Che ci faccio seduto su una panchina negli spogliatoi dello stadio “The Dell”, lo stadio dei Saints?
Semplice.
Perché questo è il mio stadio. E il Southampton la mia squadra. La squadra dove gioco da sedici anni ormai.
E oggi sono triste, molto triste.
E' passato più di un secolo. Questo stadio infatti è stato costruito esattamente 103 anni fa, nel 1898.
Qualche anno prima, il 21 novembre 1885, i parrocchiani di St. Mary avevano fondato una squadra di calcio, i The Saints, i Santi. Pur senza avere uno stadio di proprietà.
Per questo ne avevano costruito uno nel nord-ovest di Southampton e lo avevano chiamato “The Dell”.
Uno stadio che a oggi ha visto una sola grande vittoria.
La FA Cup nel 1976. 1-0 a Wembley contro i favoriti del Manchester United. Pur giocando, i Saints, in seconda divisione
Sono passati sedici anni, e sono triste, perché domani, 19 maggio 2001, in questo stadio si giocherà l’ultima partita. Poi verrà demolito.
Ne hanno costruito uno nuovo, il St. Mary’s Stadium.
Sono triste per questo, ma soprattutto perché domani non potrò essere in campo.
Mi sono infortunato a marzo e non ho recuperatoi del tutto. Avrei voluto esserci domani. E magari segnare l’ultima rete in questo fantastico stadio.
Sono stati sedici anni stupendi. Per me, e per i tifosi.
C’è un cartello all’entrata, sapete?
“Benvenuti nella casa di Dio”.
Lo so, suona un po’ blasfemo pensando che i tifosi mi chiamano “"Matt Le God".
Sono ormai arrivato alla fine della carriera, lo so.
E’ stata una bella favola. Che avrebbe potuto avere un finale straordinario. Essere l’ultimo calciatore ad aver segnato nel mitico “The Dell”.
Purtroppo non sempre le favole hanno un lieto fine.
Non importa. Chi sono? Mi chiamo Matthew Le Tissier, nato il 14 ottobre del 1968 nell'isola di Guernsey, nel Canale della Manica. Inutile raccontare la mia infanzia. Come tutti i ragazzi amavo giocare a pallone.
Fui veramente felice quando a diciassette anni, nell’estate del 1985, approdai al Southampton.
Il mio primo contratto coi Saints?
Ventisei sterline a settimana. Un sogno. Il mio motto?
«È meglio essere felici che ricchi, nella vita».
Ed io felice lo ero, eccome.
Ero alto, magro, tozzo, sgraziato, con poca voglia di correre. Lento e compassato. Quello che mi salvava?
La classe immensa. Cinquantanove reti nelle giovanili e poi le prime partite in prima squadra.
E i primi due gol.
Southampton-Manchester United all'Old Trafford finta 4-1
Nei primi tre anni 89 presenze e solo 23 reti.
Poi nella stagione 1989-90, segnai 20 reti vincendo il PFA Young Player of the Year Award. Un premio assegnato al miglior giocatore della Premier League sotto i 24 anni.
E poi ogni anno sopra le venti reti.
Vi devo confessare una cosa. Dicevano che non avrei mai potuto emergere in un calcio fondato su “palla lunga e pedalare”. Oggi il calcio è solo fisicità.
Lo era anche allora, ma io ribadii il primato della classe sul fisico. A dimostrarlo le mie reti. bit.ly/35n7GFg
“Avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa ovunque. Scudetti, coppe, trofei, e forse un Pallone d’Oro, chissà. Solo che era felice al Southampton”.
E’ vero, molte squadre mi hanno cercato. Il Chelsea, il Liverpool e il Tottenham.
E lo stesso Manchester United di Alex Ferguson.
Ho sempre rifiutato. Amo troppo questa maglia.
Nei miei sedici anni qui, grazie alle mie reti, il Southampton non è mai retrocesso.
Non ho solo il record dei gol più belli. Vogliamo parlare dei rigori? Al momento ne ho tirati 50.
Con un solo errore.
Come mi alleno sul questo fondamentale? A mio modo. Continuando a tirarne fino a segnarne venti consecutivamente. Per niente facile. Considerando che prima di calciare comunico al portiere l’angolo di tiro. Malgrado ciò, finisco sempre presto l’allenamento.
