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Credete alle fiabe? No? Nemmeno a quella del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno?
Male. Perché quella che sto per raccontavi è proprio una favola di quel tipo.
La storia di una brutto anatroccolo diventato cigno.
Almeno per un certo periodo.
La mia storia.
Ero nato in una famiglia di immigrati taiwanesi.
Cresciuto nella Bay Area di San Francisco, mi ero iscritto al college.
E lì erano cominciate le prime difficoltà.
Giocavo a basket e avevo mandato i miei video a molti college per una borsa di studio.
Inutilmente.
Niente borsa di studio.
Solo “walk-on”, la possibilità di diventare un membro della squadra ma senza reclutamento né borsa di studio per atleti. Dicevano che ero scarso. E poi un cittadino di origine cinese e taiwanese che vuol fare il professionista del basket, via. Non sia mai
Comunque anche senza borsa di studio accettai l’offerta di Harvard.
Dicevano che ero un classico giocatore non nero, poco atletico, fisicamente debole ed uno stile di gioco pessimo, insomma, un giocatore da terza divisione.
Nel 2010 tra alti e bassi mi laureai in economia.
Nello stesso anno fui inserito nel draft Nba.
Il draft NBA è un evento annuale della National Basketball Association (NBA) nel quale le squadre professioniste possono scegliere nuovi giocatori con almeno diciotto anni e provenienti dai college.
Qualcuno mi scelse? E quando mai.
“Undrafted”, non scelto, il peggio che può capitare ad un giocatore professionista.
Eppure i Golden State Warriors mi offrirono un contratto. Ma a fine stagione mi tagliarono. Tradotto, mi licenziarono.
Finii agli Houston Rockets che mi rifilarono subito ai New York Knicks.
In realtà i New York Knicks mi avevano preso solo perché si era infortunato il loro titolare Baron Davis.
Naturalmente ero riserva della riserva, una “fourth-string”, la quarta opzione, praticamente panchinaro senza speranze.
Maglia numero 17.
All’inizio di febbraio 2012 la mia squadra, i Knicks aveva totalizzato solo 8 vittorie e ben 15 sconfitte, di cui 11 nelle ultime 13 partite disputate.
E io sempre in panchina.
O meglio.
Il 3 febbraio ero entrato per pochi minuti e avevo fatto tre tiri.
Tutti sbagliati.
Voi che avreste fatto? Vi sareste arresi? In realtà un pensierino lo feci pure io. Se non ero capace per il basket americano qualcuno in Europa magari avrebbe potuto farmi giocare.
Ma il pensiero durò poco.
"Non arrendersi mai" era il mio motto. Mai.
E venne il 4 febbraio del 2012. Giocavamo in casa, al Madison Square Garden, contro i cugini dei New Jersey Nets. E la partita si mise subito male.
A tre minuti dalla fine del primo quarto di gioco i Nets sono avanti. Fu in quel preciso momento che accadde l’incredibile.
L’allenatore Mike D’Antoni chiede una sostituzione. Vuole sostituire la guardia Shumpert. Ci siamo, pensai, ora chiamerà una delle guardie di riserva, Bibby o Douglas. Non potete immaginare la mia sorpresa. Voleva proprio me. Voleva il il numero 17 in campo.
Voleva Jeremy Lin
E fu così che mi trasformai in cigno.
Senza nessuna emozione presi in mano la squadra.
Con assist ai compagni e azioni personali trascinai la mia squadra a vincere la partita in un tripudio generale.
Non sapevo di essere così bravo.
Lo scoprii solo quella sera.
Fu solo l’inizio.
Nella partita seguente, contro gli Utah Jazz, sono titolare dall’inizio.
Ma ci mancano i titolari più forti. Stoudemire e il grande Anthony, infortunato. Ma ci sono io. E questo basta. Vinciamo ancora e metto a segno 28 punti.
E vincemmo le partite successive
Nelle mie prime cinque partite stabilii un record ancora oggi insuperato. Nessuno tra i grandi del basket americano, dico nessuno, era riuscito nell’impresa di segnare 136 punti totali con una media di 27,2 punti a partita nelle loro prime cinque partite.
Lo feci io, il cigno.
Una follia.
Per questo coniarono il termine “Linsanity. Perché tutto era folle.
Come quel 10 febbraio contro i Los Angeles Lakers del grandissimo Kobe Bryant.
Lui, che ha vinto 5 titoli NBA ed è alla sua 15ma stagione.
Che guadagna 24 milioni di dollari contro i miei 700mila.
Nella conferenza stampa Kobe disse di non conoscermi.
Cambiò idea dopo quella sera. Ai suoi 34 punti punti risposi con i miei 38 punti.
Diventai all'improvviso una stella mediatica, comparendo per due settimane di fila sulla copertina di Sports Illustrated .
Ma non era finita
Con la Linsanity mania pochi giorni dopo andammo a giocare in casa dei Raptors.
La partita vide in nostri avversari sempre avanti. A quattro minuti ancora di 9 punti. Fu un gioco da ragazzi portare la mia squadra in pareggio.
A 17 secondi dalla fine la palla finì nelle mie mani
Poteva un cigno tirasi indietro? Mai.
Mi girai verso il mister e chiesi di poter tirare un tiro allo scadere.
A voi sarebbero tremate le gambe, vero?
Non a me. Lasciai passare tutti i secondi fermo a centrocampo.
Si fermarono tutti.
E poi...

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La favola non durò molto.
Causa rottura del menisco la mia stagione si chiuse dopo due mesi e 26 gare da titolare.
Houston mi offrì un quadriennale da 28 milioni (28) che New York non pareggiò perché, si disse, i giocatori erano invidiosi di me.
Da allora ho girato molte squadre con cifre lontane da Linsanity.
Lo so, non sono e non sarò più il giocatore che fece infiammare la platea del Madison Square Garden per 26, magiche partite
Poco importa. Quello che conta è che non sono più un brutto anatroccolo.
Come è stata possibile tutto ciò? Non ne ho la più pallida idea.
Forse perché ho fatto di tutto, tranne che arrendermi? Certo.
Perché non importa se sei asiatico, bianco, nero o ispanico; se hai voglia e forza puoi superare tutte le circostanze avverse.
Basta non arrendersi.
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