Mario #Draghi era nel giusto.
Presentandosi al Parlamento nel febbraio 2021 per chiederne la fiducia, disse che il suo era "semplicemente il governo del Paese", senza bisogno di alcun aggettivo che lo definisse.
Non mentiva.
E se un anno e mezzo di
2/n scelte pragmatiche, spogliate di qualsivoglia furore ideologico, ispirate esclusivamente dal perseguimento dell'interesse nazionale non è bastato a renderlo evidente, allora le ultime ore sono venute in soccorso dei meno attenti, o dei meno intellettualmente onesti.
Lo hanno
3/n fatto nel modo migliore, nel solo che il tempo galantuomo riconosce sempre: chiarendo l'importanza dei lasciti del suo esecutivo, dandogli atto di aver operato per il bene.
Bastino due esempi.
Se è per governare le emergenze che Draghi è stato chiamato dal capo dello Stato,
4/n allora è su queste che bisogna giudicarne l'azione, la saggezza della condotta. In primis sulla pandemia, piaga sanitaria che al momento dell'insediamento dell'ex premier registrava la profondità di una voragine, complice l'incapacità di trattarla a dovere.
5/n Così la Corte Costituzionale, proprio ieri, ha sancito che le scelte del legislatore (Draghi, appunto) non furono "né irragionevoli, né sproporzionate" in tema di #ObbligoVaccinale. Illuminando di ragionevolezza il dibattito, assestando uno schiaffo ai #novax, dopo le carezze
6/n riservategli da Giorgia #Meloni con la decisione (inquietante e strumentale) di reintegrarli in servizio per decreto, con due mesi di anticipo rispetto al previsto.
E poi l'altra emergenza. Quella che ha fatto capolino a partita in corso: la guerra in #Ucraina.
7/n La decisione del #governoMeloni di prorogare fino al 31 dicembre 2023 l'invio di "mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari" all'Ucraina, confermando anche i "termini" e "le modalità" stabilite dal decreto del governo Draghi in scadenza, è la conferma di un
8/n dato: sulla politica estera, unico ambito su cui un Paese che voglia accreditarsi come serio non può permettersi di scherzare, la sola strada insieme percorribile e giusta era quella tracciata da Mario Draghi.
Sostegno a #Kyiv, adesione
9/n all'Alleanza atlantica, principi che possono essere messi in discussione soltanto da 2 categorie di persone: simpatizzanti di Mosca o leader politici vogliosi di lucrare sul desiderio di una parte di opinione pubblica di tornare a trattare la #Russia come nulla fosse stato.
10/n Una barzelletta (poco) divertente sostiene che il governo Draghi sia caduto per un termovalorizzatore, la verità è che al di là del calcolo politico di chi sapeva che altri mesi in maggioranza avrebbero comportato l'estinzione di quel Movimento, la storia dice altro. Dice
11/n che Draghi ha sacrificato il suo tempo a Palazzo Chigi nel tentativo (riuscito) di assicurare il convoglio italiano al treno occidentale.
D'altronde era stato chiaro fin dall'inizio:
"Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo".
12/n Mario Draghi, quello che secondo alcuni avrebbe umiliato il Parlamento, quello il cui metodo non teneva conto delle esigenze dei partiti, lo ha chiesto in tutte le salse, lo ha ripetuto più volte: "Siete pronti?".
13/n Non deve sorprendere che la risposta sia stata negativa: la politica italiana non era pronta.
Non ad essere guidata da un fuoriclasse come Mario #Draghi.
Ma il bene fatto rimane.
E la lezione è quella finale:
"I governi passano, l'Italia resta".
14/14
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🚨🪖🇺🇸🇷🇺 Viste le circostanze, il Blog si rende protagonista di uno "strike preventivo".
Le ultime dichiarazioni di Donald Trump presteranno il fianco, soprattutto in Italia, a una narrazione di tipo allarmista e catastrofista.
Breve spoiler: non siamo sull'orlo di una guerra nucleare tra Russia e Stati Uniti. Ma non significa che le parole del Presidente americane siano prive di significato. Anzi. Vediamo perché.
2/n 🇺🇸🇷🇺 Intanto un breve riepilogo delle puntate precedenti.
Dmitry Medvedev, ex presidente russo, nei giorni scorsi prende di mira Trump per la decisione di annunciare sanzioni nei confronti della Russia in assenza di un cessate il fuoco in Ucraina.
