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Mi chiamo Helene Hannenmann e sono una donna tedesca.
Ariana.
Oggi è un giorno di maggio del 1943.
Mi sono svegliata facendo le solite cose.
Un giorno come un altro. Almeno, lo doveva essere.
Mi sbagliavo. Non fu proprio un giorno come un altro.
Per niente.
Blaz si era svegliato nervoso per via di una verifica a scuola.
Otis con un forte mal d’orecchio.
I gemelli stavano bene, ma si alzavano sempre con gran fatica.
E poi la piccola Adalia, di tre anni, il mio scricciolo, il mio angioletto.
E poi c’era lui, mio marito Johann.
Quando ci eravamo sposati molti mi avevano detto di stare attenta, che mi avrebbe rubato qualcosa.
Perché mi dicevano questo? Lui era di etnia rom.
O meglio. Zingari, come preferivano chiamarli i tedeschi.
Si erano ricreduti dopo che era entrato nella Filarmonica di Berlino.
Era tempo di portare i bambini a scuola.
Arrivata al pianerottolo del secondo piano sentii un rumore di stivali salire le scale. Molti stivali.
Ebbi un tuffo al cuore. Cominciò a mancarmi l’aria.
“Frau Hannemann, temo che debba accompagnarci di nuovo al suo appartamento”.
Riportai i bambini in casa.
Johann spalancò la porta e ci fece entrare.
“Lei è Johann Hanstein?”, chiese il sergente. “Sì, Herr Polizist”, rispose mio marito.
“Per ordine del Heinrich Himmler, tutti i sinti e i rom del Reich devono essere internati in campi speciali”
Mi venne da vomitare quando mi dissero:“anche i bambini devono venire con noi”. Mi sorpresi a rispondere: “Li preparo in un attimo. Verremo tutti con lei. “No, lei è tedesca, può rimanere”. Non sentii nemmeno l’ultima frase.
O feci finta di non averla sentita. E andai con loro.
Non potete immaginare il mio dolore. Vi aiuto io.
Provate ad immaginarvi una madre che carica i suoi 5 bambini su un carro bestiame. Fatto?
Non è finita. Ora provate ad immaginare 3 giorni di viaggio senza mangiare tra puzza di vomito, urina e feci.
Ecco.
Immaginate di vedere in quei tre gioni morire persone nel vagone, accatastate poi in un angolo.
E poi il bimbo morto nelle braccia di sua madre.
Quello no, non potete immaginarlo. Neppure il dolore della madre.
E l’arrivo al campo nella sezione BIIe di Auschwitz II-Birkenau.
“Dove andiamo, mamma?”, mi aveva chiesto Blaz, il più grande.
“In un campeggio come quelli in cui ti mandavo da piccolo in estate. Te lo ricordi?”, gli avevo risposto.
“Possiamo portarci la palla? Anche i pattini e qualche gioco?”
Cosa potevo dire loro.
Ditemi. Che cosa?
Invece eravamo finiti allo Zigeunerlager, il “campo delle famiglie zingare”.
Se pensate di aver già letto cose orribili vi sbagliate.
La cosa più orribile fu il tatuaggio.
Non tanto il mio, e neppure quello dei maschietti che allungarono il braccio senza fiatare.
Fu quello su Adalia, il mio angioletto di tre anni con il braccino troppo piccolo per un tatuaggio.
Fui costretta ad abbassarle la calzamaglia bianca e scoprire le sue piccole gambette e lasciarla marchiare sulla coscetta.
Un numero con la Z di zingaro davanti.
Fu orribile.
Mi fermo qui, anche perché so che Johannes si immedesima troppo in queste storie e poi ne soffre.
Vi dico solo che fui incaricata di aprire e dirigere un Kindergarten (un asilo) nel campo.
E che lui mi scelse perché, essendo tedesca, avrei svolto al meglio il mio lavoro.
Come va a finire la storia? Finisce su un camion. Stringendo a me i miei bambini e cantando loro una ninna nanna, mentre tutti gli altri prigionieri piangono.
E' la notte tra il 2 e 3 agosto del 1944.
La mia storia e dei miei cinque figli è vera.
Se volete, e se ve la sentite, la potete leggere in un libro di Mario Escobar.
I nomi dei miei figli sono stati cambiati.
Mario racconta pure che uno dei miei figli si salvò. Forse una speranza.
Perché non andò così. Morimmo tutti
Io avrei potuto salvarmi? Certo.
Mi offrirono anche allora la possibilità di andarmene, di tornare a una vita normale abbandonando i miei cinque bambini.
Feci quello che ogni mamma avrebbe fatto. Anche voi.
Passai dal camino insieme a loro.
Dimenticavo.
Forse vi state chiedendo chi era quel fantomatico “lui" che mi aveva incaricato di gestire il cosiddetto Kindergarten, una sorta di asilo nido e scuola materna in cui furono inclusi bambini sotto i 6 anni.
Lo conoscete.
Lui era Josef Rudolf Mengele.
Proprio lui.
Quello che fece uccidere 1.500 prigionieri (malati di tifo) in una mattinata perché disse: “La Germania sta mantenendo migliaia di persone che non appartengono alla razza ariana, ma non può farlo gratis, né per rispetto di assurdi principi umanitari”.
Già, assurdi.
Mi chiamo Helene Hannenmann.
Mio marito e miei cinque figli hanno commesso un crimine atroce per i nazisti.
Sono nati rom. E questo ha decretato la loro e la mia morte.

Ora provate a rispondere a questa domanda: “Come è possibile essere considerati criminali per nascita?”
Ad Auschwitz-Birkenau furono deportati Rom e Sinti da tutta l’Europa.
Circa 21.000 esseri umani. 9.500 i bambini al di sotto dei 14 anni.
380 quelli che nacquero nel Campo.
Un prigioniero polacco Tadeusz Joachimowski (matricola 3720), salvò il libromastro dello Zigeunerlager.
Nel 1993 e’ stato pubblicato dal Museo di Auschwitz il libro dal titolo: “Libro della Memoria dei Sinti e Rom nel Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau”.
Dentro ci sono i nomi di quei 21.000 esseri umani.
Uccisi.
Uccisi solo per essere nati rom.
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