23 agosto 2021.
Quarantatrè anni. Quelli che avrei potuto compiere oggi. Purtroppo è andata diversamente. So che non mi avete dimenticato. Il fatto che Johannes voglia riproporre la mia storia lo dimostra.
Una storia che inizia da una fine.
La mia ultima partita.
Prima o poi doveva succedere.
È stato un percorso lungo, ma ho preso la mia decisione. E mentre aspetto di scendere in campo per l’ultima volta la mia mente corre a quando tutto è iniziato.
A quel “soldo di cacio” che crebbe mangiando gnocchi, lasagne e salsicce.
Mio padre Joe lo chiamavano “Jellybean”, caramella di gelatina, perché lui era sempre sorridente e scherzava di continuo, in campo e fuori.
Voleva trasmettere la sua allegria a chi gli stava intorno.
«Alcune volte clown, altre volte giocatore di basket» scrivevano i giornali.
Mai veramente apprezzato, lasciò gli USA per approdare in Italia. Precisamente a Rieti, nella Sebastiani. Abitavamo in via Pierluigi Mariani al numero 33, ed è lì che cominciai a tirare la palla nel bidone della spazzatura all’angolo della villetta. E poi gli inizi nel minibasket
Nel 1985 giocai il Torneo Plasmon riservato ai nati nel 1975.
Un’eccezione, tanto io ero “il piccolino”.
Pronti, via. 10-0. E tutti a piangere.
Tutti, avversari e compagni. E dagli spalti le urla: «Cacciatelo via, ha stufato, fate giocare tutti! Così non si diverte nessuno!».
Già, perché io la palla non la passavo mai.
Palla, tiro, canestro. Palla, tiro, canestro.
Mi sostituirono e invece di andare a sedermi in panchina, corsi da mamma Pamela sugli spalti a piangere. Ero furioso. Sei anni e già un bel caratterino. Dan Gay veniva spesso a trovarci.
Giocava nella stessa squadra di papà, e io di frequente andavo in palestra a vedere i suoi allenamenti.
A volte lo sfidavo. Era alto 207 centimetri e pesava 109 chili.
Ora lo posso dire: è stato l’unico giocatore al mondo ad avermi sempre schiacciato in testa.
Diciamo però che avevo un’attenuante, visto che all’epoca avevo solo sei anni. Infatti, sono nato il 23 agosto del 1978. Invece oggi è il 16 aprile del 2016. Tra poco lascerò questo sport, il basket, che mi ha dato tutto e che tanto ho amato. A 37 anni, dopo 1.346 gare disputate.
Ho nostalgia dell’Italia. Un Paese che mi ha accolto con tanto amore. Dan lo diceva sempre. Vivere senza tutte quelle risse per problemi razziali come negli Stati Uniti era qualcosa di bello, di diverso. In Italia certi valori avevano un senso profondo. E poi il mangiare, ragazzi
A mamma Pamela non piaceva cucinare, così aveva scoperto quella rosticceria.
Gnocchi, pollo al forno, lasagne, patate, pizza, patatine, salsicce, per la gioia mia e delle mie sorelline. Avevo otto anni quando papà Joe andò a giocare nella Viola di Reggio Calabria.
Per noi ragazzini, era la palestra del liceo scientifico Leonardo da Vinci il nostro campo di gioco.
Eravamo molto amici. Andavamo tutti d’accordo. Almeno fino all’inizio delle partite.
Da quel momento in poi, la volevo tutta per me.
La palla, intendo.
Ero bravo, malgrado quel “piccolo” difetto.
Una volta presa la palla, i miei compagni se la potevano scordare.
Al limite potevano difendere, quello sì, visto che a me non piaceva quel fondamentale.
Papà Joe lo considerava addirittura una perdita di tempo.
Poi ci fu il trasferimento di papà a Pistoia. E dopo ancora a Reggio Emilia. Fu allora che capii che il basket sarebbe stato la mia vita. Il mio traguardo? Giocare nella NBA. Anche se gli Stati Uniti erano lontani, un giorno ci sarei andato. Ne ero certo. Per diventare una stella
Lasciare l’Italia mi costò molto.
Mi sentivo italiano, cresciuto a lasagne e cappelletti e con il Milan nel cuore.
Gli amici, i compagni di squadra, quelli di scuola, e la mia amica Giorgia. Direi, più che un’amica.
