Siemens, un nome che tutti conoscete sicuramente.
Ma forse non sapete che nel 1931 io, John Rabe, ero stato nominato direttore di un importante ufficio estero di questa azienda.
Ho dovuto così trasferirmi a Nanchino, nella provincia di Jiangsu, a circa 300 Km. Da Shanghai.
Io ero tedesco, nato ad Amburgo e iscritto per forza al partito nazista, non c’era alternativa.
Ma visto l’aria che tirava in Germania ero ben contento di stare in Cina, mi trovavo benissimo.
Poi sono arrivati i giapponesi.
Era scoppiata nel ‘36 la guerra fra Cina e Giappone, e il 13 Dicembre 1937 le truppe dell’Impero giapponese entrarono a Nanchino.
Fate conto che in Italia di questa guerra si sa molto poco, non si studia, ma morirono dai 14 ai 20 milioni di cinesi, nessuno sa esattamente quanti.
Per fortuna ho tenuto un diario, è diventato la fonte storica più fedele su quanto successe a Nanchino in quelle settimane.
“Un uomo non può tacere di fronte a tanta crudeltà. Mi imbatto in cumuli di cadaveri, i corpi dei civili hanno fori di pallottole nella schiena...”
“...è il segno che gli hanno sparato da dietro mentre cercavano di scappare. I giapponesi scorrazzano per la città a gruppi di dieci-venti soldati, e saccheggiano tutto. Se non lo avessi visto di persona non ci crederei: sfondano porte e finestre, rubano tutto ciò che vogliono”.
Si calcola che circa 300.000 abitanti furono massacrati dai giapponesi in sole 6 settimane. Gli stessi nazisti, alleati dei nipponici, li hanno definiti “una macchina da guerra da guerra bestiale”. I complimenti da chi si è poi superato per crudeltà.
Vennero stuprate più di 20.000 donne, bambine e anziane.
Stupri persino in pubblico, di fronte ai mariti o familiari. Le ragazze cercate di casa in casa, catturate e sottoposte a stupri di gruppo.
Torturate, mutilate e poi uccise.
Alcuni cinesi furono persino sepolti vivi.
Cosa potevo fare? Assieme ad altri stranieri presenti in città organizzammo il “Comitato Internazionale per la zona di sicurezza di Nanchino”.
Io ne ero il Presidente, la mia nazionalità e l’iscrizione al partito nazista mi protessero dai giapponesi, alleati di Hitler.
Così facendo riuscimmo a creare una zona franca, in cui mettere i cinesi al riparo dalla strage.
Misi a disposizione anche i miei terreni privati, creai una specie di campo per rifugiati, di quelli che vedete ancora oggi.
O fate finta di non vedere.
La Siemens una volta saputolo mi richiamò in patria, ma decisi di rimanere lì per aiutare i miei concittadini.
Più di 200.000 abitanti di Nanchino (qualcuno dice 250.000) si salvarono da una morte sicura.
Logicamente non è che in Germania mi guardassero tanto bene.
Nel 1938 tornai in Germania e feci l’errore di seguire il mio istinto: organizzai conferenze a Berlino sui crimini di guerra dei giapponesi e scrissi un rapporto ad Adolf Hitler, chiedendo a lui di influire sui giapponesi per cessare le atrocità.
Così fui arrestato dalla Gestapo e le mie fotografie, nonché le riprese cinematografiche del massacro di Nanchino, furono distrutte.
La cosa assurda è che dopo la guerra fui anche denunciato per la mia appartenenza al Partito Nazista.
Per fortuna, grazie al lavoro degli alleati e alle testimonianze dei cinesi di Nanchino, fui riabilitato. Ma avevo perso il lavoro e gli abitanti di Nanchino fecero una colletta di 2.500$ (erano tanti allora) e continuarono a inviarmi cibo e denaro fino all’arrivo di Mao, nel’49.
Morii a Berlino nel 1950 per un Ictus, avevo 68 anni.
Mi fa piacere che nel 2005 la mia casa a Nanchino fu restaurata dall'Università di Nanchino e dal Consolato tedesco a Shanghai. C’è anche una sala commemorativa in cui ogni anno il centro “John Rabe per la Pace” mi ricorda.
Un nazista per la Pace, strano vero?
Nella mentalità comune chi pensa ai giapponesi in guerra forse ricorda i Kamikaze, Pearl Harbor o l’epilogo di Hiroshima e Nagasaki.
La guerra in realtà non distingue mai fra buoni e cattivi, ci sono solo vittime innocenti.
Sempre.
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Mi chiamo Mary Anning, ma immagino nessuno mi conosca.
Quando sono nata era il 1799, l’Inghilterra era in guerra con Napoleone. La mia famiglia era troppo povera per farmi studiare, ho imparato a leggere e a scrivere frequentando un po’ una scuola cristiana.
