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Scendemmo giù a Curenna, frazione di Vendone, la vigilia di Natale del 1943. Sapevamo che gli abitanti ci appoggiavano, infatti ci fecero trovare due pentoloni di castagne. E pranzo assicurato anche per il giorno successivo. Il loro regalo di Natale
Il parroco in prima fila. Per quello aspettammo il suo ”andate, la messa è finita” per intonare quella nuova canzone. Un esecuzione un po’ stonata, lo ammetto, ma era una bella canzone. Era la nostra canzone.
Sibilla Giacomo, nome di battaglia Ivan.
Aveva scelto lui la musica. Lui, operaio di professione che non abbandonava mai la sua chitarra. Durante la solita serata attorno al fuoco aveva chiesto al comandante ”perché noi non abbiamo una canzone?”
Il comandante aveva risposto: “ottima idea”. Ivan aveva provato con il Nabucco, ma era poco adatto. Addio Lugano bella? No, meglio di no. Ci pensò lo stesso Ivan a trovare la musica giusta. Era stato in Russia con con l’Armir, soldato del 2° reggimento del Genio telegrafisti.
Aveva sentito molte volte quella canzone russa, Katjuša, cantata dalle ragazze e dai prigionieri sovietici.
Non era un canzone di guerra.
“Fiorivano i meli, fiorivano i peri / le nebbie veleggiavano sul fiume / Katjuša discendeva alla riva / all’alta riva scoscesa”.
I soldati italiani nella steppa la cantavano cambiando le parole. Ivan non le conosceva. Ricordava solo che parlavano di vento e di tempesta. Allora il “comandante" si era alzato, aveva preso il suo ricettario da dottore dallo zaino a aveva cominciato a scrivere.
Era quasi Natale, e il vento era freddo.
Facile, dai. “Soffia il vento urla la bufera”.
E poi il cuoio prelevato dalla caserma Camandone per farne scarpe per i partigiani. Quindi “Scarpe rotte eppur bisogna ardir”.
E via col resto.
Soffia il vento, urla la bufera
Scarpe rotte eppur bisogna ardir
A conquistare la Rossa primavera
In cui sorge il sole dell’avvenir.
Ogni contrada è patria del ribelle
Ogni donna a lui dona un sospir
Nella notte lo guidano le stelle
Forte ha il cuore e il braccio nel colpir
Dopo la prova della notte di Natale a Curenna, quella canzone la cantammo ufficialmente ad Alto, nella piazza di fronte alla chiesa, il giorno dell'Epifania 1944. Il comandante aveva mandato il testo a mamma Maria, che faceva la maestra. Fu lei a sostituire “Soffia” con “Fischia”
Se la melodia di "Fischia il vento"era la canzone popolare sovietica Katjuša, composta nel 1938 da Matvej Blanter e Michail Isakovskij, il testo era del nostro comandante. Che purtroppo la cantò per poco. Troppo tempo.
Erano le 6.30 del 27 gennaio 1944 e faceva un gran freddo ad Alto. Fu in quel momento che vidi le truppe nazi-fasciste. Il Battaglione tedesco ci attaccò con mezzi pesanti dal basso. Nello scontro a fuoco il nostro comandante venne ferito a una gamba
Volevamo trascinarlo via con noi, ma lui si rifiutò. Avremmo messo a repentaglio le nostre vite, pregiudicato sicuramente la nostra ritirata. Ci ordinò di seguire suo cugino Vittorio e di scappare lontano. Obbedimmo.
Quando venimmo a sapere della sua uccisione “ci mettemmo a piangere come bambini”.
Lui era il nostro comandante.
Lui era Felice Cascione, nome di battaglia, U Megu, il dottore.
Felice era nato a Porto Maurizio il 2 maggio 1918. La mamma Maria una maestra elementare, il papà Giobatta un fonditore di campane morto nello stesso anno al fronte. Era stato durante la sua ultima licenza che aveva scelto il nome di Felice per suo figlio.
Nel 1936 Felice si era iscritto alla facoltà di medicina all'Università degli Studi di Genova. Lo avevo promesso a sua madre. Le aveva mandato anche una lettera.
E poi tra il '37 e il '39 dalla serie C alla A del campionato di pallanuoto. E il secondo posto ai Mondiali con la nazionale universitaria a Vienna, tre giorni prima dell'invasione della Polonia.
Quindi nel Partito Comunista clandestino, presentato a Natta e Pajetta.
Per tutti lui è il “dottorino”, popolarissimo a Oneglia. Un generoso, perché non faceva pagare né medicine né visite a chi era in difficoltà.
Dopo l'8 settembre 1943 era entrato nella Resistenza mettendosi a capo di una brigata partigiana, la prima dell'Imperiese.
Quanto contasse il comandante Felice Cascione per i suoi uomini lo si può riscontrare nelle lettere inviate dai suoi compagni alle loro famiglie. Questa è di Giovanni Berio, il Tracalà, scritta alla madre.
Tracalà, morirà pochi mesi dopo in combattimento.
Fu proprio la generosità di medico a tradire Cascione. Avevano preso due fascisti delle “Brigate nere”. Rifiutò di ucciderli.
“Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo e ora voi volete che io permetta di uccidere?”
E così Di Paola e Dogliotti, i due fascisti, avevano mangiato e soggiornato con loro. Ma il 7 gennaio ‘44 il Dogliotti era riuscito a fuggire, raggiungendo la caserma della Milizia di Albenga. Fu così che i tedeschi e i fascisti raggiunsero il 27 gennaio il rifugio dei partigiani
Felice Cascione aveva 32 anni quando fu ucciso. Dopo la sua morte la brigata, con forze nuove, prenderà il nome di II Divisione Garibaldi “Felice Cascione”.
“Fischia il vento” divenne l'inno per tutti i partigiani.
Grazie a @endorfina83 per avermi suggerito di raccontare la storia di di Felice Cascione, autore del testo di “Fischia il Vento”.
Cosa provavano i fascisti ad ascoltare quella canzone?
Lo ha raccontato il partigiano Beppe Fenoglio: “È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone"
bit.ly/2EfPJdq
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