«Salve Gaio Giulio Cesare. Ieri abbiamo parlato dell’assedio di Alessandria.
Tu chiuso in trappola dall’esercito egiziano ( leggere qui bit.ly/3DzE1YX ).
“Un conflitto non necessario”, come racconta Plutarco. Unico sollievo, avere vicino a te Cleopatra».
Salve et tu, Johannes. Scusa, ma non voglio parlare di lei. Storia finita. Fattela raccontare da lei.
Voglio invece dire ancora qualcosa sul rischio che ho corso ad Alessandria.
Ricorda che io ero un politico prestato alla guerra. Malgrado questo ero praticamente imbattibile.
«Lo so. Imbattibile nelle guerre asimmetriche, quelle in cui tra i contendenti c’è una disparità non solo di forze, ma anche di strategia e tattica.
Hai scritto molto al riguardo nei libri del De bello Gallico, il racconto della tua conquista della Gallia».
Lì ho scritto tutto su come si combatte contro guerriglieri che usano la tecnica “colpisci e fuggi”.
C’è spiegato tutto.
Ma in quei libri racconto anche innumerevoli curiosità su quel barbari.
I loro usi e costumi. Assolutamente da leggere.
«Assolutamente è una parola grossa, dai.
E’ il classico resoconto del vincitore.
Lo so che la storia la scrivono i vincitori ed è normale che tu difenda il tuo operato, ma non so quanto sia attendibile.
Comunque ti ricordiamo tutti come uomo politico, non come scrittore».
Uno sbaglio.
Sia il “De bello Gallico” che il “De bello civili” sono opere straordinarie.
Comunque devi far sapere a tutti che le legioni romane hanno avuto il miglior comandante di guerre “asimmetriche”.
Il più grande di tutti. Io, Gaio Giulio Cesare.
«Guerre asimmetriche. Un concetto tutto particolare. Penso che il concetto di asimmetria, per quanto riguarda le guerre, sia un concetto che lascia a desiderare.
Quando mai è esistita parità assoluta tra i contendenti. Dai. Praticamente impossibile».
Su questo hai ragione. Naturalmente io ti posso raccontare come agivo io. Mai fatto uso di brutalità gratuita. Il minimo della violenza, quanto bastava per cominciare ad usare l’arma della diplomazia. Di più. Prima offrivo la pace. Poi, solo in caso di rifiuto, scendevo in guerra
«Hai scritto che faceva parte della tradizione romana. Come se la guerra di annientamento o di sterminio fosse sconosciuta a voi romani.
Non ti ricorda niente Cartagine? Un massacro.
I superstiti venduti come schiavi. E la parola Debellatio? Sai cosa significava vero?»
“Debellatio”. Era il termine della che usavamo a Roma per indicare la fine di una guerra causata dalla completa distruzione di uno stato ostile.
La Conquista della Gallia non fu una guerra di sterminio.
Prendi gli Elvezi.
Era il 58 a.C., il primo anno delle guerre galliche.
«Ricordo.
Avevano invaso con le armi i protettorati romani della Gallia meridionale.
Avevi chiesto loro di lasciare quei territori e di fronte al loro rifiuto, allora e solo allora, li affrontasti con le tue legioni.
Ricacciandoli da dove erano venuti».
Vero. Ma prima di respingerli in modo definitivo ricevetti l’ambasceria del vecchio capo Divicone.
Il suo fu un discorso molto duro contro noi romani.
Il mio non fu da meno.
Le trattative fallirono e tutto si risolse a mio favore nella battaglia di Bibracte.
«E quella secondo te fu una guerra asimmetrica? Secondo me di sterminio.
Gli Elvezi dovettero rientrare nei loro territori, è vero, ma erano partiti in 370.000.
Ritornarono vivi alle loro terre in 110.000.
I numeri li hai scritti tu, nel “De bello gallico”».
Lo ripeto. Prima offrivo la pace.
Almeno durante tutto il primo anno.
Vedi Johannes, in questo tipo di guerre il problema non è sconfiggerli militarmente.
La priorità, da parte mia, era quella di trovare un accordo per mettere in campo regole per una pacifica convivenza.
«Cioè.
Tu vorresti dire che il dialogo veniva prima di tutto. Sorge allora una domanda. Ma non era pericoloso? Erano barbari, potevano benissimo fregarsene di tutti gli accordi. Potevano ribellarsi.