Il mio più bel gol? Forse la scommessa vinta con l’amico Tim Flowers portiere del Blackburn. «Tim, colpirò il tuo asciugamano, non importa dove lo metti, lo prenderò».
Lo appese alla sua destra. In fondo si trattava solo di mandare il pallone proprio lì. bit.ly/2XeOSmX
Vi ho detto che di regola corro poco. Pensate, persino quando segno. Mica corro in giro per il campo come una scheggia impazzita come fanno gli altri.
Meglio rimanere fermi e tranquilli.
Aspettando gli abbracci dei miei compagni bit.ly/3bf0Jd6
Non sono un calciatore modello nemmeno a tavola
Amo i panini con salsiccia, l’insalata affogata nel ketchup e le patatine fritte. Più la Coca-cola.
“E vuoi fare il professionista con questa dieta?”.
Me lo hanno detto in tanti, ma a me non interessa.
Il loro giudizio, intendo.
Perché dovrei rinunciare ai questi piaceri?
Io gioco al calcio per divertirmi e per divertire. E visto che lo faccio alla grande perché dovrei fare qualcosa di diverso?
La Nazionale? Solo otto presenze, niente Europei, niente Mondiali. Ma non importa.
Negli ultimi tre anni troppi problemi fisici e infortuni.
Solo 36 presenze tra campionato e coppe.
Comunque ci tenevo a giocare quest'ultima partita in questo meraviglioso stadio.
Magari riuscendo a segnare un ultimo gol.
Waooo. Il mio allenatore mi ha appena detto che anche se non sto in piedi domani mi metterà in campo.
Almeno per qualche minuto. Sono strafelice. Un premio meritato per tutto quello che ho fatto per questa squadra. E poi mi basta una palla. Per concludere la favola.
19 maggio 2001.
Che bello essere qui, anche se in panchina.
La partita non ha niente da dire. Noi salvi e l’Arsenal di Wenger, con gli straordinari Henry, Bergkamp, Ashley Cole e Kanu, tagliati fuori dalla corsa al titolo.
Per me e per tutti è comunque una partita importante.
Minuto 70'.
Fino a questo momento la partita è stata bella.
Siamo sul 2-2.
"Quando desideri una cosa, tutto l'Universo trama affinché tu possa realizzarla" ha scritto tempo fa Paulo Coelho.
Ecco. Io voglio entrare, voglio entrare.
Poi mi basta una palla, solo una palla.
Minuto 74'.
Tocca a me finalmente. Che emozione. Tutti in piedi ad applaudirmi, tribuna compresa. Anche il Presidente.
Commossi, come lo sono io.
Potrebbe anche essere la mia ultima partita, prima della demolizione di questo stadio leggendario.
Quell’unica palla arrivò al minuto 89' su un rinvio del portiere. Una palla difficile da controllare, per uno in quelle condizioni.
Ma c'era il primato della classe sul fisico.
Quel giorno corse verso le tribune pazzo di gioia.
La favola conclusa. bit.ly/3oxDejj
Matthew Le Tissier ha appeso le scarpe al chiodo nel 2002 dopo 443 gare di campionato e 161 gol, segnati.
Sempre con la stessa maglia, il Southampton.
Considerato uno tra i più grandi calciatori inglesi di sempre pur con una bacheca vuota.
Ma vuoi mettere la felicità?
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L’epigrafe sulla mia tomba mi definisce “gloria del genere umano”. Non so.
Avete presente un bambino su una spiaggia che trova, prima una pietra variegata, poi una conchiglia a più colori dinanzi ad un oceano ancora inesplorato?
Ecco, penso di essere stato solo quel bambino.
Su quello che mi accadde nell’estate del 1666, nel giardino della mia casa natale di Woolsthorpe, Voltaire ed Eulero ci hanno ricamato sopra.
Una mela in testa, ma via. In testa no di sicuro.
E quando mai.
Forse è il caso di raccontarvi un po’ della mia vita. Dall’inizio.
Sono nato appunto a Woolsthorpe, nella Contea del Lincolnshire, il 25 dicembre del 1642.
Secondo il calendario giuliano.
Dieci giorni dopo, il il 4 gennaio 1643, secondo il calendario gregoriano.
Quello che forse non sapete, è che sono nato povero. Molto povero.
Si racconta che quell’anno fossero tutti nella mia città. A Vienna nel 1913, intendo.
Tito, Hitler, Stalin, Freud e Trockij.
