Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/2IpDy3y
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline. Con quei bei cannoni tutti neri. Il morale alto. Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli". Il primo sparo? Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer. Resistemmo fino all’impossibile. Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata. Un durissimo colpo. (Bragation morirà il 12 settembre)
Almeno così mi raccontavano.
Perché nel mentre io ero sprofondato nella mia poltrona cercando di far combaciare le linee sui disegni sulle mappe.
Lo stesso faceva Napoleone, mentre migliaia di nostri uomini morivano. Alla fine presi la decisione.
Mentendo inizialmente ai miei.
Mica potevo dire loro quello che avevo in mente. Che avevo deciso di ritirarmi, intendo. Le artiglierie nostre e francesi avevano sparato in totale 60.000 colpi.
Le nostre perdite contavano 38.500 morti e 50.000 feriti.
I francesi 30.000 tra cui 48 generali.
Scrissi a casa a mia moglie. “Mia cara, sono in buona salute, grazie a Dio, e ho vinto la battaglia con Bonaparte”.
So che Napoleone si arrabbiò parecchio quando i suoi gli dissero di aver catturato solo 800 russi.
Solo 800, perché gli altri avevano preferito morire.
Benningsen, al Consiglio di guerra del 13 settembre, mi domandò. “Difenderemo Mosca o pensi di abbandonarla al nemico?”. Risposi: “E tu pensi di attaccare Napoleone in una posizione che non dà nessuna garanzia di difesa? Meglio abbandonare Mosca e salvare l’esercito, non credi?”
Ordinai così la ritirata. Non mi importava del biasimo. Continuavo a pensare alle parole di Rumyantsev. “…non bisogna mai dare battaglia se non si è sicuri di vincere. Piuttosto arretrare, temporeggiare”.
E così feci.
C’era un tragico silenzio quando attraversai Mosca.
Non so chi appiccò quel pauroso incendio in città. Forse il governatore Rostopchin.
O forse fu accidentale, come scrisse qualcuno. Comunque ha ragione Johannes quando dice che in guerra non esiste un vincitore.
E’ vincere quando perdi migliaia di uomini?
E’ vincere?
No, non è vincere. Però le guerre vanno così purtroppo.
Andiamo avanti.
Dove eravamo rimasti? A Mosca è vero.
Era il 15 settembre 1812 quando Napoleone entrò in città col suo esercito. Tra migliaia di fuochi che stavano inghiottendo la mia città.
Dei 250.000 abitanti ne erano rimasti sì e no 15.000. Napoleone era euforico.
Pur riconoscendo a noi russi di essere una grande popolo.
Il giorno dopo, il 16 settembre, io cavalcavo verso Ryazan, nel giorno del mio compleanno. Del mio sessantasettesimo compleanno.
Certo di aver fatto la cosa giusta.
Lui invece, lo zar, era di diverso avviso.
Era furioso con me per aver abbandonato Mosca. “Quello stupido con un occhio solo” continuava a ripetere.
Venni a sapere che Napoleone invece era piuttosto imbronciato. E ne aveva ben donde.
Il Generale Wellington aveva ripreso Madrid ai francesi. Quella stessa notizia rese me euforico. Ora ne ero certo. Caro Napoleone, Mosca sarà la tua prigione, la tua tomba e la tomba del tuo esercito. Ormai lo hai capito anche tu che è dura vincere contro un esercito che arretra.
Lo capì. Inviandomi un emissario.
Napoleone può essere solo ingannato, ricordate? Chiamai il comandante dei cosacchi, Platov iniziando con lui una feroce lite (finta), minacciando di cacciarlo.
Il messo riferì a Napoleone che tra i russi regnava il caos.
Intanto il tempo passava. Mi riferirono di un Napoleone scalpitante.
Voleva accordarsi con me prima dell’arrivo di quel maledetto.
Sapeva che al suo arrivo sarebbe stato impossibile combattere a migliaia di chilometri da casa, in territorio ostile.
Mi mossi avanzando le mie truppe fino a trovarmi davanti le truppe di Murat.
Mi fermai per l’ennesima volta. Non mi interessava vincere una battaglia. Volevo di più. Era il 19 ottobre quando Napoleone lasciò Mosca.
Le sue truppe stavano per imparare il significato di “braccati”
Ero in una fattoria quando ricevetti la notizia. Napoleone aveva capito che il “Generale Inverno” sarebbe stato il mio migliore alleato. In quel momento capii che la Russia era salva. Ordinai proprio ai cosacchi di attaccare per primi. Per i francesi la ritirata fu terribile.
L’8 novembre sulla strada di Smolensk furono migliaia i soldati francesi morti. Oltre 10.000 i cavalli morti o moribondi.
Il 17 ordinai ai miei di attaccare la retroguardia di Ney.
“Un maresciallo di Francia non si arrende mai” disse. Fu una strage.
E così il 5 dicembre Napoleone lasciò il fronte per tornare velocemente a Parigi.
Lasciando le truppe in ritirata a Murat.
Truppe francesi che ormai non esistevano più. Quasi mezzo milione di uomini perduti nella neve delle steppe.
Non andò meglio a me a ai miei uomini.
Il “Generale Inverno” non faceva sconti a nessuno. Avevo vinto (è vincere?), ma avevo lasciato sul campo 200.000 uomini.
Lo zar Alessandro si unì al mio esercito, ormai trionfante, il 19 dicembre, abbracciandomi
piangendo.
Ma io io stavo male. Per l'occhio, per il mal di testa e per i reumatismi che mi perseguitavano. Fu il ballo sfrenato di una notte con una donzella a ridurmi uno straccio. Che volete. Le donne mi adoravano. Adoravano l’uomo che aveva sconfitto Napoleone.