Nel caso avresti messo in pericolo i tuoi uomini. Tremendamente rischioso».
Alternative? Facile dire, questo non si deve fare, quest’altro nemmeno.
Alternative Johannes, mi devi dare delle alternative. Una guerra di sterminio?
Ma sì, avrei dovuto spazzare via tutto, rinchiuderli tutti nelle riserve, e ripopolarli con gente italica che meno barbara era.
«Detta così.
Ricorda che stai parlando con uno che le guerre le racconta, ma che è contro qualsiasi tipo di violenza. Odio le armi, persino quelle detenute legalmente che, stando agli ultimi dati, uccidono, eccome se uccidono. Soprattutto donne».
Allora. Dialogare no, perché troppo rischioso.
Una guerra di sterminio no perché ti fa ribrezzo.
Erano altri tempi Johannes.
Magari oggi avete abbandonato l’uso delle armi, ma ai miei tempi non avevo molte alternative.
Non sarei mai diventato quello che sono senza guerre.
«Non so. Però ti riconosco che le tue decisioni militari non sono state mai brutalità gratuita.
Come hai detto appena ne avevi la possibilità interrompevi l’azione militare per lasciare spazio alla diplomazia.
Pur rischiando di tuo.
Guai però a rinnegare la parola data».
Garantivo amnistie a chi si arrendeva.
Un modo per incoraggiare chi voleva ribellarsi.
Però per fare cose del genere serve una guida politica forte e capace. Carismatica. Come lo ero io.
La mia clemenza verso i vinti era abbastanza singolare ai quei tempi.
«Guai però a non rispettare la parola data.
Una delle peggiori crisi fu causata dagli Eburoni nel 54 a.C. Dopo aver promesso il libero passaggio alle legioni di Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta, una volta sul loro territorio massacrarono 6.000 romani»
E la pagarono cara. Eccome se la pagarono cara. Ecco. Un consiglio.
Mai trattare con avversari armati durante una guerra asimmetrica.
Se tratti puoi incoraggiare altri a prendere le armi.
Io miravo a non combattere due volte lo stesso avversario. Disarmandoli.
«Una domanda. So che nel sistema socio-giuridico romano antico la guerra era ritenuta un sacrilegio perché poteva provocare la reazione degli dei.
Che fine fece il collegio dei 20 Fetiales che preservava gli aspetti formali del diritto bellico di Roma».
I Fetiales. Diciamo che erano tipo degli ambasciatori.
Erano loro a dichiarare guerra, loro a fare accordi di pace.
Accordi che spesso portavano ad un indennizzo per riparare i danni subiti dal popolo romano.
Un collegio scomparso nell'età augustea.
Grazie della chiacchierata Cesare.
Però non hai risposto alla domanda che ti avevo fatto alla fine del thread precedente.
Sei finito nella trappola alessandrina per amore di Cleopatra o per altro motivo?
Dove vai Cesare. Fermati. Perché non rispondi? Cesareeeeee
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Finalmente tocca a me Johannes.
Sono rimasto seduto tranquillo lasciando che Giulio Cesare raccontasse la sua versione.
Che non sta in piedi.
Lui ha raccontato di essere stato tradito, pugnalato (in effetti questo è vero), pur essendo stato un benefattore nei nostri confronti.
«I lettori valuteranno.
Con Cesare non siamo riusciti, stante lo spazio, a rispondere alla domanda: “cosa hai ottenuto, tu Bruto e gli altri congiurati, con la sua morte?
Visti i risultati è stata del tutto inutile agli scopi che si prefiggeva.
Quindi politicamente sbagliata»
Perché sbagliata? Ma hai idea di cosa fosse diventato Giulio Cesare negli ultimi anni? Sempre più autoritario. Tra i sessanta senatori della congiura c’erano anche dei cesariani moderati contrari alla svolta autocratica di Cesare. Che mai avrebbe restaurato lo Stato repubblicano.
Vuoi parlare un’altra volta con me, Johannes?
Non è che nei thread precedenti mi hai trattato bene.
Tra tutte le mie conquiste hai voluto raccontare l’unico mio errore, l’assedio in Alessandria.
E poi hai parlato pure di Cleopatra.
Ricorda che io sono Gaio Giulio Cesare.
