A volte dovevo sedare i bambini e poi rinchiuderli in un sacco per farli sembrare morti, oppure li nascondevo tra stracci sporchi di sangue dentro le ambulanze, o nelle casse di attrezzi del furgone di un tecnico del comune.
Tutti i mezzi erano buoni per portarli via di lì.
Ero a Varsavia, nel più grande Ghetto Ebreo di tutta l’Europa, quasi 500.000 persone prigioniere lì dei nazisti.
Fame, malattie come la dissenteria o il tifo, soprusi e violenze ogni giorno.
Poi le deportazioni, destinazione Treblinka, e da lì nessuno tornava poi indietro.
Riuscivo ad entrare lì tutti i giorni, come infermiera mandata dal Comune. Avevo preso a cuore la battaglia contro l’antisemitismo già da giovane, e mi ero anche innamorata di due ebrei. Per difendere le mie idee mi avevano persino espulso dall’Università per tre anni.
Il mio primo lavoro è stato in realtà di assistente sociale per l’amministrazione comunale: dal ’39 al ’42 ho fornito documenti falsi a numerose famiglie ebree, permettendogli la fuga all’estero.
Una cosa che a fine guerra i polacchi non mi perdonarono.
Molti polacchi la pensavano come i nazisti verso gli ebrei, ma questa è un’altra storia. Tornando al Ghetto io sapevo cosa succedeva a Treblinka, e quando hanno cominciato a deportare in massa gli ebrei lì ho fatto di tutto per salvare i bambini del ghetto.
I problemi erano tanti: la difficoltà di farli uscire era solo una parte, poi dovevo trovare dove portarli. I bimbi venivano affidati a famiglie residenti nelle campagne, mandati in conventi cattolici o ancora presso alcuni preti che li nascondevano nelle canoniche. E poi?
Ogni bambino andava catalogato, perché era l’unico modo per consentirne, a guerra finita, il ritorno alle famiglie d’origine . Dovevo stilare un elenco in cui erano annotati gli indirizzi ai quali ciascun bambino veniva destinato, ma era molto pericoloso.
La Gestapo cominciava a sospettare di me, inoltre c’erano molti delatori fra i miei concittadini, tanti collaborazionisti.
Le liste le scrivevo su sottili fogli che riuscivo a nascondere, poi le mettevo in un barattolo sotterrato nel giardino di un mio aiutante.
Alla fine nell’Ottobre del ‘43, dopo la rivolta nel ghetto di Varsavia, mi arrestarono, mi rinchiusero in prigione e mi torturarono a lungo. Ma non parlai.
Mi condannarono a morte.
Fui fortunata: la resistenza polacca riuscì a farmi fuggire corrompendo i soldati tedeschi.
Dopo la fine del conflitto ho recuperato gli elenchi e li ho consegnati ad Adolf Berman, il presidente del Comitato ebraico di aiuto sociale.
Egli prelevò i bambini dagli istituti polacchi gestiti da ordini cattolici o dalle famiglie private che li nascondevano.
Non fu facile.
Tanti bambini si erano abituati alle loro nuove famiglie, tantissimi erano rimasti orfani, alcune famiglie poi si erano affezionate ai bambini e a fatica li restituivano ai loro genitori.
Ma tutti quei bimbi si salvarono.
Quanti?
2.500 ne avevo fatti scappare dal ghetto.
Ed io? Il partito comunista polacco mi considerò sempre una sovversiva, venni costantemente tenuta sotto controllo, e ai miei due figli hanno negato possibilità di iscriversi e frequentare l’Università di Varsavia.
Però mi hanno proposta come premio Nobel per la pace nel 2007, ma mi venne preferito Al Gore.
Peccato, ma non importa: sono contenta di quello che ho fatto, non è un premio “politico” in più che fa la differenza.
Su di me hanno scritto molti libri , anche in italiano, e hanno persino girato un film. Il film è meno famoso di Schindler List, anche se lui ne ha salvati meno di me.
Ma si sa, per le donne è sempre tutto più difficile.
Adesso sapete il mio nome, Irena Sendler, una semplice infermiera coraggiosa. Sono morta a Varsavia nel 2008, alla bella età di 98 anni.
Il tempo almeno è stato clemente con me.
PS: ho scritto questo tweet perché ieri purtroppo ho raccontato la storia di un’infermiera tedesca responsabile dell’uccisione di 210 bambini disabili.
Per fortuna invece tante infermiere sono animate dall’umanità.

Irena di più, è stata l’Angelo Custode di 2.500 bambini.

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14 Dec
Siemens, un nome che tutti conoscete sicuramente.
Ma forse non sapete che nel 1931 io, John Rabe, ero stato nominato direttore di un importante ufficio estero di questa azienda.
Ho dovuto così trasferirmi a Nanchino, nella provincia di Jiangsu, a circa 300 Km. Da Shanghai. Image
Io ero tedesco, nato ad Amburgo e iscritto per forza al partito nazista, non c’era alternativa.
Ma visto l’aria che tirava in Germania ero ben contento di stare in Cina, mi trovavo benissimo.