Una breve parentesi in Francia e poi a Philadelphia.
Non parlavo bene l’inglese, mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Quello che accadde dopo ormai lo sapete.
Prima alla Lower Merion High School, con il record di punti, poi direttamente tra i professionisti nei Los Angeles Lakers, senza passare dall’università.
Avevo 18 anni e 72 giorni, il giorno del mio esordio.
Un record. Vent’anni giocati ad alto livello con 5 titoli NBA e due medaglie d’oro olimpiche, passando tra infortuni che avrebbero steso chiunque.
Fu un giorno fantastico quando superai nei punti il mio idolo Michael Jordan.
Era il 14 dicembre 2014. Quella volta misi a segno il punto numero 32.293. Terzo marcatore di sempre.
Ma la mia felicità non era dovuta a quel numero, bensì al fatto che in tribuna c’era la mia famiglia, mia moglie Vanessa e le nostre bambine.
Devo molto all’Italia.
Non sarei mai stato quello che sono senza quegli anni trascorsi da voi.
Fin dal primo giorno, quando qualcuno mi chiese quale fosse il mio nome.
Risposi: «My name is Kobe, Kobe Bryant».
Oggi lo posso dire nella vostra lingua.
Il mio nome è Kobe, Kobe Bryant.
Ora devo andare. Sento già la gente che urla a gran voce il mio nome.Oggi, 16 aprile 2016, giocherò l’ultima partita e poi lascerò il basket. Perché «Cara pallacanestro…il mio cuore può reggere il peso, anche la mia mente, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci»
Il 16 aprile 2016, Kobe Bryant giocò la sua ultima partita contro gli Utah Jazz.
Inizialmente una partita anonima, come accade sempre in queto tipo di aprtite.
Poi, improvvisamente, il “soldo di cacio” prese il sopravvento. Kobe Bryant tornò quel bambino che non la passava mai.
Palla, tiro, canestro. Palla, tiro, canestro, trascinò la sua squadra fino all’ennesima vittoria.
Il record precedente di punti in una partita d’addio?
27, appartenente al mitico John “Hondo” Havlicek.
Quel giorno Kobe Bryant di punti ne realizzò 60, tirando cinquanta volte.
Nessuno negli ultimi trent’anni aveva mai tirato così tanto.
Kobe Bryant diede in questo modo l’addio al basket, dopo vent’anni giocati sempre nella stessa squadra, i Los Angeles Lakers, che in seguito ritirarono i suoi numeri, l’8 e il 24.
Bryant aveva annunciato il ritiro con una lettera, che successivamente ha ispirato un cortometraggio di Glen Kean, premio Oscar nel 2018, Dear Basketball.
Una lettera indirizzata alla pallacanestro.
Una lettera d’amore che vale per tutti gli sport. bit.ly/3sGFUhp
Il 26 gennaio 2020, l’elicottero su cui viaggiavano Kobe Bryant, sua figlia Gianna e altre sette persone è precipitato presso le colline di Calabasas.
Buon compleanno, Kobe.
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Finalmente tocca a me Johannes.
Sono rimasto seduto tranquillo lasciando che Giulio Cesare raccontasse la sua versione.
Che non sta in piedi.
Lui ha raccontato di essere stato tradito, pugnalato (in effetti questo è vero), pur essendo stato un benefattore nei nostri confronti.
«I lettori valuteranno.
Con Cesare non siamo riusciti, stante lo spazio, a rispondere alla domanda: “cosa hai ottenuto, tu Bruto e gli altri congiurati, con la sua morte?
Visti i risultati è stata del tutto inutile agli scopi che si prefiggeva.
Quindi politicamente sbagliata»
Perché sbagliata? Ma hai idea di cosa fosse diventato Giulio Cesare negli ultimi anni? Sempre più autoritario. Tra i sessanta senatori della congiura c’erano anche dei cesariani moderati contrari alla svolta autocratica di Cesare. Che mai avrebbe restaurato lo Stato repubblicano.
Vuoi parlare un’altra volta con me, Johannes?
Non è che nei thread precedenti mi hai trattato bene.
Tra tutte le mie conquiste hai voluto raccontare l’unico mio errore, l’assedio in Alessandria.
E poi hai parlato pure di Cleopatra.
Ricorda che io sono Gaio Giulio Cesare.
