Sono sorpreso Johannes. Non capisco perché vuoi parlare con me. Sui libri di storia solo un accenno sul mio conto, solo per dire che sono stato sconfitto da Annibale nella battaglia del lago Trasimeno.
Solo quello. E niente più.
Hai letto cosa dicono di me gli storici?
«Sì. Ho letto Polibio e Livio.
Hanno usato parole sprezzanti nei tuoi confronti. Hanno scritto che hai sottovalutato il genio militare di Annibale.
Una domanda.
Molti altri generali sono stati sconfitti da Annibale, perché Polibio e Livio hanno disprezzato solo te?»
Hai ragione Johannes. Non hanno scritto le stesse parole sdegnose su Publio Cornelio Scipione, sconfitto e ferito nella battaglia del Ticino.
Neppure su Tiberio Sempronio Longo, sconfitto da Annibale nella battaglia della Trebbia.
Per non parlare dei generali sconfitti a Canne.
«Vero. Tutti usciti a testa alta. Tutti tranne te.
Non raccontano niente della tua vita, delle tue opere, della tua azione politica.
Giusto ricordare però che gli storiografi erano pagati dal Senato per raccontare gli avvenimenti dell’anno.
Polibio era finanziato da mecenati».
E che mecenati.
Erano gli appartenenti alla famiglia degli Scipioni a proteggerlo e a finanziarlo.
Tutti a Roma sapevano perché il Senato e l’intera classe patrizia mi odiava.
Che poteva fare Polibio?
Non aveva certo quell’autonomia che dovrebbe avere uno storico.
«Credo che a questo punto i lettori vorranno sapere qualcosa di più sul tuo conto.
Hai parlato di opere e di un’azione politica.
E che a Roma i patrizi ti odiavano.
Potresti cominciare col rammentare a tutti come hai perso la vita nella battaglia del Trasimeno»
Dopo la sconfitta subita da Tiberio Sempronio Longo sul fiume Trebbia il Senato pensò bene di affidarmi tutta la campagna contro Annibale.
Mi odiavano, ma era l’unico modo per calmare il popolo dopo le sconfitte sul Ticino e sul Trebbia.
«Funzionò nel calmare il popolo, ma non smisero di osteggiarti in tutti i modi.
La guerra riprese dopo l’inverno.
Muovesti i tuoi uomini verso Arezzo per bloccare Annibale che arrivava da Fiesole.
Altri romani, con a capo Servilio, erano fermi a Rimini».
Annibale ci ingannò ancora.
Oltrepasso Arezzo e iniziò a saccheggiare tutti i territori etruschi alleati di Roma.
Finse poi di dirigersi verso Perugia.
E noi sempre dietro.
A Roma il Senato parlava solo della mia vigliaccheria.
C’era da immaginarselo.
«Dai. Annibale era uno stratega straordinario. Conosceva tutto di voi romani. E di te.
Sapeva che avevi cacciato i Celti dalle loro terre.
Fu semplice per lui convincerli a disertare dalle tue legioni e passare tra le file dei cartaginesi».
Mi ritrovai solo. Invitato dal Senato Servilio non si mosse da Rimini per aiutarmi.
Se avessi lasciato arrivare Annibale a Roma sarei passato alla storia con colui che era fuggito come un coniglio.
Non mi restava altro da fare che tentare di fermarlo.
O almeno provarci.
«E così iniziasti a rincorrere Annibale.
Cadendo nella sua trappola.
Eppure l’avanguardia e i tuoi alleati etruschi ti avevano assicurato che non c’era un solo soldato cartaginese tra le montagne e il lago Trasimeno.
Nessun nemico, e tanta nebbia intorno».
Era il 27 aprile del 217 a. C. quando la cavalleria di Annibale ci fece a pezzi.
Non li vedemmo nemmeno arrivare.
Tutto il mio esercito annientato.
Fu un Gallo, un certo Ducario, a decapitarmi e a farmi a pezzi.
Sparso al vento, per impedirmi una degna sepoltura.
«Annibale ti ammirava.
Conosceva il tuo passato e la tua sincerità. Cercò i tuoi resti per giorni. Invano.
Quando la notizia arrivò a Roma, i senatori parlarono di una sconfitta dei romani in battaglia.