Eravamo talmente poveri che dei nove fratelli e sorelle che ho avuto ne ho persi otto, morti appena nati o piccolissimi. Erano altri tempi, certo.
Bastava nascere cento anni dopo e forse sarei diventata famosa.
Certo è difficile diventare famose con sempre il martello in mano.
Mio padre mi trasmise la passione per i fossili, vivevamo a Lyme Regis e lì i fossili non mancavano.
Lui era ebanista, ma mi insegnò a trovarli, a pulirli e a riconoscerli.
Quando mio padre morì dovetti vendere la sua collezione.
Poi per vivere continuai a cercarli.
A 21 ero orfana di padre, lavoravo come lavapiatti o cameriera e, siccome avevo avuto in casa un patrigno alcolista e manesco, mi ero fatta la promessa di guadagnarmi il pane da sola.
Non volevo mai più dipendere da un uomo.
Una sera leggo un articolo che mi fa infuriare: “What Girls Are Good For” nel quale si afferma che “le donne appartengono alla casa, e il loro compito naturale è prendersi cura della famiglia. Il lavoro femminile è un’aberrazione”.
Così presi la penna e scrissi alla redazione del giornale:
“È un’aberrazione volere essere libera, indipendente? Lo sa il giornalista cosa si prova a essere una donna giovane e indigente? È una condanna senza via d’uscita.”
Al giornale piacque la mia risposta e mi assunsero.
A volte dovevo sedare i bambini e poi rinchiuderli in un sacco per farli sembrare morti, oppure li nascondevo tra stracci sporchi di sangue dentro le ambulanze, o nelle casse di attrezzi del furgone di un tecnico del comune.
Tutti i mezzi erano buoni per portarli via di lì.
Ero a Varsavia, nel più grande Ghetto Ebreo di tutta l’Europa, quasi 500.000 persone prigioniere lì dei nazisti.
Fame, malattie come la dissenteria o il tifo, soprusi e violenze ogni giorno.
Poi le deportazioni, destinazione Treblinka, e da lì nessuno tornava poi indietro.
Riuscivo ad entrare lì tutti i giorni, come infermiera mandata dal Comune. Avevo preso a cuore la battaglia contro l’antisemitismo già da giovane, e mi ero anche innamorata di due ebrei. Per difendere le mie idee mi avevano persino espulso dall’Università per tre anni.
Agli americani, la donna disse: “Mi accadrà qualcosa?”
Era il 29 maggio del 1945, a chiederlo la caposala del reparto di Pediatria, Mina Wörle, presso il complesso ospedaliero di Kaufbeuren. Era appena morto Richard Jenne, di 4 anni, per una dose eccessiva di sonnifero.
Ma non fu un errore, lei stava applicando i protocolli dell’Aktion T4, un programma fortemente voluto da Hitler, passato poi alla storia come la più massiccia e brutale operazione di eugenetica.
Cominciò già nel 1933, quando furono forzatamente sterilizzate circa 300.000 persone che avevano dato alla luce figli disabili. Poi nel 1938 la prima esecuzione, un bambino di nome Knauer, in seguito ad una visita ispettiva di uno dei medici personali di Hitler, Viktor Brack.
Avevo fatto mio il tocco e il tratto di Veermer: facevo gli stessi colori, in particolare il blu di lapislazzuli con olio di lillà, usavo i pennelli dell’epoca e tele originali del 1600. Riuscivo anche a riprodurre la “craquelure”, il reticolo di crepe che si forma con il tempo.
Non mi considero un truffatore, ero molto di più un falsario: ero un vero artista innamorato di Veermer.
Non riprodussi solo alcune sue tele, ma ne dipinsi di nuove attribuendole con successo al pittore del ‘600.
In realtà nel 1947 dovetti subire un processo, rischiavo l’ergastolo per un reato molto più grave di essere un falsario: mi accusarono di essere un collaborazionista dei tedeschi.
Di Goering in particolare.
Vespa e il “consenso” popolare.
Scusate ma no.
Non accetto che si possa travisare la realtà così impunemente.
Sulla “macchina del consenso” ci sono fiumi di inchiostro, montagne di pagine di studiosi e storici che hanno analizzato e spiegato il fenomeno.
1/n
Era un consenso costruito, molte volte estorto, sempre organizzato dall’alto.
Lo storico Philip V. Cannistraro coniò la definizione di “fabbrica del consenso”: meccanismi di controllo, di orientamento dell’opinione pubblica e di inquadramento delle masse.
2/n
Accettazione e sopportazione, non consenso.
Manipolazione e orchestrazione. L’utilizzo di simboli, miti e slogan che nelle masse acquisivano intensità e provocavano persuasione.
Le masse erano in gran parte analfabete: la radio, i giornali ed i cinegiornali controllati.
3/n