia, mia sorella Danila e i miei fratelli, Carmelo e Giuseppe, il piccolino, di sei anni.
E naturalmente la mia grandissima amica e collega Vittoria.
Ho sognato questo giorno fin da bambina.
Da piccola volevo diventare ginecologa, sapete? Dopo il liceo scientifico ad Agrigento avevo tentato per due anni i test per entrare a Medicina. Inutilmente. Ma io ero testarda.
E al terzo tentativo c’ero riuscita.
Lui era il primo della classe, giusto così.
Giusto che la gente abbia pianto mio figlio solo per un giorno. E poi dimenticato.
Ma anche mio figlio aveva rincorso quel sogno, esattamente come lui.
Ed era riuscito a realizzarlo.
Anche se solo a trentaquattro anni.
Mi chiamo Rudolf e lui era mio figlio.
Quello dimenticato, intendo.
Mio figlio era nato a Salisburgo il 4 luglio 1960.
Già da piccolo ci diceva che da grande voleva fare il pilota di Formula 1.
Gli passerà, ripetevo a mia moglie cercando di tranquillizzarla.
A Roland non gli passò. Per niente.
Cominciò a costruire macchinine di legno, quelle a spinta. Era un bravo ragazzo.
Con quella grande passione. Ma noi avevamo pochi soldi e lui per guadagnare qualcosa aveva cominciato a lavorare in una panetteria.
Oggi è il 31 maggio 1975.
Sono in albergo e mi sto preparando per una tappa del Giro molto importante per la mia squadra, la Jollj Ceramica.
Oggi c'è la Cronoscalata del Ciocco con Battaglin, il mio capitano, in maglia rosa.
Io sono solo un suo gregario.
Quello di fare il gregario non era il sogno della mia vita.
Non lo é mai stato, fin dall’inizio, a dodici anni, quando per caso salii su una bicicletta da corsa. Troppo grande per un bambino dalle gambe come grissini.
E così un vigile mi aveva fermato ad un incrocio.
Imbranato, non ero riuscito a sganciare i pedali. Finire lungo disteso fu un attimo. Sono nato a San Vigilio di Concesio (BS) il 13 gennaio del 1949, ultimo di otto figli.
Perché Fausto? Il fratello di mio padre si chiamava Faustino. Inoltre papà era tifoso di Coppi.
“Ma sì, liberiamo il popolo romano da una preoccupazione incessante, visto che gli sembra troppo lungo aspettare la morte d’un vecchio”. Tra poco il veleno che ho nell’anello porrà fine alla mia vita. In fondo sono vissuto sessantaquattro anni. Non pochi.
Ma con un rimpianto.
Lo avevo detto al mio grande nemico durante quell’incontro a Rodi. L’incontro tra due veterani. Stavamo discutendo della nostra vita e delle nostre battaglie quando lui mi chiese quali fossero per me i tre migliori condottieri di tutti i tempi.
Risposi che al primo posto avrei Alessandro di Macedonia. Poi Pirro, il re dell’Epiro, e poi… me stesso. Lui aveva sgranato gli occhi esclamando: ”Tu al terzo posto? Ma allora? Se tu mi avessi vinto?”
“Beh in quel caso mi sarei messo al primo posto”.