Non ti nominarono nemmeno.
Eppure eri morto da valoroso».
Avevano minimizzato le due precedenti sconfitte subite da Scipione e Longo.
Non fecero altrettanto con me.
Gli storici andarono giù duri. Per tutti oggi sono solo il generale romano sconfitto come un pollo da Annibale. Sul passato nemmeno una parola.
«Vero. Per questo ho voluto raccontare la tua storia. Dobbiamo porre rimedio.
Ora i lettori saranno curiosi di sapere il motivo per cui eri inviso alle famiglie patrizie di Roma e perché il Senato ce l’aveva tanto con te.
Che avevi fatto di così grave?»
Forse è il caso di presentarmi.
Mi chiamo Gaio Flaminio Nepote, eletto nel 233 a.C. tribuno della plebe.
Il titolo di “Tribuno della Plebe” era una delle più importanti cariche della Repubblica romana.
Potevo persino legiferare a dispetto delle decisioni del Senato.
«Conosco la carica.
Era successo tutto con le lotte intestine tra patrizi e plebei dopo la cacciata dei re etruschi.
Però la classe patrizia aveva pur sempre la maggioranza nelle votazioni. Tu eri giovane.
Non appartenevi alla nobiltà.
Come accadde che venisti eletto?»
Probabilmente mi ritenevano un "homo novus" innocuo. Come hai scritto ero molto giovane. Pensavano controllabile. Invece.
La mia prima legge li mandò su tutte le furie. Intendevo distribuire ai veterani e ai poveri le terre conquistate ai Galli.
Per loro fu un oltraggio.
La legge disponeva che le terre dovevano andare a chi aveva rischiato la vita nella guerra contro i Galli. Di più.
La crisi agricola aveva ridotto i plebei alla fame.
I patrizi, che si erano accaparrati quelle terre, nemmeno se ne occupavano.
Troppo lontane».
E quindi niente entrate all’erario.
Cosa c’era di sbagliato nel voler dare della terra ai poveri? Invece la legge suscitò un pandemonio.
Il Senato la rimandò indietro all’Assemblea dei Comitia Centuriata, una delle più importanti assemblee popolari della Res Publica Romana.
«Ma tu non sentisti ragioni.
Il popolo era tutto con te, mentre l’indignazione dei patrizi e del Senato aumentò a dismisura.
Approfittando di un tuo punto debole e grave, secondo loro, cercarono di aizzarti contro il popolo romano. Senza riuscirci».
Non credevo ai loro dei.
E mi facevo beffe delle loro profezie.
Dissero al popolo che se fosse passata quella legge terribili sventure si sarebbero abbattute su Roma.
Mio padre mi chiese piangendo dalla colonna rostrata di revocarla. Inutilmente.
La legge alla fine passò.
«Si è fatto tardi Gaio.
Domani proseguiamo.
La storia si fa interessante perché una di quelle sventure profetizzate dal Senato si sta per realizzare.
E come previsto, il Senato sta per dare tutta la colpa a te.
A domani».
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«Salve Gaio.
Ieri sera (bit.ly/3y8BXUY) abbiamo raccontato che una volta approvata la tua legge, che concedeva ai plebei le terre dei Galli, accadde qualcosa di grave.
Si avverò una delle sventure profetizzate dal Senato. Le tribù galliche si rivoltarono contro Roma».
E il Senato diede la colpa a me. Assurdo.
Delle loro profezie fregava niente.
Come ti ho detto ai loro dei non credevo, figuriamoci alle profezie dei loro aruspici.
Sai, quei sacerdoti che prevedevano il futuro osservando le viscere degli animali sacrificati.
Stupidaggini.
«Stupidaggini, certo. Ma avevano previsto la ribellione dei Celti, o Galli come li chiamavate. Fu gioco facile scatenare il popolo contro di te.
La cosa era seria. Nella capitale Mediolanum erano confluiti migliaia di Celti. Partiti alla volta di Roma avevano assediato Rimini».
Scusa Johannes. Hai parlato con Nerone prima e con Caligola poi. E io chi sono? Sono forse un Imperatore minore rispetto agli altri?
Faccio parte anch’io della dinastia giulio-claudia e quindi non capisco perché non hai ancora raccontato la mia storia.
