Cosa darei per vincere questo torneo? C’è gente che sarebbe disposta a tutto anche solo per essere presente come spettatore, figuriamoci come protagonista in campo. Dicono che non posso vincere. Sono d'accordo.
In conferenza stampa ho detto che «Darei una mano pur di farcela».
C’è sempre dell’ansia prima di entrare in campo.
Ci si veste, poi i soliti riti scaramantici, e infine qualche minuto seduto in attesa della chiamata.
Tra poco sfiderò in finale, sul manto erboso del Centre Court di Wimbledon, il vincitore dell’anno scorso.
Numero uno al mondo
Non ci sopportiamo. Vecchia ruggine per questioni di patriottismo.
Non avendo risposto a una chiamata della nazionale per giocare delle amichevoli lo avevo definito “antipatriottico”. Una causa di risarcimento in corso. Siamo diversi. Non solo per il colore della pelle.
Oggi è sabato, 5 luglio 1975.
Non ho mai vinto questo torneo. Nessun afro-americano lo ha mai vinto. Oltretutto sono reduce da una stagione non proprio esaltante.
Poi si gioca sull’erba, un terreno più adatto al mio avversario.
I bookmaker prevedono un incontro senza storia.
Ci siamo incontrati solo tre volte prima di oggi e ha sempre vinto lui. Strapazzandomi, tra l’altro.
Ma non è solo l’erba a preoccuparmi.
Su l’erba ho già vinto due tornei del Grande Slam.
C’è un’altra cosa, non di poco conto. L’età.
Lui ha 22 anni. Io dieci anni di più.
Un afroamericano a Wimbledon. Dove tutto deve essere bianco. Da regolamento.
L’abbigliamento, comprese le suole delle scarpe, le fasce, i polsini e l'intimo. E non sono ammesse deroghe.
Sia chiaro: solo bianco-bianco. La chiamano tradizione.
Un afroamericano a Wimbledon. Dove tutto deve essere bianco.
Mentre aspetto di scendere in campo ripenso a quando tutto è cominciato. Alla mia infanzia. A quello che sono riuscito a fare grazie a questo sport.
Alle battaglie che ho vinto.
Sono nato a Richmond, Virginia, il 10 luglio 1943.
Avevo sette anni quando mi dissero che mamma era volata in cielo. Anni dopo capii che non era andata via perché non mi voleva bene.
Se n’era andata per una maledetta operazione mal riuscita.
E così ero rimasto solo con papà, che oltre a fare il poliziotto era anche il custode di un centro sportivo. Naturalmente riservato ai neri come me. Fu una fortuna che nel centro ci fossero quattro campi da tennis.
Proprio una bella fortuna.
Vi assicuro che non era facile ai miei tempi essere neri e moderati allo stesso tempo. Nell’America degli anni ’50/’60 dovevi lottare continuamente contro certi pregiudizi. Credo però che ognuno di noi abbia una missione nella vita. La mia fu chiara fin dall’inizio.
Come tutti i ragazzi praticai diversi sport, non solo il tennis. Il basket, per esempio. E il football americano.
Li scartai presto entrambi. Non solo perché ero magro, ma ero scoordinato, un difetto che certo non mi aiutava in quegli sport.
Mi rimase il tennis, che praticavo sotto lo sguardo vigile di mio padre.
Fu così che a quattordici anni mi iscrissi a un campionato juniores, nel Maryland. La domanda sempre la stessa.
Che ci faceva un nero su un campo da tennis?
Avevo vent’anni quando il mondo si accorse di me. Accadde nel 1963. Dopo aver vinto un premio diventai il primo afroamericano a essere selezionato per giocare nella squadra statunitense in Coppa Davis.
Quegli articoli se li potevano evitare.
“Il primo tennista maschio della sua razza ad aver raggiunto i più alti livelli dello sport del tennis”.
“In un mondo popolato di bianchi, lui è una stranezza atletica”. Già, secondo loro ero una stranezza.
Una stranezza che però è riuscita a vincere tornei del Grande Slam come gli US Open nel 1968 e gli Australian Open nel 1970.
Inoltre in quegli anni ho contribuito a fondare l’Association of Tennis Professionals (ATP).
Niente male per una stranezza.
