L’epigrafe sulla mia tomba mi definisce “gloria del genere umano”. Non so.
Avete presente un bambino su una spiaggia che trova, prima una pietra variegata, poi una conchiglia a più colori dinanzi ad un oceano ancora inesplorato?
Ecco, penso di essere stato solo quel bambino.
Su quello che mi accadde nell’estate del 1666, nel giardino della mia casa natale di Woolsthorpe, Voltaire ed Eulero ci hanno ricamato sopra.
Una mela in testa, ma via. In testa no di sicuro.
E quando mai.
Forse è il caso di raccontarvi un po’ della mia vita. Dall’inizio.
Sono nato appunto a Woolsthorpe, nella Contea del Lincolnshire, il 25 dicembre del 1642.
Secondo il calendario giuliano.
Dieci giorni dopo, il il 4 gennaio 1643, secondo il calendario gregoriano.
Quello che forse non sapete, è che sono nato povero. Molto povero.
Povero, visto che mio padre morì prima della mia nascita lasciando mia madre, Anna Ayscough, in gravi strettezze economiche.
Nato prematuramente, piccolo, fragile a tal punto che la gente quando mi vedeva si faceva il segno della croce. Nessuna speranza di vita. Sorrido.
Avevo tre anni quando mamma mi lasciò dalla nonna dopo essersi risposata col pastore Barnaba Smith.
Nonna si incaricò della mia educazione e a dodici anni mi iscrisse alla “Scuola Reale” di Grantham.
Lo ammetto.
La scritta sul davanzale della finestra della scuola è opera mia.
Tornai da mamma nel 1658.
Portandomi dietro la fissa di costruire modellini e meccanismi di ogni genere.
A dodici anni avevo costruito un orologio ad acqua.
E poi, dopo aver osservato la costruzione di un mulino, ne avevo costruito uno pure io.
Piccolo e funzionante.
Osservavo e ricostruivo. Osservavo e ricostruivo.
Con un’intelligenza fuori dall’ordinario tanto da meritare, quando me ne andai, un discorso pubblico del direttore della scuola Grantham.
Elogiò i miei enormi meriti e il mio talento. Commuovendosi.
Mamma voleva che l’aiutassi nella conduzione dei campi. E nei campi ci andavo, nascosto tra gli alberi, a leggere e a studiare.
Amavo la matematica e tutto quello che riguardava gli studi scientifici.
Fu lo zio James a convincere mamma ad iscrivermi all’università.
Era il 1660 quando entrai al Trinity College di Cambridge come sub-server.
In quanto povero dovevo servire a pagamento gli altri studenti. E nel 1666 quell’episodio.
Che ci facevo nella mia casa natale di Woolsthorpe?
Ero tornato perché il College era stato chiuso per la peste.
Nel 1669, l’unico professore con cui avevo legato, Isaac Barrow, mi cedette la sua cattedra.Più che l’insegnamento era la ricerca che mi appassionava. Senza riposo, senza pause. Vivevo praticamente al Trinity, assorbito talmente dai miei studi da dimenticarmi persino di mangiare.
Sarebbe difficile, complicato, e piuttosto lungo, raccontare qui su Twitter tutta la mia vita. Che a dispetto delle previsioni iniziali (ricordate il segno della croce all’inizio?) è stata parecchio lunga.
Non vi racconterò quindi i miei successi nel campo della matematica.
Nel campo della fisica, dell’astronomia, della biologia e dell’ottica. Della meccanica, della dinamica, fino alla legge di gravitazione universale.
Ho dimenticato qualcosa sicuramente.
Non vi racconterò nemmeno dei miei anni come deputato. Tranquilli. Non mi feci notare.
Non vi racconterò nemmeno perché scrissi la frase «Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti» in quella lettera inviata a Robert Hooke.
Vi giuro che non c’entra niente.
Il fatto che quel nano maledetto fosse basso, intendo.
Vi racconterò invece degli anni che vanno 1692 al 1694. Avvolti dal mistero. L’unica cosa certa? Il mio esaurimento nervoso. “Durante questo esaurimento Newton si avvicinò molto alla pazzia” c’è scritto su Wikipedia.
Volevo vedere voi, dopo quello che mi era successo.
Racconto.
Era una sera d’inverno.
Dopo la pubblicazione nel 1687 dei “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica", mi ero dedicato completamente alla stesura di un manoscritto sui colori e la luce.
Dopo vent’anni di esperimenti avevo finalmente messo tutto per iscritto.
Quella sera uscii per fare una commissione e quando tornai “tutti credettero che stessi per perdere la ragione”. Per colpa sua.
Era stato lui a far cadere un candeliere acceso bruciando tutto.
Il manoscritto, gli appunti, i libri, persino parte del laboratorio. Un disastro.
E’ vero, caddi in depressione.
Che riuscii a superare solo nel 1694 quando ripresi il mio lavoro a Cambridge.
Lo so, non lo aveva fatto apposta.
Un po’ di colpa era mia che lo avevo chiuso dentro.
Però persi anni di lavoro, accidenti.
Per questo rischiai la pazzia.
«Oh! Diamante, Diamante, tu non sai il danno che mi hai fatto!»
Come chi è Diamante?
Il mio amato cagnolino, accidenti.
Era stato lui a far cadere il candeliere.