«Gaio il praenomem, Giulio la gente di appartenenza, nel tuo caso la gens Giulia, Cesarem il cognomen, dalla famiglia.
Volevo parlare con te della tua morte.
Lo so, “tra tutte le conquiste …”, l’hai già detto.
Ma vedi. Penso che vada raccontata.
Erano senatori Gaio».
E mi hanno pugnalato ventitré volte quei vigliacchi. Senatori, persone rispettabili, che nascondevano un pugnale sotto la toga, per uccidere uno del loro rango.
Chi è che si sta avvicinando?
Johannes, io quello non lo voglio vedere dopo quello che mi ha fatto.
«No Cleopatra, Cesare non c’è. Abbiamo chiacchierato per un paio di thread e ho avuto come l’impressione che non volesse sentir parlare di te. Ha ripetuto “storia finita”, nulla più. Non ha risposto nemmeno alla domanda se fosse finito nella trappola di Alessandria per amore tuo»
Hai raccontato come ci siamo incontrati? Giulio Cesare era l’unica possibilità di riconquistare il trono e per sfuggire agli uomini di mio fratello un servitore mi portò nel palazzo nascosta in un sacco per tappeti.
Perché quella faccia Johannes? Hai scritto “dentro un tappeto?”
«Ho sbagliato, scusa.
Un’errata traduzione degli storici. Era un sacco per tappeti. Conquistare i favori di Cesare non ti fu difficile. Eri bellissima, colta, elegante e soprattutto seducente. E giovane. A Cesare, in su con gli anni, non parve vero di avere accanto una come te»
«Salve Gaio Giulio Cesare. Ieri abbiamo parlato dell’assedio di Alessandria.
Tu chiuso in trappola dall’esercito egiziano ( leggere qui bit.ly/3DzE1YX ).
“Un conflitto non necessario”, come racconta Plutarco. Unico sollievo, avere vicino a te Cleopatra».
Salve et tu, Johannes. Scusa, ma non voglio parlare di lei. Storia finita. Fattela raccontare da lei.
Voglio invece dire ancora qualcosa sul rischio che ho corso ad Alessandria.
Ricorda che io ero un politico prestato alla guerra. Malgrado questo ero praticamente imbattibile.
«Lo so. Imbattibile nelle guerre asimmetriche, quelle in cui tra i contendenti c’è una disparità non solo di forze, ma anche di strategia e tattica.
Hai scritto molto al riguardo nei libri del De bello Gallico, il racconto della tua conquista della Gallia».
Dunque Johannes hai dialogato con tutti ormai. Con Augusto, con Caligola, persino con Nerone. Con donne romane come Livia Drusilla e Messalina e con nemici di Roma come Annibale e Pirro. Per non parlare di quel vigliacco di Gaio Flaminio Nepote sconfitto da Annibale sul Trasimeno
«Piano con le offese. Gaio Nepote meritava un dialogo. Molti altri sono stati sconfitti da Annibale, ma Polibio e Livio si sono guardati bene da sottolinearlo.
Publio Cornelio Scipione o Tiberio Sempronio Longo, per esempio.
Per non parlare dei generali sconfitti a Canne».
Gaio Flaminio Nepote era stato eletto tribuno, portavoce delle istanze della plebe.
Che poteva legiferare.
E cosa ti inventa con la prima legge?
Distribuire ai poveri le terre conquistare ai Galli. Capisci? Le terre che spettavano ai patrizi lui li voleva dare ai poveri.
«Troppo piccola» mi dissero.
«Non possiedi i giusti parametri fisici per giocare ad alto livello. Per questo non potrai mai giocare in Nazionale.» Io non capivo. Amavo quello sport. Avevo cominciato a giocarci a dieci anni e già a tredici avevo esordito nel campionato nazionale.
L’inizio dell’ultima storia di “Non esistono piccoli campioni”, quella sulla cubana Mireya Luis, sembra la storia della mia vita, Johannes.Troppo piccolo.Da non poter giocare nell’NBA. Eppure io amavo e amo giocare a basket. Forse è il caso di raccontare la mia storia dall’inizio
Papà era un appassionato di Basket NBA.
Vecchio tifoso dei Lakers, dopo che io ero nato, il 7 febbraio 1989, aveva fatto una scommessa con un amico durante le Finals di quell’anno.
I LA Lakers contro i “cattivi ragazzi”, come venivano chiamati i Detroit Pistons.