Mi chiamo Mary Anning, ma immagino nessuno mi conosca.
Quando sono nata era il 1799, l’Inghilterra era in guerra con Napoleone. La mia famiglia era troppo povera per farmi studiare, ho imparato a leggere e a scrivere frequentando un po’ una scuola cristiana.
Eravamo talmente poveri che dei nove fratelli e sorelle che ho avuto ne ho persi otto, morti appena nati o piccolissimi. Erano altri tempi, certo.
Bastava nascere cento anni dopo e forse sarei diventata famosa.
Certo è difficile diventare famose con sempre il martello in mano.
Mio padre mi trasmise la passione per i fossili, vivevamo a Lyme Regis e lì i fossili non mancavano.
Lui era ebanista, ma mi insegnò a trovarli, a pulirli e a riconoscerli.
Quando mio padre morì dovetti vendere la sua collezione.
Poi per vivere continuai a cercarli.
Avevo solo 12 anni quando con mio fratello trovai uno strano cranio fossile, poi attorno tirai fuori tutto lo scheletro, lungo due metri e mezzo.
Dovete sapere che nel 1811 la parola “Ittiosauro” non esisteva, e Linneo portava avanti con difficoltà la sua classificazione.
La Paleontologia sarebbe stata di lì a poco rivoluzionata dalla teoria delle catastrofi di Cuvier, mentre Darwin con la teoria dell’evoluzione arrivò solo 48 anni dopo.
Gli studiosi del tempo erano chiaramente tutti uomini, ed io ero solo una bambina.
Dissero che era lo scheletro di un coccodrillo, arrivato lì chissà da dove.
Ma io continuai a studiare, anche anatomia da sola, e continuai le ricerche. Trovavo di continuo fossili diversi, non stavo dietro alle richieste dei musei.
I fossili erano sempre più strani, alcuni sembravano rettili diventati pesci oppure rettili con le ali. Nei convegni gli studiosi non mi volevano, perché ero donna. Io andavo bene solo per trovarli, ma poi tutte le discussioni ed il merito delle teorie era tutto loro.
Tenevo però una fitta corrispondenza con tanti studiosi e tanti appassionati, facevo disegni dei miei ritrovamenti e scambiavo le mie opinioni con i collezionisti.
Un giorno trovai il primo esemplare di quello che avrebbero poi chiamato Plesiosauro, un rettile diventato anfibio.
La scoperta suscitò scalpore, e Georges Cuvier disse che era un falso. Venne programmato un incontro apposito presso la Geological Society di Londra, ma io non fui invitata. Alla fine Cuvier ammise il suo l'errore.
Chiesi allora di essere ammessa alla Geological Society di Londra, ma non ebbi mai l'ammissione.
Nemmeno nel 1828, quando trovai un curioso scheletro, questa volta con una lunga coda e un paio d'ali, era il primo Pterosauro, il rettile alato più grande.
Non ebbi mai accesso nel cerchio ristretto degli studiosi, nessuna sovvenzione, nessun incarico o stipendio.
E nessun riconoscimento.
Tiravo avanti vendendo i fossili nella casa che ero riuscita a comperare, e vendendo anche tutti i disegni che facevo.
La comunità scientifica mi è rimasta ostile anche dopo morta, fino al Novecento. Gli uomini pensavano che “le donne sono frivole e non possiedono il rigore intellettuale necessario per poter sostenere discussioni scientifiche o lavorare sul campo”.
La Royal Society, per esempio, mi impedì di entrare durante una mia visita a Londra. Pensate che non ha ammesso le donne fino al 1945 (le prime furono Marjory Stephenson, un biochimica, e Kathleen Lonsdale, una cristallografa).
Quando morii di cancro al seno, nel 1847, avevo solo 47 anni ed ero ancora in difficoltà economiche, nonostante una vita di scoperte scientifiche straordinarie.
Oggi i fossili da me trovati sono infatti nei più famosi musei del mondo.
Al Natural History Museum di Londra ci sono l'ittiosauro, il plesiosauro e lo pterosauro che ho trovato, e tantissime mie stampe.
Sono sepolta a Lyme Regis, adesso la chiamano Jurassic Coast, ed è diventata patrimonio mondiale dell'UNESCO proprio per la ricchezza dei fossili.
Epilogo.
Nel 2010 finalmente la Royal Society, in occasione del suo 350° anniversario, ha incluso Mary Anning nella lista dei “Local Heroes”, in riconoscimento al suo contributo alla scienza.
Un po’ tardi.
Questo thread è un po’ di parte, nel senso che i fossili sono una delle mie passioni.
Guardate questi due che ho trovato: uno a 2.000 metri nel Trentino ed uno in pianura nel Vicentino.
Cos’hanno di particolare?
Quello di sinistra era in una formazione rocciosa del Quaternario, quello di destra in una cava di roccia calcarea dell’Eocene Inferiore. Stesso Gasteropode, un Nautilus, comune anche oggi.
Viveva già 350-400 milioni di anni fa.
Non è straordinario?
Sicuramente un giro a Lyme Regis lo farei volentieri, ancora oggi continuano infatti a trovare pezzi incredibili... tipo questa piccola ammonite.