Era il 18 aprile quando fui costretto a letto. Senza forze. Lo zar Alessandro e Federico Guglielmo III di Prussia mi stavano asciugando la fronte quando morii, il 28 aprile 1813.
Il generale inglese Wilson su di me scrisse: “E’ morto nel momento giusto per la sua fama”.
Quando a Kutuzov venne fatta l’autopsia tutti i suoi organi erano molto deteriorati.
Il chirurgo dichiarò che era impossibile vivere in quello stato. Doveva essere morto almeno dieci anni prima. L’unico organo in buone condizioni il cuore. Praticamente perfetto.
Ricordate la ferita che gli causava continui mal di testa? Il proiettile gli aveva distrutto il lobo frontale. A salvarlo e a permettergli in seguito di sconfiggere Napoleone fu un chirurgo che utilizzò tecniche molto avanzate per l’epoca. Si chiamava Jean Massot.
Francese.
• • •
Missing some Tweet in this thread? You can try to
force a refresh
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino. Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so. Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli. Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi. Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta. Strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Aprile 1911.
Settimana scorsa ho mandato in stampa il mio libro. Per evitare una censura da parte delle autorità, dato il contenuto altamente accusatorio nei confronti del Governo italiano, ho cercato di darne ampia diffusione.
Il prefetto voleva impedirmelo.
“In riferimento alla legge 28 giugno 1906 n° 278 non è possibile impedire la diffusione del libro” gli aveva scritto il Procur. Generale. Meno male.
Ho inviato due copie anche al Re e Regina. So che il prefetto va in giro a dire che l’autore di quel “lurido libello” deve pagare.
28 maggio 1911. Ho ricevuto indietro le copie che avevo inviato al Re Vittorio Emanuele e alla Regina Elena. “Il Re vi ringrazia per il pensiero che avete avuto nell’inviare questa vostra opera, ma a Sua Maestà non interessa”. Speravo molto in loro. Di ottenere almeno giustizia.
Sarà pure una leggenda, ma non mai ho fatto niente per smentire una così bella storia. “Diavolo rosso” mi chiamavano.
E proprio quella leggenda racconta che l’appellativo mi venne rifilato da un parroco.
Quando finii nel bel mezzo di una processione creando il panico.
“Chiellì a l’è al diaul!” "Quello lì é il Diavolo!" aveva urlato il prete quando mi aveva visto in sella alla mia bicicletta da corsa con una maglia rossa, tipo camicia garibaldina.
Il mio motto di allora?
Fare ciò che per gli altri era impossibile.
Mi chiamo Giovanni e sono nato ad Asti (Trincere) il 4 giugno 1885. Papà faceva l’oste. Da ragazzo ero abbastanza irrequieto, ma amavo una cosa sola, correre in bicicletta.
Riuscii a comprarne una lavorando in una bottega di armaiolo meccanico.
Giorni fa, alla fine del thread sulla battaglia di Lepanto, Johannes vi ha raccontato che solo uno dei comandanti della flotta turca riuscì a salvarsi. Si chiamava Uluç Alì Pascià, alla nascita Giovanni Dionigi Galeni.
Nato in provincia di Crotone. Calabrese.
Che poi sarei io.
Che ci faceva un calabrese al comando dell'ala sinistra dello schieramento ottomano?
Forse è il caso di raccontarvi la mia storia. Dall’inizio.
Sono nato a Le Castella, una frazione di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone.
Johannes ha scritto giusto.
Alla nascita mi chiamavo Giovanni Dionigi Galeni, nato nel 1519 da papà Birno, che mi insegnò a leggere, a scrivere e andar per mare, e mamma Pippa De Cicco, una contadina.
Perché mi chiamavano “rognoso”?
Per via di una tigna sulla testa.
Dottoressa in Medicina e Chirurgia con la votazione di 110 e lode accademica. WOW. Sono felicissima. Me lo sono meritato, dai.
Il percorso è stato difficile, ma quella sfilza di trenta e lode alla fine mi hanno fatta sentire orgogliosa di me stessa.
Ci sono tutti i miei cari nell'aula magna del rettorato dell'università di Messina.
Papà Enzo, mamma Cinzia, mia sorella Danila e i miei fratelli, Carmelo e Giuseppe, il piccolino, di sei anni.
E naturalmente la mia grandissima amica e collega Vittoria.
Ho sognato questo giorno fin da bambina.
Da piccola volevo diventare ginecologa, sapete? Dopo il liceo scientifico ad Agrigento avevo tentato per due anni i test per entrare a Medicina. Inutilmente. Ma io ero testarda.
E al terzo tentativo c’ero riuscita.
Lui era il primo della classe, giusto così.
Giusto che la gente abbia pianto mio figlio solo per un giorno. E poi dimenticato.
Ma anche mio figlio aveva rincorso quel sogno, esattamente come lui.
Ed era riuscito a realizzarlo.
Anche se solo a trentaquattro anni.
Mi chiamo Rudolf e lui era mio figlio.
Quello dimenticato, intendo.
Mio figlio era nato a Salisburgo il 4 luglio 1960.
Già da piccolo ci diceva che da grande voleva fare il pilota di Formula 1.
Gli passerà, ripetevo a mia moglie cercando di tranquillizzarla.
A Roland non gli passò. Per niente.
Cominciò a costruire macchinine di legno, quelle a spinta. Era un bravo ragazzo.
Con quella grande passione. Ma noi avevamo pochi soldi e lui per guadagnare qualcosa aveva cominciato a lavorare in una panetteria.