Soprattutto il successo a Forest Hills agli Open Usa. Lo rimarcai dopo la vittoria.
“E' tutto molto divertente, visto il colore della mia pelle non mi farebbe entrare come socio in sette su otto circoli dove gioco i miei incontri”.
Già. E non tutto filò liscio in quegli anni.
Nel 1968, dopo l’iscrizione ai campionati Open sudafricani, il Governo di quel Paese mi negò il visto d’ingresso.
Un nero che gioca contro un bianco? Non sia mai.
In quel Paese non era possibile.
E così avevo presentato una proposta per escludere Il Sudafrica dalla Coppa Davis e dalla Federazione Internazionale. Proposta che cadde nel nulla.
Com'è possibile vietare l’accostamento tra bianchi e neri per qualsiasi sport sul territorio di un Paese?
Mi chiamano. Devo andare
Arthur Ashe, questo il suo nome, scese in campo quel giorno a Wimbledon contro il numero uno al mondo, James Scott Connors, detto Jimmy.
Con nessuna speranza di vincere.
Invece vinse, anche nettamente, col punteggio di 6-1, 6-1, 5-7, 6-4.
Vinse usando la testa. Come aveva sempre fatto contro i pregiudizi. Senza scendere sullo stesso terreno.
Il gioco di Connors era aggressivo e potente? Micidiale nei passanti?
Arthur Ashe usò la calma.
Prima palla al centro sempre e comunque lenta.
È lento giocherà tutta la partita, insistendo sul pallonetto ogni volta che il suo avversario piombava a rete.
Con calma. Senza fretta.
Come a ogni cambio di campo. Fino all’ultimo secondo. Concentrato.
Sui suoi colpi che dovevano essere sempre più liftati.
Dopo essere stato nominato nella Tennis Hall of Fame nel 1985, nel 1988 scoprì di essere affetto dall’HIV.
Per una trasfusione di sangue durante un intervento chirurgico al cuore.
Quando nel 1992 la notizia comincia a circolare, la comunica personalmente al mondo.
Nell’ultimo anno di vita Arthur Ashe ha fondato l’Institute for Urban Healt per aiutare le persone senza un’assistenza medica.
Ci ha lasciati il 6 febbraio 1993 per le complicazioni insorte in seguito all'AIDS.
Il campo centrale degli US Open ora si chiama Arthur Ashe Stadium.
Grazie a @omegaman73 per avermi chiesto di raccontare la storia di Arthur Ashe. Un simbolo della lotta all’Apartheid, icona dei diritti civili.
Che diceva che il vero eroismo non era superare gli altri, ma servire gli altri a qualunque costo”.

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3 Mar
«Dopo 2 thread (bit.ly/301WVoL e bit.ly/2OcUuNj ), caro Pericle, riprendiamo dalle opere da te realizzate.
Non avevi soldi. Però avevi i tributi dalle città che facevano parte della lega di Delo.
Soldi custoditi nell’isola sacra ad Apollo.
Ti venne un’idea».
Vero. I soldi erano custoditi nell’isola di Delo.
Pensai di trasferire quei soldi ad Atene, sotto il mio controllo. Usai quel denaro anche per completare i circa sei chilometri di mura che dalla città arrivavano a inglobare il vecchio porto del Falero e il nuovo porto del Pireo.
«Ma come sempre accade, anche ai migliori politici, il consenso cominciò a calare.
E quando cala il consenso…
I tuoi avversari passarono al contrattacco.
Cominciarono accusando il tuo amico Anassagora.
Solo per aver formulato ipotesi sul moto dei corpi celesti».
Read 25 tweets
2 Mar
«Salve Pericle, ci sei? Sono Johannes.
Eravamo rimasti (qui ieri bit.ly/301WVoL ) alla tua rivalità con Cimone.
Tu che facevi parte della famiglia degli Alcmeonidi, lui della famiglia rivale dei Filaidi, famiglie ateniesi potenti e aristocratiche. Continua pure».
Ieri hai detto che Cimone aiutava il popolo.
Io non ero da meno.
Lo sapevi che i teatri erano pieni di gente povera?
E secondo te chi pagava loro il biglietto? Il sottoscritto.
Non solo.
Davo pure soldi a quelli che facevano parte delle giurie nei tribunali popolari.
