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Mi chiamo Gina. Nome di battaglia Lia.
E voi avete un problema.
Comincia sempre così. Prima qualche fiocco di neve.
Poi una palla di neve.
Che piano piano diventa valanga. E mentre pensate “vediamo come va a finire” la valanga comincia a rotolare a valle.
E siete fottuti.
Come riconoscere i primi fiocchi?
Per esempio quando si imbratta con svastiche un murale, e voi a dire “che volete che sia, è stata solo una bravata”.
Già. Peccato che quel murale fosse dedicato a me.
Questo è successo nel 2014.
E poi via di fiocco in fiocco.
E così nel 2018 hanno pensato bene di spaccare la targa che mi hanno dedicato a Milano in zona Niguarda nel giardino di via Hermada.

Cosa ho fatto per meritarmi un murale e una targa? Mettetevi comodi.
Vi racconto la mia storia.
Mi chiamo Gina Galeotti e sono nata a Mantova il 4 aprile 1913, ma vissuta quasi sempre a Suzzara.
Ricordate i vostri 16 anni? Come sono stati? Felici? Spensierati? Sono contenta per voi.
Io a quell’età entrai in un movimento antifascista. Altri tempi.
In quegli anni riuscii a prendere il diploma di ragioneria e, nel 1938, sposai Bruno, un operaio sindacalista e partigiano comunista di Suzzara.
Povero Bruno.
Condannato dal Tribunale Speciale fascista aveva trascorso anni nel carcere di San Vittore.
Io lo seguii presto.
Nel carcere intendo.
Ricordate gli scioperi a Milano del 1943? Facevo parte dell’organizzazione e per questo fui arrestata. Mi portarono nel carcere di Parma per farmi parlare. Mi interrogarono 33 volte in 4 mesi. Torturandomi.
Naturalmente senza ottenere nessuna informazione.
Venni liberata l’8 settembre del 1943. Tornai a Milano ed entrai immediatamente nella Resistenza. Organizzavo le donne nel quartiere Niguarda. Procuravo viveri e medicine. Diffondevo stampe clandestine e nascondevo persone ai fascisti. Curavo anche i bambini rimasti orfani.
Fino al 25 aprile del 1945. So che per voi è una data simbolo, la Festa della Liberazione (anche se qualcuno preferisce non festeggiare).
La guerra finì quel giorno a Torino e nella mia Milano. Un giorno bellissimo, che doveva essere veramente di festa.
Non lo fu per me.
Quel giorno ero in compagnia dell’amica Stellina Vecchio, nome di battaglia “Lalla”. Stavamo portando ordini ai partigiani. Forse quello dell’insurrezione generale per gli operai delle fabbriche del nord o forse un passaggio di consegne alle donne del quartiere, non ricordo.
Facevo parte fa parte con Stellina del "Gruppo di Difesa della Donna" associazione che durante la Resistenza aveva il compito di volantinare e fare da staffetta.
Per le donne era più facile non venire controllate, quindi ci consegnavano anche armi da consegnare ai partigiani.
Un compito pericoloso, ma quel giorno ero felice.
Ricordo che dissi a a Stellina: “domani verrà liberato mio marito da San Vittore e, quando nascerà il nostro bambino, non ci sarà più il fascismo”.
Già. Avete capito bene.
Portavo in grembo un bimbo. Il mio bimbo di otto mesi.
Io e Stellina arrivammo all’altezza dell’ospedale di Niguarda. Sentimmo dei forti rumori provenire dalla Bicocca.
“Forse è meglio fare il giro dietro l’ospedale” disse Stellina. Ma io rifiutai.
"Mai scappare, siamo o non siamo donne coraggiose?"
Giuro che non vidi i nazisti a lato della strada. Almeno fino a quando ce li trovammo di fianco. E fu troppo tardi per scappare.
Da quel camion pieno di tedeschi partirono raffiche di mitraglia. Raffiche fatali per me, che morii all’istante, e per il bimbo che portavo in grembo.
“Quando nascerà il nostro bambino, non ci sarà più il fascismo” avevo appena detto all’amica Stellina (che fortunatamente rimase illesa).
Non andò così, ma via, il nostro sacrificio ha permesso a voi di nascere in un Paese senza fascismo.
Quindi non è stato vano. Anzi.
Stellina non si è mai data pace. "Perché non io? Io, una ragazza senza impegni, senza legami…lei aveva il suo bambino".
Povera Stellina.
Mi ha raggiunto nella notte tra sabato e domenica del 25 settembre 2011.
Io Gina Galeotti, nome di battaglia "Lia" e lei Stellina Vecchio, nome di battaglia "Lalla".
Di nuovo insieme.
Come allora.
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