A questo proposito il russo, noto per i suoi toni "incendiari" sui social, scrive: "Trump sta giocando all'ultimatum con la Russia: 50 giorni o 10...Dovrebbe ricordare due cose:
1. La Russia non è Israele e nemmeno l'Iran.
2. Ogni nuovo ultimatum è una minaccia e un passo verso la guerra. Non tra Russia e Ucraina, ma con il suo stesso Paese. Non seguire la strada di Sleepy Joe!".
3/n 🇺🇸🇷🇺 The Donald viene informato della reazione di Medvedev e lancia un primo avvertimento: "Non mi interessa cosa faccia l’India con la Russia. Possono affondare insieme con le loro economie morte, per quel che mi riguarda. Abbiamo fatto pochissimi affari con l’India, i loro dazi sono troppo alti, tra i più alti al mondo. Allo stesso modo, la Russia e gli Stati Uniti non fanno quasi alcun affare tra loro. Manteniamolo così e dite a Medvedev, l’ex presidente fallito della Russia, che crede di essere ancora presidente, di fare attenzione alle sue parole. Sta entrando in un territorio molto pericoloso!".
🚨🇺🇸 L'indagine del Washington Post è certamente un esperimento riuscito, probabilmente il modo migliore per capire perché - dal punto di vista mediatico e politico - Donald Trump stia soffrendo così tanto nella gestione del caso Jeffrey Epstein.
Di più: perché in vista delle elezioni midterm - oggi apparentemente lontane, ma per la politica americana abbastanza dietro l'angolo - la questione rappresenti il principale motivo di preoccupazione per il Partito Repubblicano.
Per venire a capo della questione, il Washington Post ha inviato nelle scorse ore un messaggio a 1.089 persone. Gli obiettivi erano molteplici: capire quanta attenzione il pubblico americano stesse riservando al dossier Epstein, che idea si fosse fatto dell'atteggiamento fin qui tenuto dall'amministrazione Trump, cosa pensasse veramente dell'intera vicenda.
Com'è andata? Qualunque stratega politico risponderebbe che in questi numeri si nascondono dei segnali che il Presidente non può permettersi di sottovalutare.👇
2/n 🇺🇸 Prima questione: quanta attenzione stanno dedicando gli americani alle notizie sul caso Epstein? Circa un adulto su 4, il 26%, dice di stare prestando "molta" attenzione al dossier, mentre un altro 38% dice di seguire con "una certa attenzione" gli sviluppi che ruotano attorno alla vicenda. Sommate, queste percentuali, dicono che più della metà degli americani sta mostrando interesse nei confronti del caso, sebbene il dato di quani esprimono maggiore coinvolgimento sia leggermente inferiore al 34% di coloro che nel mese di giugno si dicevano "molto" interessati a capire la piega che avrebbero preso le proteste di Los Angeles.
È indicativo che a dirsi più presi dal flusso di notizie siano i democratici, probabilmente speranzosi di trovare un caso capace di mettere in crisi la presidenza. Ma il fatto che più di un repubblicano su due (con differenza pressoché impercettibile a favore di quelli MAGA) stia seguendo con cura l'argomento suggerisce una verità difficile da smentire: la Casa Bianca non può sperare semplicemente che la gente si dimentichi e lasci andare.
Bisognerà trovare una conclusione che soddisfi la curiosità dell'opinione pubblica.
3/n 🇺🇸 Seconda questione: gli americani approvano o disapprovano la gestione da parte dell'amministrazione Trump?
Qui per il Presidente i numeri si fanno a dir poco preoccupanti.
Il 58% degli intervistati esprime parere negativo sulla condotta della Casa Bianca. Neanche 2 statunitensi su 10 (il 16%) approvano le mosse del Presidente e della sua squadra. Alla richiesta di spiegare la loro posizione, alcuni degli intervistati citano alcuni degli argomenti più popolari in questi giorni: "Trump non è stato trasparente, sembra molto probabile che abbia qualcosa da nascondere". E ancora: "Sta evitando di fare ciò che aveva promesso: rilasciare gli Epstein Files".
A differenza di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, in particolare osservando la pressione dei deputati noti per essere rappresentanti di spicco del mondo MAGA, lo zoccolo duro trumpiano fornisce ancora oggi una prova di fiducia nei confronti del proprio leader rispetto agli altri segmenti.
In particolare, il 43% dice di approvare la sua gestione del caso, mentre "solo" il 17% disapprova e il 39% si rifiugia in un diplomatico "non sa".