Il problema poi sarebbe riportarla a casa! 😅
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Siemens, un nome che tutti conoscete sicuramente.
Ma forse non sapete che nel 1931 io, John Rabe, ero stato nominato direttore di un importante ufficio estero di questa azienda.
Ho dovuto così trasferirmi a Nanchino, nella provincia di Jiangsu, a circa 300 Km. Da Shanghai.
Io ero tedesco, nato ad Amburgo e iscritto per forza al partito nazista, non c’era alternativa.
Ma visto l’aria che tirava in Germania ero ben contento di stare in Cina, mi trovavo benissimo.
Poi sono arrivati i giapponesi.
Era scoppiata nel ‘36 la guerra fra Cina e Giappone, e il 13 Dicembre 1937 le truppe dell’Impero giapponese entrarono a Nanchino.
Fate conto che in Italia di questa guerra si sa molto poco, non si studia, ma morirono dai 14 ai 20 milioni di cinesi, nessuno sa esattamente quanti.
A 21 ero orfana di padre, lavoravo come lavapiatti o cameriera e, siccome avevo avuto in casa un patrigno alcolista e manesco, mi ero fatta la promessa di guadagnarmi il pane da sola.
Non volevo mai più dipendere da un uomo.
Una sera leggo un articolo che mi fa infuriare: “What Girls Are Good For” nel quale si afferma che “le donne appartengono alla casa, e il loro compito naturale è prendersi cura della famiglia. Il lavoro femminile è un’aberrazione”.
Così presi la penna e scrissi alla redazione del giornale:
“È un’aberrazione volere essere libera, indipendente? Lo sa il giornalista cosa si prova a essere una donna giovane e indigente? È una condanna senza via d’uscita.”
Al giornale piacque la mia risposta e mi assunsero.
A volte dovevo sedare i bambini e poi rinchiuderli in un sacco per farli sembrare morti, oppure li nascondevo tra stracci sporchi di sangue dentro le ambulanze, o nelle casse di attrezzi del furgone di un tecnico del comune.
Tutti i mezzi erano buoni per portarli via di lì.
Ero a Varsavia, nel più grande Ghetto Ebreo di tutta l’Europa, quasi 500.000 persone prigioniere lì dei nazisti.
Fame, malattie come la dissenteria o il tifo, soprusi e violenze ogni giorno.
Poi le deportazioni, destinazione Treblinka, e da lì nessuno tornava poi indietro.
Riuscivo ad entrare lì tutti i giorni, come infermiera mandata dal Comune. Avevo preso a cuore la battaglia contro l’antisemitismo già da giovane, e mi ero anche innamorata di due ebrei. Per difendere le mie idee mi avevano persino espulso dall’Università per tre anni.
Agli americani, la donna disse: “Mi accadrà qualcosa?”
Era il 29 maggio del 1945, a chiederlo la caposala del reparto di Pediatria, Mina Wörle, presso il complesso ospedaliero di Kaufbeuren. Era appena morto Richard Jenne, di 4 anni, per una dose eccessiva di sonnifero.
Ma non fu un errore, lei stava applicando i protocolli dell’Aktion T4, un programma fortemente voluto da Hitler, passato poi alla storia come la più massiccia e brutale operazione di eugenetica.
Cominciò già nel 1933, quando furono forzatamente sterilizzate circa 300.000 persone che avevano dato alla luce figli disabili. Poi nel 1938 la prima esecuzione, un bambino di nome Knauer, in seguito ad una visita ispettiva di uno dei medici personali di Hitler, Viktor Brack.
Avevo fatto mio il tocco e il tratto di Veermer: facevo gli stessi colori, in particolare il blu di lapislazzuli con olio di lillà, usavo i pennelli dell’epoca e tele originali del 1600. Riuscivo anche a riprodurre la “craquelure”, il reticolo di crepe che si forma con il tempo.
Non mi considero un truffatore, ero molto di più un falsario: ero un vero artista innamorato di Veermer.
Non riprodussi solo alcune sue tele, ma ne dipinsi di nuove attribuendole con successo al pittore del ‘600.
In realtà nel 1947 dovetti subire un processo, rischiavo l’ergastolo per un reato molto più grave di essere un falsario: mi accusarono di essere un collaborazionista dei tedeschi.
Di Goering in particolare.
Vespa e il “consenso” popolare.
Scusate ma no.
Non accetto che si possa travisare la realtà così impunemente.
Sulla “macchina del consenso” ci sono fiumi di inchiostro, montagne di pagine di studiosi e storici che hanno analizzato e spiegato il fenomeno.
1/n
Era un consenso costruito, molte volte estorto, sempre organizzato dall’alto.
Lo storico Philip V. Cannistraro coniò la definizione di “fabbrica del consenso”: meccanismi di controllo, di orientamento dell’opinione pubblica e di inquadramento delle masse.
2/n
Accettazione e sopportazione, non consenso.
Manipolazione e orchestrazione. L’utilizzo di simboli, miti e slogan che nelle masse acquisivano intensità e provocavano persuasione.
Le masse erano in gran parte analfabete: la radio, i giornali ed i cinegiornali controllati.
3/n