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“Abolire i pantaloni rossi? Mai! I pantaloni rossi sono la Francia”.A pronunciare queste parole fu, nel 1913, il ministro della guerra del mio Paese, Eugène Etienne. Arrivò la guerra e i pantaloni continuarono ad essere rossi. Lo stesso colore della guerra franco-prussiana (1870)
Non so che tipo di guerra avessero in mente i nostri governanti. Il rosso era il colore ideale per un tiro al bersaglio. Soprattutto dopo aver sostituito la polvere nera, che offuscava i campi di battaglia dopo una scarica, con la polvere senza fumo nei proiettili.
Quel rosso costò la vita a migliaia di “poilus”. Già, ci chiamavano così, noi fanti francesi della prima guerra mondiale.
“Pelosi” perché molti di noi contadini portavano barba e baffi. E amavano il Pinard, vino a buon mercato.
Non furono però le migliaia di morti a convincere il governo francese a cambiare colore dal rosso al bleu horizon.
Fu quando scoprirono che il colore rosso che serviva a colorare i pantaloni era prodotto in Germania.
Ma per quel rosso, io ero già morto.
Mi chiamo Lucien Bersot, fabbro e affettuoso marito, padre di una bambina.
Ero nato il 7 giugno 1881 ad Authoison in Haute-Saône da una famiglia di piccoli agricoltori.
Facevo il maniscalco quando venni arruolato all’inizio del conflitto.
Arruolato nel 60° Reggimento di Fanteria. Nonostante il mio pensiero fosse rivolto a mia moglie e a mia figlia, col desiderio costante di andare in licenza per poterle rivedere, ero un bravo soldato, coraggioso e solidale con i compagni.
Per questo mi spettavano quei pantaloni.
Nel gennaio del 1915 avevamo perso in combattimento vicino a Soissons nell'Aisne 1.500 uomini.
Faceva freddo, molto freddo e io avevo in dotazione solo quel paio di pantaloni di tela bianca estivi forniti con il pacco consegnato durante l’arruolamento.
Rabbrividivo di freddo nella trincea.
Fu così che l’11 febbraio chiesi al sergente Fourrier Boisson i pantaloni di lana rossi identici a quelli indossati dai miei compagni.
Rifiutai i pantaloni che mi offrì il sergente. Sporchi di sangue, a brandelli, presi a un soldato morto.
Questo rifiuto mi costò otto giorni di carcere. Ritenendo troppo lieve la punizione, il tenente colonnello Auroux, comandante del reggimento, mi portò davanti alla Corte Marziale.
Voleva dare un esempio alle nuove reclute appena arrivate.
Un esempio di disciplina militare.
Era il 12 febbraio 1915.
“Rifiuto dell’obbedienza” dissero. Ma io avevo combattuto il nemico, avevo rischiato la vita per il mio Paese.
Volevo solo pantaloni di lana. Solo dei semplici pantaloni di lana.
Sentenza senza appello. Mi condannarono a morte.
Elie Cottet-Dumoulin e Mohn André, miei compagni, intervennero in mia difesa.
Non solo non furono ascoltati, ma vennero condannati a dieci anni ai lavori forzati nel Nord Africa.
Altri si rifiutarono di far parte del plotone di esecuzione.
Ma il 13 febbraio finì la mia vita.
Lucien Bersot non è morto da eroe.
Questo dissero alla moglie e alla figlia che dovettero subire le angherie della gente.
Non solo.
Ogni volta che la moglie chiedeva il corpo del marito, l'esercito opponeva rifiuti di ogni genere.
Fino al 12 luglio 1922.
Quando suo marito fu riabilitato.
Era stato giudicato e condannato a morte per un crimine nemmeno previsto dai tribunali speciali.
Solo per il capriccio di un comandante.
La moglie riuscirà ad avere il corpo di suo marito solo nel 1924.
E’ sepolto nel cimitero di Besançon
Yves Boisset ha raccontato la storia di Lucien Bersot nel film televisivo “Le Pantalon“.

bit.ly/37hqzaR
La Prima guerra mondiale. Una guerra assurda. Lucien Bersot fu uno dei seicento soldati francesi “fucilati per esempio”.
Una formula adottata dai tribunali speciali di tutti i Paesi. Compresa l’Italia.
Come per gli otto soldati italiani, appena arrivati sul fronte del Pasubio.
Fucilati per “abbandono di posto dinanzi al nemico”.
Loro, otto soldati, otto meridionali, erano stati inviati in un paese vicino. Non conoscevano la zona, le strade, i sentieri. Ed era notte.
E si erano persi. Si erano semplicemente persi.
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