C'era una volta a Roma uno che parlava, e soprattutto scriveva. Sarebbe diventato la condanna di tanti liceali e il suo nome risuonato, a volte, minaccioso: Marco Tullio CICERONE. Oggi a Roma si sarebbe chiamato, però, Er Cecione, e forse così avrebbe suscitato meno timore :)
Perché Marco Tullio aveva un cecio sulla faccia, perciò il cognomen era Cicero :)
Questo era tipico dei Romani, dare soprannomi a presa di culo, per ironizzare, deridere, spesso dispregiativi. Del resto a prendersi parecchio sul serio bastavano i Greci, che si davano nomi magni-
loquenti ed esaltanti tipo Aristotele (prrr! :p).
A Roma no. A Roma c'era Publio Ovidio Nasone, che ce lo immaginiamo facilmente :), c'era Claudio, che evidentemente zoppicava (cfr. il ns "claudicante"), c'era Bruto, che era scemo, così come Varrone. :)
Cercavo in effetti, ché mi
sfuggiva, l'etimo di Catone, sperando che definisse una qualche caratteristica risibile per mia personale soddisfazione, e invece no, uff... Cato vuol dire "acuto, perspicace", nnaggia, e ci sono rimasta malissimo 😝😁🤷♀️ Ma cmq la faccia era tutto un programma.
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"Avrei davvero voluto morire quando lei mi lasciò in affannoso pianto" scrive Saffo nel VII sec. aC, "tra molte cose dicendomi 'Come soffriamo atrocemente, Saffo! io ti lascio contro il mio volere.' Ed io le rispondevo 'Va' serena, e di me serba il ricordo. Sai quanto ti ho amata
Se mai lo dimenticassi, sempre io ricorderò i bei momenti che vivemmo [...] quando sul morbido letto ti saziavi, né mai vi furono danze nei sacri boschi a cui fossimo assenti'..."
Saffo dedica questa poesia, evidentemente, a una sua allieva prediletta, una delle tante di cui fu
maestra nel tiaso. Una che aveva amato, ricambiata, come spesso accadeva. Ma anche con lei era arrivato il momento della separazione, e questo accadeva quando la ragazza andava a sposarsi. Ché quello era lo scopo della formazione che aveva ricevuto nel tiaso, impartita da Saffo e
Già, #OTD nel 1849 moriva Edgar Allan Poe, di morte misteriosa, tra deliri ed allucinazioni.
Aveva in realtà tentato di uccidersi dopo la scomparsa della sua amatissima Virginia, la sua "sposa bambina" che, come tutte le persone che amava tanto, era morta troppo presto.
Morivano
tutte, sempre. E lui restava solo. Una vita di eccessi furiosi, e lui non riusciva a morire. Ci aveva provato sul serio, una volta: una dose smisurata di laudano; ma, per la grande assuefazione, non c'era riuscito. La cara zia - che pure doveva essere viva e vegeta... - dov'era?
Dove, in questo tormento? Da quanto non la vedeva? Troppo! Allora doveva esser morta anche lei, di sicuro, come tutte quelle che amava..! Impossibile che non fosse così, morivano tutte, e se c'era qualcosa che aveva imparato dalla vita era questa lezione sopra ogni altra! Certo,
"L'isola dei morti", di Arnold Boecklin (1880-86)
"Sono convinto che susciterà l'impressione che desidero", scrisse il pittore al committente. E non si sbagliava.
Lenin ne teneva una copia sopra il letto.
Hitler acquistò la 3^ versione per una cifra spropositata e se la portò ap-
presso dalla Cancelleria fin dentro il bunker dove si ammazzò.
Dopo l'occupazione di Berlino, Stalin fece portare il quadro a Mosca, dove rimase fino agli anni '90, quando fu poi restituito alla Germania.
Freud ne aveva 22 copie nel suo studio, e l'analizzò a lungo.
E poi Strind-
berg, Dalì, D'Annunzio, De Chirico, Rachmaninov... Boecklin ne fece altre 4 versioni perché, ho letto, non riuscì a separarsi dalla prima. La 4^ versione (ne resta la foto ⬇️ in b/n) andò distrutta durante la Guerra.
"Il dipinto che ipnotizza", lo hanno chiamato. Molti, nel ri-
Ora vi racconto il mio esame di maturità e del tempo in cui mi dipingevo le magliette da sola.
Nell'ansia di fondo che pervadeva quelle giornate di luglio, in quello che credetti essere un momento di lucidità battagliera, scelsi la mise.
Decisi così che avrei messo la mia amata
maglia col Che ♥️ La commissione, il cui pensiero un po' mi preoccupava, doveva sapere con chi aveva a che fare. Avevo saputo dal cd membro interno che non erano convinti che il compito d'italiano fosse farina del mio sacco, pensavano fossi riuscita a copiarlo in qualche modo,
sicché ero stata preparata al peggio. La furia! Avrei contrastato questa enorme ingiustizia a suon di argomentazioni d'ogni tipo, se non li avessi convinti li avrei comunque sfiniti, insomma hasta la victoria siempre e anche sulla lotta armata avevo iniziato,al limite,a farci un
"Quando Giovanna si presenta ai giudici per la prima seduta le chiedono subito di giurare sul Vangelo che dirà la verità."
È illegale, annota Barbero, ed è una delle varie "licenze" che questo processo si concede. Perché è un processo politico, messo su perché Giovanna possa
essere fatta fuori legalmente, e lo sanno tutti, tutto il mondo che osserva attento (perché nel frattempo lei è diventata una leggenda) e tutti quelli che vengono chiamati a parteciparvi,che siano testi, inquisitori o dotti teologi kompetenti. E vorrebbero quasi tutti sottrarsene
ma vi sono costretti, e così si dà inizio a questa specie di sceneggiata dall'esito scontato che però paradossalmente ha la pretesa di salvare la forma.
È illegale pretendere che Giovanna giuri di dire il vero, dicevo, perché a monte c'è un'altra, ancor più grossa, illegalità: il
"Lavoro moltissimo. Ma non posso pensare di fare altro che la cattedrale. È un lavoro enorme!" scrive Monet nel 1893 al suo gallerista.
Aveva iniziato questa sua nuova serie sulla cattedrale di Rouen l'anno prima, dipingendo forsennatamente per oltre 10h al giorno,da uno stanzino
affittato in un palazzo di fronte, che a un certo punto era stato costretto a lasciare e cercarne uno accanto - perciò le 31 tele della serie da un dato momento appaiono leggermente diverse nella prospettiva.
Aveva iniziato qualche anno prima coi covoni, poi era passato ai pioppi
finché, esasperato dai continui mutamenti della natura che lo costringevano a rivedere costantemente il lavoro e non finire mai di rimetterci il pennello, aveva deciso che la facciata della cattedrale, ricca di statue ma immutabile, poteva fare meglio al caso suo. Voleva studiare