Poi sono arrivati i giapponesi. Image
Era scoppiata nel ‘36 la guerra fra Cina e Giappone, e il 13 Dicembre 1937 le truppe dell’Impero giapponese entrarono a Nanchino.
Fate conto che in Italia di questa guerra si sa molto poco, non si studia, ma morirono dai 14 ai 20 milioni di cinesi, nessuno sa esattamente quanti. Image
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12 Dec
Mi chiamo Mary Anning, ma immagino nessuno mi conosca.
Quando sono nata era il 1799, l’Inghilterra era in guerra con Napoleone. La mia famiglia era troppo povera per farmi studiare, ho imparato a leggere e a scrivere frequentando un po’ una scuola cristiana. Image
Eravamo talmente poveri che dei nove fratelli e sorelle che ho avuto ne ho persi otto, morti appena nati o piccolissimi. Erano altri tempi, certo.
Bastava nascere cento anni dopo e forse sarei diventata famosa.
Certo è difficile diventare famose con sempre il martello in mano. Image
Mio padre mi trasmise la passione per i fossili, vivevamo a Lyme Regis e lì i fossili non mancavano.
Lui era ebanista, ma mi insegnò a trovarli, a pulirli e a riconoscerli.
Quando mio padre morì dovetti vendere la sua collezione.
Poi per vivere continuai a cercarli. Image
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11 Dec
A 21 ero orfana di padre, lavoravo come lavapiatti o cameriera e, siccome avevo avuto in casa un patrigno alcolista e manesco, mi ero fatta la promessa di guadagnarmi il pane da sola.
Non volevo mai più dipendere da un uomo.
Una sera leggo un articolo che mi fa infuriare: “What Girls Are Good For” nel quale si afferma che “le donne appartengono alla casa, e il loro compito naturale è prendersi cura della famiglia. Il lavoro femminile è un’aberrazione”.
Così presi la penna e scrissi alla redazione del giornale:
“È un’aberrazione volere essere libera, indipendente? Lo sa il giornalista cosa si prova a essere una donna giovane e indigente? È una condanna senza via d’uscita.”
Al giornale piacque la mia risposta e mi assunsero.
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9 Dec
Agli americani, la donna disse: “Mi accadrà qualcosa?”
Era il 29 maggio del 1945, a chiederlo la caposala del reparto di Pediatria, Mina Wörle, presso il complesso ospedaliero di Kaufbeuren. Era appena morto Richard Jenne, di 4 anni, per una dose eccessiva di sonnifero.
Ma non fu un errore, lei stava applicando i protocolli dell’Aktion T4, un programma fortemente voluto da Hitler, passato poi alla storia come la più massiccia e brutale operazione di eugenetica.
Cominciò già nel 1933, quando furono forzatamente sterilizzate circa 300.000 persone che avevano dato alla luce figli disabili. Poi nel 1938 la prima esecuzione, un bambino di nome Knauer, in seguito ad una visita ispettiva di uno dei medici personali di Hitler, Viktor Brack.
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7 Dec
Avevo fatto mio il tocco e il tratto di Veermer: facevo gli stessi colori, in particolare il blu di lapislazzuli con olio di lillà, usavo i pennelli dell’epoca e tele originali del 1600. Riuscivo anche a riprodurre la “craquelure”, il reticolo di crepe che si forma con il tempo. Image
Non mi considero un truffatore, ero molto di più un falsario: ero un vero artista innamorato di Veermer.
Non riprodussi solo alcune sue tele, ma ne dipinsi di nuove attribuendole con successo al pittore del ‘600.
In realtà nel 1947 dovetti subire un processo, rischiavo l’ergastolo per un reato molto più grave di essere un falsario: mi accusarono di essere un collaborazionista dei tedeschi.
Di Goering in particolare. Image
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18 Nov
Vespa e il “consenso” popolare.
Scusate ma no.
Non accetto che si possa travisare la realtà così impunemente.
Sulla “macchina del consenso” ci sono fiumi di inchiostro, montagne di pagine di studiosi e storici che hanno analizzato e spiegato il fenomeno.
1/n
Era un consenso costruito, molte volte estorto, sempre organizzato dall’alto.
Lo storico Philip V. Cannistraro coniò la definizione di “fabbrica del consenso”: meccanismi di controllo, di orientamento dell’opinione pubblica e di inquadramento delle masse.
2/n
Accettazione e sopportazione, non consenso.
Manipolazione e orchestrazione. L’utilizzo di simboli, miti e slogan che nelle masse acquisivano intensità e provocavano persuasione.
Le masse erano in gran parte analfabete: la radio, i giornali ed i cinegiornali controllati.
3/n
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