Ma in una competizione elettorale in cui anche qualche decimale può fare la differenza, in un senso o nell'altro, il malcontento del MAGA è un elemento che non può non turbare gli strateghi repubblicani. A maggior ragione se unito ad altri dati: un elettore GOP su quattro (24%) esprime contrarietà rispetto alla linea presidenziale.
Cifre che diventano inquietanti fra gli indipendenti, per il 63% negativi nei confronti della gestione del caso da parte dell'amministrazione.
Perché è importante? Perché quasi sempre sono proprio gli elettori non schierati a decidere chi vince le elezioni negli Stati Uniti.
🚨🪖🇮🇹 1/8 L'indagine del CENSIS va presa per quel che è: un sondaggio, ovvero la fotografia di un momento. Ribadisco l'ovvio per consolare il lettore (e pure un po' me stesso): qualora l'Italia si ritrovasse in guerra, i suoi abitanti sarebbero più o meno consapevolmente protagonisti di quel fenomeno noto come "rally around the flag", letteralmente "raduno attorno alla bandiera". Dinanzi all'emergenza, al pericolo vero, c'è da credere (e da sperare) che una percentuale molto più elevata dell'attuale 16% risponderebbe positivamente al richiamo della patria, dicendosi disposto a combattere per la propria terra (nonché libertà). Eppure è inutile nascondersi, fa un certo effetto scoprire che fra gli individui anagraficamente più adatti alla difesa del Paese (18-45 anni) la percentuale più alta (39%) protesterebbe contro la guerra in nome di un anacronistico pacifismo. Sarebbe stato curioso aggiungere un quesito al sondaggio: "Scenderebbe in strada con la bandiera arcobaleno anche nel bel mezzo di un bombardamento?".
Ma se credete che questo sia il peggio, siete fuori strada.
🚨🪖🇮🇹 2/8 Il 26% degli intervistati, infatti, sostiene che dinanzi a un conflitto armato rifiuterebbe il reclutamento. La soluzione per difendere l'Italia, spiega questa porzione di italiani, è infatti arruolare soldati di professione. Idea non così campata in aria (per quanto impercorribile, per una questione prettamente numerica) se non fosse per il seguito: questi cittadini del Belpaese vorrebbero infatti affidare la difesa dell'Italia a mercenari stranieri, chissà perché convinti che basterebbe pagare, trovare qualcuno un po' più fesso, per salvare il Paese. Quasi più coerente il 19% di italiani - allarmante il 22% nella fascia maschile di età compresa fra i 18 e i 34 anni - che annuncia senza mezzi termini: una guerra in Italia? Spiacenti, noi diserteremmo, lasceremmo il Paese.
🚨🪖🇮🇹 3/8 Che il governo italiano - e quelli che verranno - abbia un problema enorme in quanto a consapevolezza dell'opinione pubblica rispetto allo scenario internazionale emerge ancora più chiaramente dalla Tabella numero 2, quella in cui agli intervistati viene chiesto da dove provengano le principali minacce potenziali per l'Italia sul piano miliare. Se un 50% indica con successo la Russia e un 31% i Paesi islamici, fa riflettere che addirittura il 23% ritenga che gli Stati Uniti possano attaccare la Penisola. Previsione a dir poco fuori dalla realtà, nonostante gli umori ondivaghi dell'attuale inquilino della Casa Bianca.
Altrettanto lunare il 16% che vede in Israele una minaccia militare per il Belpaese: lo Stato Ebraico viene ritenuto più pericoloso della Cina, vissuta come una minaccia soltanto dal 12%, e della Corea del Nord, ferma al 10% nonostante il recente invio di truppe nel cuore d'Europa a sostegno della Russia.
Voglio ribadirlo: sono più gli italiani che credono che gli Stati Uniti possa attaccare l'Italia di quelli che pensano possa farlo la Cina. È un problema per noi, perché conferma che molti italiani vivono in una realtà alternativa, ma lo è in prospettiva anche per gli americani: la presidenza Trump sta disperdendo un capitale di sentimento importante, fondamentale qualora in futuro l'America dovesse avere bisogno dei propri Alleati in giro per il mondo, in particolare nell'Indo-Pacifico. Si legga alla voce "Taiwan".
1/8🚨🪖🇫🇷🇷🇺🇺🇦 Per trovare un precedente - una conferenza stampa di un Capo di Stato maggiore francese - bisogna tornare indietro fino al 2021. Al mondo di ieri, per intenderci. Quello in cui la guerra non era ancora scoppiata nel cuore del continente europeo.