Arrivai anch’io quell’anno.
Il 25 settembre per la precisione.
Facendo la felicità di mamma Ludmila e di papà Frantisek.
I casi della vita.
Papà era tornato dalla Prima Guerra Mondiale sano e salvo.
Giocava nell’Herta Vienna quando subì un colpo ai reni durante uno scontro di gioco.
Rifiutò di farsi operare.
Lui aveva 30 anni quando morì. Io solo otto.
Mamma si mise a fare la cuoca in un ristorante per mantenere noi figli.
Ero piccolo e mi piaceva giocare col pallone, come papà.
Essendo poveri, senza scarpe naturalmente.
Bravo ero bravo. E soprattutto veloce.
Vi giuro, ho fatto quello che potevo.
E’ tutto registrato. Il radiocronista Andrew West lo stava intervistando.
“Sono qui. Rafer ha afferrato l’uomo che ha sparato. Prendigli la pistola. Il dito…il dito…prendi l’arma Rafer. Bravo, l’hai preso”.
L’ho preso, bloccato, è vero, ma troppo tardi. Quel giorno di più non potevo fare.
E mi dispiace. Da morire.
Non essere riuscito a salvargli la vita, intendo.
Un dispiacere che non ho mai dimenticato.
Mi chiamo Rafer Johnson e sono nato a Hillsboro, Texas, il 18 agosto 1934.
Papà voleva darci un futuro migliore di una baracca senza elettricità e impianto idraulico. Per questo, all’età di nove anni, ci eravamp trasferiti con mio fratello Jim a Kingsburg, in California.
Come anticipato nel thread di ieri sera, che potete leggere nel link sotto, mi chiamo Michail Illarionovič Goleniščev Kutuzov.
Vi stavo raccontando che mi trovavo col mio esercito nel villaggio di Borodino pronto ad affrontare l’esercito di Napoleone. bit.ly/2IpDy3y
Era un bel colpo d’occhio vedere i miei uomini schierati di fronte all’esercito francese lungo tutte le colline. Con quei bei cannoni tutti neri. Il morale alto. Pronto a difendere la Santa Russia e "le mogli e i figli". Il primo sparo? Alle sei di mattina del 7 settembre 1812.
La forza della cavalleria francese era come un bulldozer. Resistemmo fino all’impossibile. Non ci voleva proprio il ferimento del principe Ivanovič Bragation che guidava l’ala sinistra, la mia seconda armata. Un durissimo colpo. (Bragation morirà il 12 settembre)
“La scaltra volpe del Nord” mi definiva.
Che carino. Mai ricambiato.
Per me lui rimaneva sempre “quel vecchio rapinatore”.
Altri mi definivano un essere pigro, capriccioso e insopportabile.
Ambizioso e donnaiolo.
Non so. Troppi difetti per un uomo solo.
Io ero molto altro.
Sono nato a San Pietroburgo, capitale dell’Impero russo, nella notte del 16 settembre 1745.
Mia madre era una Beklemishevy, una famiglia nobile.
Morì quando ero ancora piccolo, dopo aver partorito altri due figli. Mi crebbe nonna.
Mio padre, Ilario Matveevich, aveva servito lo zar Pietro il Grande combattendo contro i turchi. Fu lui a portarmi a corte per conoscere la zarina Elisabetta. Strane abitudini.
Usciva dalla stanza solo la domenica e viveva di notte circondata da poeti, cantanti e amanti.
Aprile 1911.
Settimana scorsa ho mandato in stampa il mio libro. Per evitare una censura da parte delle autorità, dato il contenuto altamente accusatorio nei confronti del Governo italiano, ho cercato di darne ampia diffusione.
Il prefetto voleva impedirmelo.
“In riferimento alla legge 28 giugno 1906 n° 278 non è possibile impedire la diffusione del libro” gli aveva scritto il Procur. Generale. Meno male.
Ho inviato due copie anche al Re e Regina. So che il prefetto va in giro a dire che l’autore di quel “lurido libello” deve pagare.
28 maggio 1911. Ho ricevuto indietro le copie che avevo inviato al Re Vittorio Emanuele e alla Regina Elena. “Il Re vi ringrazia per il pensiero che avete avuto nell’inviare questa vostra opera, ma a Sua Maestà non interessa”. Speravo molto in loro. Di ottenere almeno giustizia.