«Niente di personale Claudio.
Ti volevo lasciare per ultimo perché sei la dimostrazione che dare giudizi su una persona senza conoscerla a volte è sbagliato.
Che non si giudica qualcuno solo dal curriculum o dal titolo di studio.
E nemmeno dal numero di follower».
Questo è vero. Nessuno mi considerava.
Essere insignificante, balbuziente e claudicante, anche se unico maschio adulto della dinastia giulio-claudia, ero stato messo in disparte.
Deriso e sbeffeggiato da mio nipote Caligola.
A proposito. Cosa diavolo sono i follower?
Che ci faccio in questo luogo di dolore?
La logica conclusione, caro Johannes, dopo una vita passata a lottare contro i mulini a vento. Perché nessuno mi vuole dare retta? So di aver ragione, ne sono certo. Sto impazzendo per questa cosa.
Perché mi hanno rinchiuso in manicomio?
«Converrai che la situazione ormai era critica.
I tuoi familiari non avevano scelta.
Ti sei messo a distribuire volantini con accuse ai tuoi colleghi un tantinello eccessivi, non credi?
Li hai definiti assassini.
Un modo strano per farti ascoltare».
Sono assassini.
Scrivi. Oggi, 13 agosto 1865, nel letto di un manicomio, Ignác Fülöp Semmelweis dichiara che quei medici sono assassini.
Senti Johannes.
Ci siamo presentati con una stretta di mano.
Hai lavato le mani prima, vero?
In questi giorni avrei dovuto festeggiare il mio trentesimo compleanno. Peccato.
Oggi, 2 aprile, è comunque una data importante.
Certo, non come un compleanno, sapete, quella cosa con torta e candeline.
Oggi, 2 aprile, sono nove anni esatti che sono morta.
Niente torta di compleanno e niente fiori al mio funerale. Non doveva andare così, non è giusto.
Come non è giusto essere costretti a lasciare la propria terra alla ricerca di un sogno.
Il mio? Una lunga storia. Iniziata con uno sparo in un giorno d’agosto del 2008.
Uno sparo. E poi avevo sentito solo l’urlo della folla.
Non avevo nemmeno lasciato i blocchi che le altre erano già lontane.
Ed ero ancora in curva quando loro già riposavano dopo il traguardo.
Io ultima, anzi, ultimissima.
Eppure negli ultimi 50 metri era accaduto qualcosa.
Il 25 marzo scorso Venezia ha compiuto 1600 anni.
La sua nascita viene raccontata in “Chronaca Altinate”, anche se la data non è storicamente provata.
Ma non è importante per l’impresa che sto per raccontarvi.
Una delle più grandi di Venezia, forse la meno conosciuta.
Era il dieci dicembre del 1438.
Un rumore sordo tra i boschi del Trentino con i taglialegna che stanno avanzando, senza conoscere ostacoli. Gli alberi che cadono uno dietro l'altro.
Cosa sta accadendo? Di cosa stiamo parlando?
Per comprenderlo, dobbiamo fare un passo indietro.
Al 1410, quando la Repubblica di Venezia sa di essere una potenza nel mare (Stato da Mar), ma comprende anche che l’impero bizantino prima o poi cadrà sotto le lame degli Ottomani.
Ha un sacco di interessi commerciali e monetari in Oriente e appoggia la resistenza bizantina.
Lo sapevo che prima o poi sarebbe toccato a me, uno dei matematici più celebri al mondo. Non solo. Filosofo, fisico, astronomo e inventore.
Ti ringrazio Johannes per avermi interpellato.
Da dove vuoi cominciare? Dall’inizio?
Sono nato nel 287 a.C. nella città di Siracusa.
«Lo so dove sei nato Archimede.
E so anche che durante la tua vita ti sei occupato di matematica, geometria, piana e solida.
E poi di astronomia, di ottica, di meccanica, d’idrostatica.
Ma ti ho interpellato per un’altra cosa.
Vorrei parlare con te di…»
Lo so. Lo so. Vuoi che ti racconti la mia infanzia ad Alessandria, capitale culturale del mondo ellenistico. Andai lì per i miei studi di matematica, ma i miei interessi spaziavano dalla musica alla politica, dalla poesia all’astronomia, e poi l’arte e le tattiche militari.