«Peccato che, a differenza di Cimone, non fossero soldi tuoi.
Prelevavi il tutto dalle casse dello Stato.
E con quello compravi il consenso popolare.
Al popolo il superfluo dà più piacere del necessario, ripetevi a ogni occasione.
Ecco il perché del biglietto a teatro».
Read 25 tweets
1 Mar
Discutere della mia vita con te? Perché no, Johannes.
In fondo non puoi riportare niente di più di quello che sta scritto nei libri di storia.
Plutarco ha trasmesso al mondo intero come io, Pericle, sia stato l’inventore della democrazia ateniese.
E molto, molto altro.
«Ottimo. Iniziamo.
Siamo nel 480 a.C. e Temistocle è il politico più influente di Atene.
È lui a convincere gli abitanti a lasciare la città per rifugiarsi sulle isole di Egina e Salamina mentre i Persiani devastano Atene.
Temistocle sta preparando lo scontro navale finale».
Esattamente. Temistocle fu molto astuto.
In quello stretto braccio di mare le navi persiane, anche se più numerose, erano troppo massicce per poter manovrare.
Grazie alle sue duecento triremi, riuscì a ottenere sui Persiani una vittoria decisiva.
Però ora parliamo di me.
Read 24 tweets
24 Feb
Oggi è il 23 marzo 2017.
Non è la prima volta che vengo ad Auschwitz.
Sono stanco, e non solo per i miei 83 anni.
Sono ormai trent’anni che cerco di a mettere in luce le responsabilità di quell’azienda nello sterminio di milioni di esseri umani.
Era il 26 ottobre 1942 e sono certo che Kurt ripensò al suo passato. Era stato assunto da quell'azienda come disegnatore tecnico e di strada ne aveva fatta parecchia. Dopo nove anni era stato promosso ingegnere del reparto D.
E proprio in quel reparto aveva dato il meglio di sé.
Grazie al suo ingegno la sua ditta si stava aggiudicando tutti gli appalti.
Quel giorno era particolarmente euforico.
«Le mie idee sono davvero rivoluzionarie, posso supporre che mi concederete un bonus per il lavoro che ho fatto» aveva scritto in mattinata al suo direttore.
Read 19 tweets
20 Feb
«Nerone ti sei calmato? Ieri sera
(qui bit.ly/3sbRpMi) abbiano parlato di un’accusa infamante nei tuoi confronti. Abbiamo però concordato sul fatto che tu non hai nessuna colpa per l’incendio di Roma del 64 d.C.
Ci resta da approfondire il resto della tua vita».
Credo che nessuno abbia qualcosa da dire sui primi anni del mio impero. Mi sono comportato bene.
Anzi benissimo, in modo impeccabile.
Sotto la guida di Seneca, del prefetto del pretorio, Sesto Afranio Burro e della donna più influente di Roma, mia madre Agrippina.
«Concordo sul ruolo avuto da tua madre nella tua salita al trono. Lo voleva a ogni costo.
“Che mi uccida, purché regni” rispose a un oracolo che la metteva in guardia. Ci mettesti del tuo.
Hai fatto uccidere Britannico, il tuo fratellastro.
Era lui il legittimo Imperatore»
Read 23 tweets
19 Feb
Sinceramente sono combattuto, Johannes.
Ho seguito la serie di batti e ribatti con Riccardo Cuor di Leone e sinceramente non sei stato tenero con lui.
Non oso pensare cosa tu possa raccontare di me ai tuoi lettori.
Lettori, come ha scritto @tonyjorio, e non follower.
«Giusto, lettori.
Visto che abbiamo rotto il ghiaccio perché non iniziamo la discussione?
In fondo peggio di come ti hanno dipinto sarà difficile. Credo anzi che la tua versione dei fatti possa essere un’occasione per smentire le chiacchiere che girano sul tuo conto».
Le chiami chiacchiere? Mi prendi in giro?
Come puoi definire dicerie e pettegolezzi quello che hanno scritto di me nei libri di storia.
Hai letto come mi ritraggono sempre?
Mi sono scocciato. Brucia un autobus a Roma e mi tirano in ballo. Basta. Non sono stato io, chiaro?
Read 24 tweets

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