Eppure le parole del generale Thierry Burkhard sono importanti non solo per la loro rarità. Lo sono perché affrontano verità che quasi nessuno vuole sentire. Perché non edulcorano, non proteggono l’opinione pubblica da ciò che fa paura: la fine delle illusioni di sicurezza, l'affermazione della forza come strumento di potere, il ritorno della guerra.
Come i lettori sapranno, la stragrande maggioranza dei contenuti del Blog è riservata agli iscritti. In questo caso ho deciso di fare un'eccezione: lascio questo articolo a disposizione di tutti. Non coltivo l'arrogante pretesa di modificare con un post la consapevolezza degli italiani su certi temi, non sono nessuno per farlo e non ne ho i mezzi. Ma se anche poche persone apriranno gli occhi - senza paura, senza allarmismi, ma con lucidità - allora queste molte ore di lavoro saranno servite a qualcosa. Buona lettura.
2/8 🚨🪖🇫🇷🇷🇺 La premessa del generale Burkhard è la seguente: "In precedenza avevamo l'abitudine di dire che una crisi ne scacciava un'altra. Oggi non è più così. Al contrario, le crisi si sovrappongono, si sommano, se non addirittura si moltiplicano".
Il capo delle forze armate francesi è per questo pessimista (o realista): "Per quanto mi riguarda, faccio fatica a vedere quali potrebbero essere le vie d’uscita o di stabilizzazione nel breve termine". Anzi, "penso di essere di fronte a delle tappe che vengono superate e dalle quali non si torna indietro", quindi "non ha senso dirsi 'adesso mi metto in posizione di attesa, resisto un po’ e poi tutto tornerà come prima e potrò riprendere i miei affari come un tempo'".
Il mondo è cambiato davvero.
3/8 🚨🪖🇫🇷🇷🇺 Esistono a detta del generale Burkhard diversi livelli di minaccia, muovendo dall'interno verso l'esterno del Paese. A partire dalle minacce ibride, insidiose "perché seminano il dubbio, scelgono un terreno favorevole, e sono spesso difficili da attribuire formalmente. Anche se di solito si intuisce chi c’è dietro e a chi 'giova il crimine', l'attribuzione formale non è semplice".
Il loro obiettivo principale è minare la coesione nazionale, "il centro di gravità di tutti i Paesi, anche della Francia, perché è un elemento chiave della resilienza. La coesione nazionale è la nostra forza, ma può anche diventare una debolezza. Quando è forte, dissuade gli attacchi. Ma quando è debole, aumenta il rischio e inibisce la nostra capacità di reazione e la volontà di difenderci".
Quando allarga lo sguardo al resto del mondo, il numero uno dell'esercito parigino cita diversi attori, dalla Cina all'Iran, ma è alla Russia che assegna la definizione di "minaccia duratura e più determinante".
Mosca, afferma Burkhard, "ha apertamente designato la Francia come suo primo avversario in Europa.
Non sono io a dirlo: è Vladimir Putin che lo ha dichiarato".
La Federazione Russa viene descritta dal Capo di Stato maggiore come "un universo relativamente chiuso, con una capacità decisionale estremamente centralizzata e un condizionamento della popolazione fin dalla giovane età, un elemento da tenere bene a mente".
1/6🚨🇺🇸🇷🇺🇺🇦 Ho cinque notizie interessanti. Sono abbastanza per un punto nave serale.
È impossibile non partire dalla telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin. Nonostante quanto dichiarato dai due protagonisti della conversazione (durata più di due ore), la svolta tanto attesa - ancora una volta - non c'è. Il Cremlino prende tempo, esplora formati e formule, nel solco della "migliore" tradizione diplomatica russa, ma in definitiva non si avvicina al cessate il fuoco incondizionato accettato da Volodymyr Zelensky. Prima e dopo la telefonata, però, si segnalano alcuni fatti importanti. Vediamoli insieme.
2/6 🚨🇺🇸🇷🇺🇺🇦 Un tempo sarebbe stato il minimo sindacale, ma non è da sottovalutare il fatto che, prima di iniziare la chiamata con Putin, The Donald abbia parlato con Volodymyr Zelensky.
Secondo il Wall Street Journal, il presidente USA avrebbe chiesto al leader ucraino di cosa avrebbe dovuto discutere con Putin.
