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Oggi è il 31 gennaio 1944. E non ho molto tempo. Sta per toccare a me, quindi è il caso che mi sbrighi a raccontarvi la mia storia. Sono nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896.
A 15 anni iniziai a giocare a calcio nei ragazzi del Torekves. A 17 ero già in prima squadra
Scusate, ma devo andare veloce.
Nella prima guerra mondiale partii volontario nell’esercito austro-ungarico e durante la 4a battaglia dell'Isonzo venni catturato da voi italiani e internato a Trapani.
Finita la guerra, tornai nella mia Ungheria, ricominciando a giocare a calcio
Tornai in Italia nel 1925 ingaggiato dall’Internazionale di Milano. Giocai poco, troppi infortuni.
Smisi di essere un giocatore e, seppur giovane, l’Internazionale mi promosse allenatore. Nel 1926-27 un quinto posto. Ma l’anno successivo, dopo un settimo posto, venni licenziato.
Niente di che, ma avevo fatto esordire un ragazzino di 17 anni. Ricordo che alla prima partita, negli spogliatoi, il vecchio Leopoldo Conti mi disse:” Adesso facciamo giocare anche i balilla!”.
Giocò quella partita, e segnò tre reti.
Nessuno si lamentò più di Giuseppe Meazza
Licenziato tornai in patria ad allenare lo Szombathely.
Nell’estate del 1929 la sorpresa. Un'altra chiamata dall'Italia, ancora dall’Internazionale. Che però nel frattempo era diventata Ambrosiana-Inter.
ll 24 settembre dello stesso anno sposai Elena.
Ambrosiana. Era un periodo in cui quello aveva la mania di italianizzare tutto. Prima vi ho detto che mia moglie si chiama Elena. Non è vero. Si chiama Ilona Rechnitzer. Ma quello era ossessionato dai nomi stranieri. E così la mia Ilona era diventata Elena.
Ma torniamo al calcio
Stagione 1929-1930. Primo campionato a girone unico. Lo vincemmo. Avevo 34 anni. Sapete che sono ancora il più giovane allenatore ad avere vinto uno scudetto? Alla fine di quella stagione scrissi con Aldo “Il giuoco del calcio”. Se volete fare l’allenatore leggetelo. Attualissimo
Perdonate, ma manca poco. Devo accelerare. Dopo la nascita di Roberto, il mio primogenito, l’anno successivo ottenni un quinto posto, e così finii al Bari.
Poi di nuovo a Milano e ancora un quinto posto. Con una finale di Coppa Europa persa
Nel 1934 sono a Novara dove nasce Clara.
E poi a Bologna. Un giorno vi racconterò come riuscii a vincere lo scudetto utilizzando solo 14 giocatori. E’ un record, sapete?
E poi quel giorno, il 6 giugno 1937 a Parigi. Torneo Internazionale dell'Expo Universale a inviti
Per la prima volta una loro squadra era uscita dai confini. Loro chi?
Di quelli che avevano sempre avuto la puzza sotto il naso, “che il calcio lo abbiamo inventato noi e voi non siete niente”
Vabbè, lasciamo perdere. Incontrammo il Chelsea proprio in finale. E li massacrammo.
Con me alla guida, il Bologna fu la prima squadra a sconfiggere una compagine inglese in un torneo internazionale.
Niente male vero?
Ma non era stato difficile. In fondo eravamo «lo squadrone che tremare il mondo fa».
Nel 1937-38 al quinto posto. Nella stagione 1938-39 puntavamo allo scudetto quando a quello non bastò più cambiare i nomi.
Passò direttamente alle leggi razziali.
E noi eravamo ebrei. Come i miei genitori, Lazzaro e Sofia Weisz.
DImenticavo. Mi chiamo Árpád Weisz.
Il 10 gennaio 1939 con moglie e figli lasciai Bologna, diretto a Parigi. Mi tolsero il Bologna, il mio Bologna. Che fu affidato alla conduzione dell’austriaco Hermann Felsner. Che vinse un altro scudetto.
Il quinto per quella splendida città.
Ma io in quel momento ero altrove.
Per la precisione in Olanda a guidare il Dordrecht. Poi anche in Olanda arrivarono i tedeschi.
I miei tesori, Roberto e Clara furono espulsi da scuola e a me vietarono di lavorare.
"Jude", e una stella gialla addosso.
Era il 2 agosto 1942 quando la Gestapo ci arrestò tutti.
Nel campo di raccolta di Westerbork ci separarono e io fui inviato ai lavori forzati nell’Alta Slesia.
Mia moglie Ilona, Roberto di dodici anni e Clara di otto, erano scesi ad una fermata intermedia.
Auschwitz-Birkenau.
E ad Auschwitz mi hanno riportato quando sono diventato troppo debole per lavorare.
Conosco la fine che hanno fatto mia moglie Ilona, Roberto e Clara.
Passati da un camino, come tutti.
Dicono che nel campo la vita media sia di quattro mesi e io sono qui da sedici. Troppi ormai.
Oggi è 31 gennaio 1944, almeno credo. E sto morendo. Troppe sofferenze.
Freddo, fame, solitudine, disperazione.
Ma sono contento. Per la fine delle sofferenze certo, ma soprattutto perché sto per raggiungere i miei cari.
Finalmente uniti. Per sempre.
Se volete approfondire la storia di Árpád Weisz leggete “Dallo scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo” di @matteomarani E’ grazie a lui che Weisz ha ora il posto che merita nella storia del calcio. Che Matteo sia laureato in storia non è certo un caso.
Grazie a @frisaliti per avermi suggerito di raccontare la storia di Árpád Weisz e della sua famiglia. Vittime delle leggi razziali. Emanate da quello che “ha fatto anche cose buone”, che un giorno decise che gli ebrei
non dovevano più avere diritti.
Anche quelli più elementari
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