A bruciare vent’anni di un lavoro che nessuno di voi ha potuto consultare.
Insopportabile, non credete?
Il dolore intaccò fortemente la mia salute, fino a “disordinare momentaneamente quella potente e sublime intelligenza!”.
Mi fece però capire molte cose. La più importante?
Che guadagnavo poco. (Avevo chiesto di essere esentato dalla quota d’iscrizione della Società Reale)
Per quello accettai nel 1699 la carica di direttore della Zecca.
Con una rendita ragguardevole che mi permise di mettere via un bel gruzzoletto.
No, non ho fatto testamento. Ritenevo che “dare dopo morte fosse un non dare”.
Per questo in vita fui generoso con tutti.
Ricordate quel bambino nato tre mesi prima del tempo, talmente piccolo da far dire a sua madre che avrebbe potuto essere contenuto in una tazza?
Quello che non aveva speranza di vita, cioè io?
Ebbene. Sono stato in salute per 84 anni.
Ho sofferto solo gli ultimi giorni della mia vita.
Per quel dolore fortissimo all’addome.
Il 18 marzo 1726 fu l’ultimo giorno che lessi i giornali.
Morii due giorni dopo, il 20 marzo 1726.
Sepolto otto giorni dopo nell'Abbazia di Westminster.
In un tweet precedente vi ho raccontato che fui anche membro del Parlamento. E che non mi feci notare.
Non è vero. Una volta intervenni in aula per lamentarmi di una corrente d’aria fredda.
Facendo anche una richiesta.
Quella di chiudere quella maledetta finestra, accidenti.
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Si racconta che quell’anno fossero tutti nella mia città. A Vienna nel 1913, intendo.
Tito, Hitler, Stalin, Freud e Trockij.
Arrivai anch’io quell’anno.
Il 25 settembre per la precisione.
Facendo la felicità di mamma Ludmila e di papà Frantisek.
I casi della vita.
Papà era tornato dalla Prima Guerra Mondiale sano e salvo.
Giocava nell’Herta Vienna quando subì un colpo ai reni durante uno scontro di gioco.
Rifiutò di farsi operare.
Lui aveva 30 anni quando morì. Io solo otto.
Mamma si mise a fare la cuoca in un ristorante per mantenere noi figli.
Ero piccolo e mi piaceva giocare col pallone, come papà.
Essendo poveri, senza scarpe naturalmente.
Bravo ero bravo. E soprattutto veloce.
Vi giuro, ho fatto quello che potevo.
E’ tutto registrato. Il radiocronista Andrew West lo stava intervistando.
“Sono qui. Rafer ha afferrato l’uomo che ha sparato. Prendigli la pistola. Il dito…il dito…prendi l’arma Rafer. Bravo, l’hai preso”.
L’ho preso, bloccato, è vero, ma troppo tardi. Quel giorno di più non potevo fare.
E mi dispiace. Da morire.
Non essere riuscito a salvargli la vita, intendo.
Un dispiacere che non ho mai dimenticato.
Mi chiamo Rafer Johnson e sono nato a Hillsboro, Texas, il 18 agosto 1934.
Papà voleva darci un futuro migliore di una baracca senza elettricità e impianto idraulico. Per questo, all’età di nove anni, ci eravamp trasferiti con mio fratello Jim a Kingsburg, in California.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/2IpDy3y
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline. Con quei bei cannoni tutti neri. Il morale alto. Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli". Il primo sparo? Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer. Resistemmo fino all’impossibile. Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata. Un durissimo colpo. (Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino. Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so. Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli. Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi. Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta. Strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Aprile 1911.
Settimana scorsa ho mandato in stampa il mio libro. Per evitare una censura da parte delle autorità, dato il contenuto altamente accusatorio nei confronti del Governo italiano, ho cercato di darne ampia diffusione.
Il prefetto voleva impedirmelo.
“In riferimento alla legge 28 giugno 1906 n° 278 non è possibile impedire la diffusione del libro” gli aveva scritto il Procur. Generale. Meno male.
Ho inviato due copie anche al Re e Regina. So che il prefetto va in giro a dire che l’autore di quel “lurido libello” deve pagare.
28 maggio 1911. Ho ricevuto indietro le copie che avevo inviato al Re Vittorio Emanuele e alla Regina Elena. “Il Re vi ringrazia per il pensiero che avete avuto nell’inviare questa vostra opera, ma a Sua Maestà non interessa”. Speravo molto in loro. Di ottenere almeno giustizia.
Sarà pure una leggenda, ma non mai ho fatto niente per smentire una così bella storia. “Diavolo rosso” mi chiamavano.
E proprio quella leggenda racconta che l’appellativo mi venne rifilato da un parroco.
Quando finii nel bel mezzo di una processione creando il panico.
“Chiellì a l’è al diaul!” "Quello lì é il Diavolo!" aveva urlato il prete quando mi aveva visto in sella alla mia bicicletta da corsa con una maglia rossa, tipo camicia garibaldina.
Il mio motto di allora?
Fare ciò che per gli altri era impossibile.
Mi chiamo Giovanni e sono nato ad Asti (Trincere) il 4 giugno 1885. Papà faceva l’oste. Da ragazzo ero abbastanza irrequieto, ma amavo una cosa sola, correre in bicicletta.
Riuscii a comprarne una lavorando in una bottega di armaiolo meccanico.