«Gaio il praenomem, Giulio la gente di appartenenza, nel tuo caso la gens Giulia, Cesarem il cognomen, dalla famiglia.
Volevo parlare con te della tua morte.
Lo so, “tra tutte le conquiste …”, l’hai già detto.
Ma vedi. Penso che vada raccontata.
Erano senatori Gaio».
E mi hanno pugnalato ventitré volte quei vigliacchi. Senatori, persone rispettabili, che nascondevano un pugnale sotto la toga, per uccidere uno del loro rango.
Chi è che si sta avvicinando?
Johannes, io quello non lo voglio vedere dopo quello che mi ha fatto.
«No Cleopatra, Cesare non c’è. Abbiamo chiacchierato per un paio di thread e ho avuto come l’impressione che non volesse sentir parlare di te. Ha ripetuto “storia finita”, nulla più. Non ha risposto nemmeno alla domanda se fosse finito nella trappola di Alessandria per amore tuo»
Hai raccontato come ci siamo incontrati? Giulio Cesare era l’unica possibilità di riconquistare il trono e per sfuggire agli uomini di mio fratello un servitore mi portò nel palazzo nascosta in un sacco per tappeti.
Perché quella faccia Johannes? Hai scritto “dentro un tappeto?”
«Ho sbagliato, scusa.
Un’errata traduzione degli storici. Era un sacco per tappeti. Conquistare i favori di Cesare non ti fu difficile. Eri bellissima, colta, elegante e soprattutto seducente. E giovane. A Cesare, in su con gli anni, non parve vero di avere accanto una come te»
Dunque Johannes hai dialogato con tutti ormai. Con Augusto, con Caligola, persino con Nerone. Con donne romane come Livia Drusilla e Messalina e con nemici di Roma come Annibale e Pirro. Per non parlare di quel vigliacco di Gaio Flaminio Nepote sconfitto da Annibale sul Trasimeno
«Piano con le offese. Gaio Nepote meritava un dialogo. Molti altri sono stati sconfitti da Annibale, ma Polibio e Livio si sono guardati bene da sottolinearlo.
Publio Cornelio Scipione o Tiberio Sempronio Longo, per esempio.
Per non parlare dei generali sconfitti a Canne».
Gaio Flaminio Nepote era stato eletto tribuno, portavoce delle istanze della plebe.
Che poteva legiferare.
E cosa ti inventa con la prima legge?
Distribuire ai poveri le terre conquistare ai Galli. Capisci? Le terre che spettavano ai patrizi lui li voleva dare ai poveri.
«Troppo piccola» mi dissero.
«Non possiedi i giusti parametri fisici per giocare ad alto livello. Per questo non potrai mai giocare in Nazionale.» Io non capivo. Amavo quello sport. Avevo cominciato a giocarci a dieci anni e già a tredici avevo esordito nel campionato nazionale.
L’inizio dell’ultima storia di “Non esistono piccoli campioni”, quella sulla cubana Mireya Luis, sembra la storia della mia vita, Johannes.Troppo piccolo.Da non poter giocare nell’NBA. Eppure io amavo e amo giocare a basket. Forse è il caso di raccontare la mia storia dall’inizio
Papà era un appassionato di Basket NBA.
Vecchio tifoso dei Lakers, dopo che io ero nato, il 7 febbraio 1989, aveva fatto una scommessa con un amico durante le Finals di quell’anno.
I LA Lakers contro i “cattivi ragazzi”, come venivano chiamati i Detroit Pistons.
23 agosto 2021.
Quarantatrè anni. Quelli che avrei potuto compiere oggi. Purtroppo è andata diversamente. So che non mi avete dimenticato. Il fatto che Johannes voglia riproporre la mia storia lo dimostra.
Una storia che inizia da una fine.
La mia ultima partita.
Prima o poi doveva succedere.
È stato un percorso lungo, ma ho preso la mia decisione. E mentre aspetto di scendere in campo per l’ultima volta la mia mente corre a quando tutto è iniziato.
A quel “soldo di cacio” che crebbe mangiando gnocchi, lasagne e salsicce.
Mio padre Joe lo chiamavano “Jellybean”, caramella di gelatina, perché lui era sempre sorridente e scherzava di continuo, in campo e fuori.
Voleva trasmettere la sua allegria a chi gli stava intorno.
«Alcune volte clown, altre volte giocatore di basket» scrivevano i giornali.