Zelensky ha risposto che Trump avrebbe dovuto spingere Putin ad accettare un cessate il fuoco di 30 giorni; insistere per un futuro incontro Putin-Zelensky a cui Trump stesso avrebbe dovuto prendere parte e ribadire che gli Stati Uniti non prenderanno alcuna decisione sull'Ucraina senza il contributo di Kyiv.
C'è un passaggio, nel resoconto di Trump - in particolare quello per cui "le condizioni saranno negoziate tra le due parti, come è giusto che sia, poiché solo loro conoscono i dettagli di una trattativa di cui nessun altro è a conoscenza" - che sembra segnare un punto in favore dell'Ucraina. Rispetto alle prime settimane dall'insediamento, Trump non sembra più voler "imporre" un accordo a Kyiv.
Merito soprattutto di Zelensky, che accettando l'idea di una tregua incondizionata ha visto il bluff di Putin, ma anche dei leader occidentali, importanti per consigliare a Zelensky le regole d'ingaggio adeguate per non perdere il favore del presidente USA.
3/6 🚨🇺🇸🇷🇺🇺🇦Altro aspetto interessante. Le parole di JD Vance prima della telefonata fra Trump e Putin: "I colloqui procedono da un po' di tempo. Ci rendiamo conto che siamo a un punto morto. Penso che il Presidente dirà al Presidente Putin: "Senti, sei serio? Sei serio su questo?"'.
È possibile che quando Putin ha parlato di conversazione "franca" si riferisse a qualcosa del genere.
E fa comunque uno strano effetto, visti i precedenti, sentire il vicepresidente USA dichiarare quanto segue: "Credo che onestamente il Presidente Putin non sappia bene come uscire dalla guerra".
Di nuovo: è poco, una variazione millimetrica, ma è la prova che l'Ucraina sta giocando bene le sue carte.
1/8 🚨🪖🇮🇱🇵🇸🇮🇷🇸🇦 Il mondo poteva cambiare. Così hanno deciso di cambiare il mondo.
È questo il senso della scoperta realizzata dall'esercito israeliano in uno dei tunnel sotterranei della Striscia di Gaza, della conferma ai peggiori sospetti coltivati in questi mesi, da quando le fiamme della guerra sono tornate a divampare in Medio Oriente.
Nei giorni immediatamente precedenti al 7 ottobre, i vertici di Hamas mettevano nero su bianco le loro intenzioni: compiere, per citare le parole pronunciate da Yahya Sinwar in persona, un "atto straordinario", capace di far deragliare il processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, il negoziato che a suo dire avrebbe relegato per sempre la causa palestinese ai margini della storia.
I documenti ritrovati dall'esercito israeliano sono di straordinaria importanza. Analizziamoli insieme.
2/8 🚨🪖🇮🇱🇵🇸🇮🇷🇸🇦 Il verbale di una riunione tenuta dall'ufficio politico di Hamas a Gaza il 2 ottobre 2023 - revisionato dal Wall Street Journal - cita espressamente le parole di Yahya Sinwar:
"Non c'è dubbio che l'accordo di normalizzazione saudita-sionista stia progredendo in modo significativo".
Tale intesa, avverte, "aprirebbe la porta alla maggioranza dei Paesi arabi e islamici affinché seguano la stessa strada".
Si tratta dell'esito sempre temuto dai nemici dello Stato Ebraico, da coloro che da generazioni ne hanno profetizzato la distruzione, cercandone l'annientamento con tutte le proprie forze.
È per questo che, rivolgendosi ai suoi uomini, Sinwar traccia la strada: è arrivato il momento di porre in atto il "grande progetto", l'attacco a cui da più di due anni lavora nell'ombra.
3/8 🚨🪖🇮🇱🇵🇸🇮🇷🇸🇦 Yahya Sinwar non usa mezzi termini, con il suo piano punta in alto: l'obiettivo è quello di "provocare una mossa importante o un cambiamento strategico nei percorsi della regione".
Per farlo, in segreto, si è dato da fare per mobilitare l'intero "Asse della Resistenza" a guida iraniana.
Documenti ritrovati nelle profondità di Gaza infatti svelano: "il macellaio di Khan Younis", attraverso alcuni emissari, ha già bussato alla porta di Teheran.
Ha chiesto un'assistenza finanziaria nell'ordine di 500 milioni di dollari e un salto di qualità nell'equipaggiamento dei circa 12mila terroristi che rispondono ai suoi ordini.